Creato da LaDonnaCamel il 16/09/2006
Il diario intimo della Donna Camèl con l'accento sulla èl
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"Mille e ancora mille."
« La stessa tonalità di Marco C. | L'EDS dell'arancione è... » |
Sono ancora in tempo per scrivere un pezzo nuovo per l'eds che finisce questa sera, eccolo qui il pezzo che ho scritto, lo metto dopo il ricapitolo, basta scrollare un po' e lo trovi.
Scrivi un racconto sincero
coloralo di arancione nel tuo blog
mettici uno scherzetto divertente
ma anche una canzone tropicale
che dentro ci sia almeno un animale
un po' di umorismo se puoi e
se ti piace, se no pazienza e pace
due settimane è il tempo
quando hai finito, dillo.
Dillo!
Tutti quelli che hanno detto:
Pronto soccorso
Avevano chiamato l'ambulanza per precauzione, così gli era stato detto, ma Filippo non si sentiva così malato da doversi sdraiare. Aveva litigato col barelliere e alla fine erano giunti a un compromesso, sarebbe sceso fino all'auto con le sue gambe, ma si sarebbe sdraiato durante il tragitto verso il pronto soccorso.
Era andato giù lungo e il suo capo non aveva voluto assumersi la responsabilità, intanto vai a farti vedere, gli aveva detto, quando mi porti il foglio di guarigione ti riammetto al lavoro. Lui aveva alzato le spalle, era stato incosciente per pochi minuti, che sarà mai. Un calo di zuccheri per via della dieta feroce, l'ennesima. Non stavano nemmeno sui ponteggi, stavano lavorando alle pareti interne. Aveva anche il cane a casa, se lo tenevano dentro come poteva fare? Ma il capo aveva paura dell'inail, aveva detto che in caso mandava qualcuno a prenderlo, il cane. Non si può fare altrimenti, il capo ha sempre ragione.
Al pronto soccorso aveva camminato dalla barella al lettino, ce n'erano tanti uno accanto all'altro, separati da tendaggi verdini tirati su una struttura precaria. Sembravano quelle docce rimediate, con le tende montate su vecchie vasche da bagno, si poteva immaginare lo smalto scrostato e le piastrelle sbeccate. Qui non c'erano piastrelle, solo una serie di malati e nessuna privacy, si sentiva tutto. Le voci dei pazienti che si lamentavano, i dottori e le dottoresse che facevano le domande, gli infermieri e le infermiere che prendevano le consegne.
La riconobbe subito, Carla Santarini, con quella erre che faceva tremare i vetri. Doveva essere la dottoressa da come le rispondevano, rispettosi. Filippo non sapeva che avesse fatto medicina e che si fosse laureata e che fosse finita lì, ma da qualche parte ci finiscono tutti e Milano è piccola. E poi era medico anche sua madre, era prevedibile come era stato previsto che lui avrebbe lavorato nell'edilizia, muratore come suo padre e i suoi tre fratelli maggiori.
Tutti i destini si incrociano, primo o poi, pensò Filippo. Ascoltava senza vergogna quello che dicevano gli altri malati, sentiva le voci dei medici e paramedici sempre più vicine, tra poco sarebbero stati lì. Chissà se anche lei l'avrebbe riconosciuto?
Lui era il grassone della classe. Capelli rapati e guance rosse, al refettorio vuotava sempre il piatto. Il suo e quello dei vicini, di nascosto dalla maestra.
Lei era bella. Non aveva altre qualità, non rilevanti. Man mano che la voce si avvicinava la vide com'era, snella, alta anzi altissima, era più alta anche dei maschi, con i riccioli tenuti fermi dalle mollettine colorate, i fuseaux a fiori e la felpa arancione.
Peccato che non vedesse altro che le sue tre amiche. Teneva lo sguardo sempre tarato a quarantacinque gradi di alzo, come un mortaio che deve sparare più lontano. Inutile dire che lui stava di molto sotto la traiettoria di tiro: invisibile.
Erano in seconda o in terza, forse. Non era la ricreazione, di questo è sicuro: la maestra li portava nel corridoio a giocare a palla prigioniera durante le ore nomali. Era forte la maestra Giovanna, faceva tutte le cose a modo suo e i bambini le volevano bene anche se pretendeva molto. Gli era dispiaciuto soprattutto per lei, si era messa a piangere, era più disperata anche di Carla.
Lui poi che aveva fatto mai? Aveva allungato un piede. Vabbè, le aveva proprio fatto lo sgambetto. Era intenzionale. Non correva forte, non aveva buona mira con la palla, non sapeva fare niente, Filippo, non eccelleva. Esisteva e basta.
Lei, Carla, era volata in avanti verso il calorifero. Era talmente sicura di sè che non aveva nemmeno messo giù le mani.
Quando si era alzata e si vedeva quella finestrella, quel buco nero, quel pezzo di nulla spaventoso e ipnotico nella sua bocca, insomma il dente rotto, metà della classe si era messa a piangere.
L'altra metà si era messa a quattro zampe, a cercare il frammento per poterlo riattaccare, se mai qualcuno fosse stato capace.
Poi le bidelle e la maestra correvano avanti e indietro, a chiamare l'ambulanza, a chiamare i genitori, a portarle bicchieri d'acqua e carezze.
Per non lasciarli in classe da soli era venuto il direttore. Gli aveva fatto cantare la macarena con tutta la coreografia e i gesti delle mani lungo il corpo e sul banco come si faceva, ripensandoci gli scappa ancora da ridere ma a quei tempi non rideva.
Lui aveva sperato che lei lo odiasse. O almeno lo disprezzasse. Ma invece no, aveva continuato a ignorarlo. Già da quella volta avrebbe dovuto immaginare quale sarebbe stato il suo posto nel mondo.
Filippo si alzò a sedere. Si domandò che faccia potesse avere oggi. Chissà come tiene i capelli. Lunghi, corti, arricciati o raccolti. Forse avrà il camice aperto su una maglietta aderente, lo stetoscopio che sballonzola davanti a un seno generoso. Perché no? magari ha messo su peso.
Seh, è impossibile, non solo improbabile. Sarà secca o alla meglio palestrata, con i capelli striati di meches e la pelle bianca senza trucco.
Si allacciò le scarpe. Le voci erano dietro la tenda. Parlavano con quel ragazzo tunisino che aveva la mano fasciata, si erano guardati all'accettazione, si erano riconosciuti e non si erano detti niente, non ci voleva una laurea per capire che era un collega.
Filippo scivolò dietro la tenda senza far rumore. In corridoio raddrizzò le spalle e svoltò a sinistra verso l'uscita.
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