Creato da LaDonnaCamel il 16/09/2006
Il diario intimo della Donna Camèl con l'accento sulla èl
 

Messaggi di Febbraio 2013

EDS Sniff sniff - odori antichi

Post n°704 pubblicato il 28 Febbraio 2013 da LaDonnaCamel
 
Foto di LaDonnaCamel

Siamo agli sgoccioli, ancora pochi giorni per la scadenza di questo eds che richiede di scrivere un raccontino dove il naso ha una rilevanza centrale, difatti sta proprio al centro di quasi tutte le facce, e gli odori soprattutto ma non solo.

Il paletto che ci ho messo è questo qua: la storia che stai per raccontare deve essere ambientata non meno di 50 anni fa, quindi prima del 15 febbraio 1963, quando tra l'altro ancora non era uscito nessun disco dei Beatles: ci puoi credere? Hanno già scritto in sei, manchi solo tu!

S.Sebastiano di Dario

Terre lontane di Melusina

Ucci ucci di Hombre

Odori di ricordi di Lillina ma anche questo che potrebbe degnamente farne il seguito.

L'abbondanza di cozze - Fevarin e carnazza

L'odore della SIPE di Pendolante

Profumo di marsiglia NEW!

Il profumo del rinnovamento NEW! NEW!

E io? manco anche io lo so, ma ce la posso fare e ce la farò! Presto presto ce la fo.

 

profumo

(questo per esempio è stato creato nel 1921, ci sta ci sta)

 
 
 

