Creato da LaDonnaCamel il 16/09/2006
Il diario intimo della Donna Camèl con l'accento sulla èl
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"Mille e ancora mille."
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Mino posizionò i treppiedi con le luci in tinello, ai due lati del seggiolone. Si era fatto prestare da un amico una cinepresa, si era messo in testa di fare un filmino alla bambina prima che diventasse grande. Le foto non bastavano. Ne aveva fatte tantissime e le aveva stampate in bagno, con la lampadina rossa sul mobiletto dello specchio e le bacinelle nella vasca. Aveva provato a tagliare le inquadrature, usando diversi gradi di morbidezza della carta, tempi di esposizione, ingrandimenti.
Non erano male come foto ma gli sembrava mancasse qualcosa.
Per il film aveva buttato giù una specie di copione, una serie di scene per non trovarsi davanti l’imbarazzo di non sapere cosa farle fare, appunti su un foglio di carta a quadretti. La Bolex la sapeva maneggiare, aveva fatto da assistente al suo amico ai matrimoni, gli aveva insegnato le regole di base: campo e controcampo, dove mettere le luci, durata delle sequenze. Avrebbe fatto qualche prova – doveva pensarci bene visto che la pellicola costava, ma avrebbe anche improvvisato e sarebbe stata buona la prima.
Luisa lo seguiva in tutto anche se lui non le spiegava per filo e per segno come funzionavano le cose, a volte capiva al volo, altre volte accettava come fatto compiuto, si adeguava, le andava bene così. Poi succedeva che nel mezzo della notte lui la abbracciasse disperato, “non voglio morire, non voglio morire” le gridava nell’orecchio. Lei gli accarezzava la fronte, gli faceva quel suono con la lingua a schioccare sul palato come per chiamare i gatti, “ stai sognando”, gli diceva piano, “svegliati, non è niente, ci sono io”. Allora lui borbottava qualcosa e si girava dall’altra parte, il giorno dopo non si ricordava niente.
Anita fece tutto quello che le veniva chiesto: batteva le mani, mangiava la pappa col cucchiaio da un piatto vuoto, appoggiava la testa sul piano del seggiolone facendo finta di dormire, rideva e piangeva a comando. Luisa fuori campo le diceva fai questo e fai quello e lei lo faceva. Due, tre, tante volte. Mino girava la manovella della ricarica e poi si spostava da una parte e dall’altra e filmava, avrebbe sistemato le sequenze nel montaggio. La misero nel lettino in pigiama e filmarono il finto risveglio, con lei che si sfregava gli occhi per la luce forte puntata contro. La filmarono nuda nella vasca da bagno e seduta sul vasino, davanti al giradischi mentre ballava girando in tondo con le mani in alto e col montgomery sulla porta di casa, pronta per uscire – ma era una finta anche quella, le sequenze in esterno le avrebbero fatte un’altra volta, che quel giorno pioveva.
“Speriamo non venga tua madre proprio adesso” aveva detto a Luisa. Lei non aveva risposto. Non aveva voglia di litigare e comunque anche lei pensava che era meglio così, li sapeva a memoria i commenti sarcastici che avrebbe fatto, “cretinate” nella migliore delle ipotesi.
Mino aveva voluto che Luisa partecipasse a qualche scena: lei si pettinò, si mise le scarpe col tacco e il rossetto, anche se era in bianco e nero. Davanti alla cinepresa era impacciata, non sapeva dove mettere le mani, dove guardare. Anita invece era naturale, suo papà sorrideva e sorrideva anche lei.
Per i titoli aveva preparato un vetro, tolto dalla cornice di un quadro. Ci aveva scritto sopra in stampatello, a tempera bianca: “Anita - Son piccina son carina.” . Luisa lo teneva in mano tra la macchina da presa e la bambina che faceva ciao dal seggiolone.
Negli anni a venire avrebbe comprato le lettere di legno fatte apposta - Luisa le avrebbe usate per scrivere MINO con lo zucchero a velo su una torta di compleanno. Avrebbe comprato anche una cinepresa tutta sua, una Bolex in doppio otto come quella del suo amico ma con lo zoom e più avanti una superotto elettrica e una compatta che ci stava in tasca. Avrebbe girato ore di filmini da riempire uno scatolone. Filmini a colori che giuntava testa contro coda dentro grosse pizze che etichettava Magreglio estate 1964, oppure solo l’anno, ’66, o niente.
Qualche settimana dopo si fece prestare il proiettore e la giuntatrice. Guardava e riguardava e poi preparava gli spezzoni mettendo i rotolini in fila sul tavolo, con vicino un bigliettino che descriveva la scena: bagno, ballare, seggiolone, carezza alla bambola. Inseriva i pezzi di pellicola nella macchinetta, facendo combaciare i buchi con i dentini e prima di mettere la colla grattava la gelatina con una attrezzo di metallo fatto apposta, una lastrina zigrinata come una lima, legata alla giuntatrice con una catenella per non perderla. Molti anni dopo Anita montava allo stesso modo i suoi filmini delle vacanze, l’unica differenza era che usava un nastro adesivo speciale invece della colla e non doveva grattare.
Si era divertito un mese intero, tra le domeniche a girare e le serate a montare, per cinque minuti di filmato. In una scena compariva anche lui - Luisa aveva insistito - con la bambina in braccio che gli tirava il naso e poi nascondeva la testa sulla sua spalla.
Questo è L'occhio del coniglio, un romanzetto che ho scritto io e che mi piace offrire ai miei blogamici e agli sfaccendati che passano di qui.
Già che faccio l'editore di me stessa, ho prodotto anche una versione digitale, mobi, epub e pdf. Se ti stanchi di leggere a schermo e la vuoi mettere nel tuo lettore eBook oppure se hai occasione di stampare a ufo e vuoi il pdf, scrivi a ladonnacamel@gmail.com e te la mando. Gratis e senza DRM!
(Però poi non venire qui a spoilerare il finale eh, t'ammazzo! Che, se non si era capito, le puntate qui continuerò a metterle, al ritmo di due a settimana, più o meno.)
Quest' opera è distribuita con licenza Creative Commons Attribuzione - Non commerciale 3.0 Italia.
Le foto, dove non specificato, son prese in internet.
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