Creato da LaDonnaCamel il 16/09/2006
Il diario intimo della Donna Camèl con l'accento sulla èl
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"Mille e ancora mille."
« Strega comanda color? Nero! | Io e il Piddì siamo fatti così » |
La pioggia picchiettava sulla coperta e gli scrosci si accompagnavano al rullare delle drizze contro gli alberi, sotto le raffiche che spazzavano il porto di Cannigione. In cabina le gocce della condensa rigavano i vetri appannati degli oblò.
Sul tavolo del quadrato erano sparse le Caran d’Ache di Giulio, le fotocopie dei compiti delle vacanze, i quaderni di Viola che in un angolo svolgeva le sue espressioni di matematica. Sull’altro divano Anita, Elisabetta e Giulio coloravano a testa china.
“Se metti il dito vicino al bordo, così, vedi?, eviti di andare fuori dai margini” disse Elisabetta. “Cerca di calcare di meno, guarda che rigacce.”
Lui alzò le spalle.
“Mi fa male la mano” disse Anita massaggiandosi il polso.
Quando calava il vento e la pioggia aveva una tregua si sentiva solo lo strofinio delle mine sulla carta.
“Ma quanti compiti gli hanno dato? È normale?”
“Se per i primi due mesi non fai un tubo, poi sembrano tanti.”
“Mi passi il temperino?”
“È lì.”
Elisabetta spostò i fogli, “Dove?”
Giulio scivolò sotto al tavolo e riemerse dall’altra parte. Le mostrò i dorsi delle mani chiuse a pugno, “indovina.”
Lei sorrise, lo guardò, piegò la testa da un lato e battè il dito sulla destra. Lui la ruotò, la aprì: vuota. Rise, poi aprì l’altra mano, vuota anche quella.
“Che scherzetto divertente.” Disse lei scuotendo la testa, “Peccato che ho finito la punta del verde chiaro e questa foglia della E di edera è ancora mezza bianca.”
Senza alzare la testa, Viola frugò nella sua bustina, tirò fuori un temperamatite di metallo e lo mise sul tavolo. “Però poi me lo ridai.”
“Metto su un po’ di té, chi ne vuole?” Anita aveva finito il suo disegno, un grosso cane diviso in settori come un puzzle e si era alzata dal tavolo. Con lo strofinaccio dei piatti asciugò una parte dell’oblò della cucina e guardò fuori. Sembrava inverno, tutto grigio di nebbia e pioggia che gocciolava giù dalle attrezzature delle altre barche. Le banchine, in fondo, erano nere e lucide. Il mare da lì non si vedeva ma se lo immaginava freddo e viscido. Si sfregò le braccia. “Quasi quasi accendo la stufetta.”
I gatti erano sbucati fuori dai loro nascondigli e si appoggiavano alle sue gambe. Lei mise il bollitore sul fuoco, senza farci caso e tutti e due andarono davanti alla ciotola vuota. Seguivano i suoi movimenti, agitando l’ultimo pezzetto della coda ritta in alto.
“Non è che tutte le volte che vengo davanti alla cucina vi devo dare la pappa” disse. Si chinò per aprire lo sportello sotto il lavandino e Suopopo le andò vicino.
“Hanno fame?” disse Elisabetta.
“Sono golosi” rise Anita. Versò un po’ di croccantini nella ciotola, Suapopa si avvicinò per prima, li annusò, si stirò allungando le zampe davanti e se ne tornò in cuccetta con aria delusa. Suopopo si fece avanti.
“Ho fame.” Giulio si appoggiò allo schienale e con questo voleva dire che non avrebbe più colorato un centimetro di carta.
“Metti via, che facciamo merenda.”
“Fammi finire la mia edera, che poi vado. Si è fatto tardi.”
Si sentì un tonfo da fuori. Elisabetta e i bambini alzarono la testa. La barca beccheggiò lievemente e si aprì il portello. Gli stivali bagnati di Carlo, poi i pantaloni bagnati della cerata di Carlo e poi Carlo intero e bagnato comparvero sulla scaletta.
“Madonna come viene” disse scrollandosi sull’ultimo gradino.
“Sei tornato presto, ti aspettavamo per stasera. Levati la cerata che bagni dappertutto” disse Anita.
“Non siamo riusciti a” disse lui. Stava togliendosi la giacca e si fermò a metà dell’operazione. Guardava verso il tavolo.
“Ciao.” Disse dopo un momento. Appese la giacca al gancio vicino alla scaletta. Si sedette per togliersi gli stivali e sbirciò ancora verso il tavolo, senza farsi notare.
Elisabetta aveva abbassato la testa e colorava concentrata sul disegno. I capelli le ricadevano sul foglio come se volesse nascondere quello che stava facendo. La matita scorreva sulla carta, urtando contro l’indice della sinistra messo a proteggere il contorno della foglia di edera.
Carlo si sfregò le mani e si sedette sul divano, dall’altra parte della tavola.
“Tutto bene?” disse a voce un po’ troppo alta.
Elisabetta trasalì.
“Freddino eh” disse ancora Carlo. Appoggiò le mani sul legno, allargando le dita come se dovesse prenderne la misura.
Viola raccolse i suoi quaderni e il libro, prese il temperino e chiuse l’astuccio, mettendo tutto via, nello zainetto.
Giulio si dondolava avanti e indietro.
Il bollitore fischiava, Anita non ci badò. Aspettava.
Elisabetta alzò lo sguardo e incontrò gli occhi di Carlo. Una raffica di vento fece tremare la barca e lo scroscio che seguì coprì tutti i rumori.
La schiena appoggiata al lavandino, Anita osservava le loro facce spostando gli occhi dall’uno all’altra. Spense il fuoco e portò in tavola l’acqua calda.
“Vuoi un po’ di té?” disse rivolta verso Carlo.
Mi sa che ha ragione Ignazio, pensò mentre riempiva le tazze. Non solo le cose sono vere anche se non le sai, ma restano vere anche quando sono finite. Anzi, forse più sono finite e più restano vere. Irrevocabili.
Viola aveva spostato i disegni da una parte, per fare spazio. Giulio prese i biscotti e li mise in mezzo.
(continua)
Questo è L'occhio del coniglio, un romanzetto che ho scritto io e che mi piace offrire ai miei blogamici e agli sfaccendati che passano di qui.
Già che faccio l'editore di me stessa, ho prodotto anche una versione digitale, mobi, epub e pdf. Se ti stanchi di leggere a schermo e la vuoi mettere nel tuo lettore eBook oppure se hai occasione di stampare a ufo e vuoi il pdf, scrivi a ladonnacamel@gmail.com e te la mando. Gratis e senza DRM!
(Però poi non venire qui a spoilerare il finale eh, t'ammazzo! Che, se non si era capito, le puntate qui continuerò a metterle, al ritmo di due a settimana, più o meno.)
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