L'occhio del coniglio 15. Tornando dal ristorante

Post n°703 pubblicato il 27 Febbraio 2013 da LaDonnaCamel
 
Foto di LaDonnaCamel

Tornando dal ristorante si fermarono alla spiaggia vicino al porto. Il mare era così calmo che sembrava un vetro nero. L’aria profumava di gelsomino, erano i pergolati delle ville, i graticci sui muretti bassi che circondavano i giardini senza togliere la vista. Di giorno i bagnanti potevano guardare dentro, si vede che non c’era niente da nascondere lì.
Camminavano senza fretta, le guance calde per la giornata al sole, rilassati e satolli. Si erano concessi anche una bottiglia di Vermentinu gelato che  aveva reso Carlo più loquace e gli occhi di Anita più lucenti. Stava raccontando di un tizio che salendo a bordo di un motoscafo aveva fatto la spaccata prima di cadere in acqua e Anita rideva rovesciando indietro la testa.
Giulio si levò i sandali, li mise in mano a sua madre e si buttò avanti. C’era un cane enorme che correva sul bagnasciuga, un pastore maremmano che sembrava un orso. Un uomo gli tirava qualcosa e lui si buttava in acqua, poi usciva scrollando quel pelo lungo e ricciuto, faceva una finta come per riportare e correva via di nuovo. Giulio si avvicinò e quando fu a meno di due metri il cane gli abbaiò contro. Si fronteggiarono per un tempo lunghissimo, si erano fermati entrambi e chissà cosa si stavano dicendo senza parlare.
“Mamma…” Viola prese la mano di Anita e rallentò fino a fermarsi. Guardava animale e fratello che si sfidavano, non si capiva se era un gioco o una rissa o tutte e due.
Carlo aveva raddrizzato le spalle, fece due passi lunghi verso il bambino. Il padrone del cane fischiava e lo chiamava per nome, Tulè o Tulet, non si capiva. Non c’era altra gente sulla spiaggia, o comunque non lì vicino. La sabbia era fresca, le piccole buche risaltavano nette per le ombre dei lampioni tra le case. Il cane, l’uomo che si era fermato e ora guardava verso di loro, due barche a remi in secca poco lontano, Giulio ritto a gambe larghe, i piedi nudi affondati nella sabbia e le braccia lungo i fianchi, tutto si stagliava contro il grigio della riva e il nero del mare con una precisione sorprendente, per essere notte, come quei libri per bambini in cui i personaggi del disegno sono ritagliati nel cartone delle pagine e quando si apre saltano su, sagome piatte ma concrete.
Il cane ringhiò piano. Alzò il sedere e fece un piccolo movimento chinando la testa tra le zampe davanti. Poi saltò. Giulio fu rovesciato indietro e il cane gli fu sopra in un attimo.
Il padrone si mise a correre chiamandolo, urlava il suo nome e altre cose in francese, Tulè, connard, batard, fil de chienne e chi lo sa, il fiatone se ne portava via la metà. Carlo raccolse dalla sabbia un pezzo di legno e urlando a sua volta si buttò sopra il cane. Anita e Viola si erano bloccate mano nella mano e guardavano la scena senza parlare.
Carlo mise il bastone tra i denti del cane e lo spinse via con forza. Quello lo addentò e cercava di strapparglielo di mano, ringhiava e tirava voltando la testa da una parte e dall’altra. Carlo gli mollò il bastone e prese su il bambino, che lo abbracciò stretto e gli nascose la faccia contro il collo. Il padrone acchiappò la bestia per il collare e gli diede due o tre botte sul sedere con la ciabatta, intanto gli parlava nell’orecchio. Il cane mordeva il bastone, lo metteva giù per abbaiare un po’, tenendolo tra le zampe davanti e poi lo riprendeva.
“Ti ha fatto male?” Anita si era avvicinata con Viola sempre per mano.
Giulio si teneva stretto al collo di suo padre.
“Mi ha leccato la faccia” disse dopo un po’ asciugandosi le lacrime con la manica della maglietta. Fece un sorrisetto e si appoggiò alla spalla di papà.
“Mi hai fatto spaventare,” disse Viola, “credevo che ti avrebbe mangiato in un boccone, era grosso come un lupo.”
“Era grosso come una mucca” disse Anita ridendo.
“E avrebbe fatto solo bene” disse Carlo scuotendo la testa, “quante volte gli abbiamo detto di non toccare i cani sconosciuti.”
Il tizio del cane si era avvicinato, voleva chiedere scusa. Aveva messo guinzaglio e museruola a Tulè, che ora era calmo e guardava in giro con gli occhi umidi.
“Non importa” disse Anita, “Rien, rien.”
“Sono mortifiato”  si vedeva che gli dispiaceva,
“Rien” disse ancora Anita scuotendo una mano. Si allontanarono, stringendosi gli uni agli altri.
Giulio si fece portare in braccio da suo padre fino quasi alla barca.
“Lavati le mani e la faccia” disse Viola prima di salire a bordo, “se no i gatti ti soffiano, con questa puzza di cane.”
“Me le lavo anch’io” disse Anita, “gli ho fatto una carezza”.
“Sì, ma dopo che gli aveva messo la museruola” puntualizzò Viola salendo sulla passerella.

(continua)

la spiaggia di notte

Questo è L'occhio del coniglio, un romanzetto che ho scritto io e che mi piace offrire ai miei blogamici e agli sfaccendati che passano di qui.

Già che faccio l'editore di me stessa, ho prodotto anche una versione digitale, mobi, epub e pdf. Se ti stanchi di leggere a schermo e la vuoi mettere nel tuo lettore eBook oppure se hai occasione di stampare a ufo e vuoi il pdf, scrivi a ladonnacamel@gmail.com e te la mando. Gratis e senza DRM!
(Però poi non venire qui a spoilerare il finale eh, t'ammazzo! Che, se non si era capito, le puntate qui continuerò a metterle, al ritmo di due a settimana, più o meno.)

 

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Le foto, dove non specificato, son prese in internet.

