Creato da LaDonnaCamel il 16/09/2006
Il diario intimo della Donna Camèl con l'accento sulla èl
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"Mille e ancora mille."
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Dalla strada di bonifica che incrocia la Pontina, un sentiero bianco e perpendicolare conduce allo slargo dove un’unica quercia ospita sotto la sua ombra cinque-sei auto di grossa cilindrata e un camioncino Iveco. I partecipanti alla riunione sono già tutti nel caseificio, tranne due nervosissimi che sbattono la portiera e corrono dentro bestemmiando. Dentro c’è il silenzio delle grandi occasioni, i commercianti raccolti a gruppi parlottano piano; il condannato è già seduto su una sedia da stalla, la schiena rigida contro la spalliera. Ma la compostezza del rito è interrotta da un «famme cacà» – il condannato ha bisogno di andare al gabinetto e uno dei due manigoldi che gli stavano ai lati (entrambi vestiti di scuro, con due cravatte Gattinoni che significano “io sono qui straniero e di passaggio”) l’accompagna in fondo dietro un tramezzo, al cesso delle operaie. Approfittando del siparietto uno dei più buffoni sale sulla seggiola e declama, mimando un microfono, «io vi perdòno, ma voi dovete mettervi in ginócchio, tutti, in ginócchio…» – fa la voce da castrato o da donna, parodiando l’accento siciliano; poi finge di svenire tra le braccia e le risate degli altri.
Il leader alza un braccio e i presenti ammutoliscono perché il condannato sta rientrando a riprendere il suo posto; da lontano si sente il vagire di un bufaletto appena nato, coi brandelli di placenta ancora tra le zampe. Viene avanti il volontario, l’esecutore che deve riscattarsi; sputa due volte per terra e calpesta i propri sputi. Quando è alle spalle del condannato estrae dalla tasca la corda cerata, una di quelle con cui si appendono i caciocavalli; subito gli si propone un problema tecnico, se avvolgerla sopra o sotto il pomo d’Adamo; prova e riprova, tra i commenti soffocati. Poi, mentre i due compari tengono il condannato per le braccia guardando altrove, stringe – per un tempo incalcolabile teme di non avere abbastanza forza, le nocche gli si fanno bianche ed escono contemporaneamente due urli che sfidano i secoli: «dài» cominciato dalla vittima e prolungato («daa-aààiii») dal carnefice. Un rivolo sottile di sangue esce dall’orecchio sinistro del garrotato; con fretta forse eccessiva si affollano in parecchi a controllare. Temendo che il cadavere si irrigidisca, o più probabilmente per sfregio, gli tolgono pantaloni e mutande mentre ancora sta seduto; nessuno ride più, si guardano per confermarsi l’un l’altro di essere nel giusto.
Uscendo alla spicciolata ricominciano a distrarsi, la gerarchia dei fatti si aggroviglia; infamia ed espiazione si accavallano per dare somma zero – qualcuno butta l’occhio alla glassa rossastra spalmata tra gli eucalipti verso mare: «a Rafé je fusse piaciuto ’stu tramonto». L’aria è fresca, lunghi sfilacci di nuvole striano il cielo, rivangano il futuro. Uccidere è una fede.
Questo è il primo dei tre incipit che si susseguono nel romanzo di Walter Siti Resistere non serve a niente. Può sembrare strano o come minimo curioso dotare un romanzo di tre incipit, come se l'autore volesse rimediare con la quantità a una qualche mancanza che percepisce solo lui. Walter Siti si mette spesso in mezzo e anche questo è un artificio letterario: non è insicurezza, al contrario è mestieraccio consumato che a me mi fa urlare dal godimento. Poi mi dicono che sono postmoderna e va bene, sarà anche così: ciascuno ci abbiamo i suoi bravi difetti. (Ne ho già parlato ma invecchiando ci si ripete, è un altro difetto dei postqualcheccosa)
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