 

 
 
 

Gli amici del giaguaro o della percezione di una sconfitta

Post n°702 pubblicato il 27 Febbraio 2013 da LaDonnaCamel
 

Solo due parole prima di rientrare nella vita di tutti i giorni: sono stata ai seggi come rappresentante di lista del PD e intanto mi porto a casa una bella esperienza umana. È stato faticosissimo ma già lo sapevo, in cambio ho seguito in diretta la trasformazione delle persone in numeri e questo è molto utile per mantenersi nei paraggi della realtà.
La realtà che, poverina, mi sembra la più strapazzata negli ultimi mesi: colpa dei sondaggi, delle promesse iperboliche, delle speranze e dei sogni.
Il mio partito ha perso il 28% abbondante dei voti, ma il pdl il 46, la lega il 54 e l'udc il 70. Quindi c'è poco da vantarsi, è uno solo quello che ha vinto e gli è andata incredibilmente bene, per un soffio non gli tocca assumersi la responsabilità di aggiustare tutto quello che è stato rotto: avrei proprio voluto vedere come se la cavava. Ciò non toglie che ora che son dentro, un bel po' di vaffanculo se li possono anche prendere e non solo mandare.
Vediamo che fanno e, quanto a noi, cerchiamo di non crocefiggerci da soli, che siamo specialisti. C'è tanto da fare e da capire, per esempio come è stato possibile che Ambrosoli non abbia convinto dopo tutto quello che si è saputo della lega e del celeste in Lombardia: questo per me resta il mistero più inquietante.
Bè, ci siamo svegliati. Adesso una doccia, un caffè e poi fuori, nel mondo reale.

 
 
 

L'occhio del coniglio 14. Mino posizionò i treppiedi.

Post n°701 pubblicato il 24 Febbraio 2013 da LaDonnaCamel
 
Foto di LaDonnaCamel

Mino posizionò i treppiedi con le luci in tinello, ai due lati del seggiolone. Si era fatto prestare da un amico una cinepresa, si era messo in testa di fare un filmino alla bambina prima che diventasse grande. Le foto non bastavano. Ne aveva fatte tantissime e le aveva stampate in bagno, con la lampadina rossa sul mobiletto dello specchio e le bacinelle nella vasca. Aveva provato a tagliare le inquadrature, usando diversi gradi di morbidezza della carta, tempi di esposizione, ingrandimenti.
Non erano male come foto ma gli sembrava mancasse qualcosa.
Per il film aveva buttato giù una specie di copione, una serie di scene per non trovarsi davanti l’imbarazzo di non sapere cosa farle fare, appunti su un foglio di carta a quadretti. La Bolex la sapeva maneggiare, aveva fatto da assistente al suo amico ai matrimoni, gli aveva insegnato le regole di base: campo e controcampo, dove mettere le luci, durata delle sequenze. Avrebbe fatto qualche prova – doveva pensarci bene visto che la pellicola costava, ma avrebbe anche improvvisato e sarebbe stata buona la prima.
Luisa lo seguiva in tutto anche se lui non le spiegava per filo e per segno come funzionavano le cose, a volte capiva al volo, altre volte accettava come fatto compiuto, si adeguava, le andava bene così. Poi succedeva che nel mezzo della notte lui la abbracciasse disperato, “non voglio morire, non voglio morire” le gridava nell’orecchio. Lei gli accarezzava la fronte, gli faceva quel suono con la lingua a schioccare sul palato come per chiamare i gatti, “ stai sognando”, gli diceva piano, “svegliati, non è niente, ci sono io”. Allora lui borbottava qualcosa e si girava dall’altra parte, il giorno dopo non si ricordava niente.
Anita fece tutto quello che le veniva chiesto: batteva le mani, mangiava la pappa col cucchiaio da un piatto vuoto, appoggiava la testa sul piano del seggiolone facendo finta di dormire, rideva e piangeva a comando. Luisa fuori campo le diceva fai questo e fai quello e lei lo faceva. Due, tre, tante volte. Mino girava la manovella della ricarica e poi si spostava da una parte e dall’altra e filmava, avrebbe sistemato le sequenze nel montaggio. La misero nel lettino in pigiama e filmarono il finto risveglio, con lei che si sfregava gli occhi per la luce forte puntata contro. La filmarono nuda nella vasca da bagno e seduta sul vasino, davanti al giradischi mentre ballava girando in tondo con le mani in alto e col montgomery sulla porta di casa, pronta per uscire – ma era una finta anche quella, le sequenze in esterno le avrebbero fatte un’altra volta, che quel giorno pioveva.
“Speriamo non venga tua madre proprio adesso” aveva detto a Luisa. Lei non aveva risposto. Non aveva voglia di litigare e comunque anche lei pensava che era meglio così, li sapeva a memoria i commenti sarcastici che avrebbe fatto, “cretinate” nella migliore delle ipotesi.
Mino aveva voluto che Luisa partecipasse a qualche scena: lei si pettinò, si mise le scarpe col tacco e il rossetto, anche se era in bianco e nero. Davanti alla cinepresa era impacciata, non sapeva dove mettere le mani, dove guardare. Anita invece era naturale, suo papà sorrideva e sorrideva anche lei.
Per i titoli aveva preparato un vetro, tolto dalla cornice di un quadro. Ci aveva scritto sopra in stampatello,  a tempera bianca: “Anita - Son piccina son carina.” . Luisa lo teneva in mano tra la macchina da presa e la bambina che faceva ciao dal seggiolone.
Negli anni a venire avrebbe comprato le lettere di legno fatte apposta - Luisa le avrebbe usate per scrivere MINO con lo zucchero a velo su una torta di compleanno. Avrebbe comprato anche una cinepresa tutta sua, una Bolex in doppio otto come quella del suo amico ma con lo zoom e più avanti una superotto elettrica e una compatta che ci stava in tasca. Avrebbe girato ore di filmini da riempire uno scatolone. Filmini a colori che giuntava testa contro coda dentro grosse pizze che etichettava Magreglio estate 1964, oppure solo l’anno, ’66, o niente.
Qualche settimana dopo si fece prestare il proiettore e la giuntatrice. Guardava e riguardava e poi preparava gli spezzoni mettendo i rotolini in fila sul tavolo, con vicino un bigliettino che descriveva la scena: bagno, ballare, seggiolone, carezza alla bambola. Inseriva i pezzi di pellicola nella macchinetta, facendo combaciare i buchi con i dentini e prima di mettere la colla grattava la gelatina con una attrezzo di metallo fatto apposta, una lastrina zigrinata come una lima, legata alla giuntatrice con una catenella per non perderla. Molti anni dopo Anita montava allo stesso modo i suoi filmini delle vacanze, l’unica differenza era che usava un nastro adesivo speciale invece della colla e non doveva grattare.
Si era divertito un mese intero, tra le domeniche a girare e le serate a montare, per cinque minuti di filmato. In una scena compariva anche lui - Luisa aveva insistito - con la bambina in braccio che gli tirava il naso e poi nascondeva la testa sulla sua spalla.

fellini

Questo è L'occhio del coniglio, un romanzetto che ho scritto io e che mi piace offrire ai miei blogamici e agli sfaccendati che passano di qui.

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Ricorda questo momento

Post n°700 pubblicato il 21 Febbraio 2013 da LaDonnaCamel
 
Foto di LaDonnaCamel

Non volevo commemorare il compleanno di DFW, volevo solo commemorare il mio settecentesimo post con qualcosa di non troppo banale, magari di mio se possibile, ma è un periodo in cui sono un po' scarica, a volte succede. Però poco fa mi è cascato l'occhio su queste due lettere, le ha messe un mio amico su facebook e ho sentito subito risuonare lo stesso mugugno. La risposta non offre una soluzione e nemmeno una consolazione vera e propria e però fa un po' bene. Fa anche un po' male ma questo è David Foster Wallace, si sa.
Mi dicono che era inedita ma ora, ovviamente, non più.

Nel Dicembre del 2005, dovetti ritornare ad abitare a casa con i miei genitori, senza un soldo e senza nessuna immediata prospettiva per il futuro, e mi sentivo stanca. Avevo assistito al discorso inaugurale di DFW al Kenyon College (dove ho studiato) e pensai avrebbe potuto avere qualche saggio consiglio da darmi, per cui trovai il suo indirizzo a Pomona e gli scrissi dei miei problemi. Questa è stata la sua risposta. (Amy Bergen)


Cara Signorina Bergen,

la Sua lettera è interessante e commovente, e sicuramente non vi ho trovato traccia di “lamenti” (benché abbia notato che lei e io abbiamo in comune una cattiva abitudine: entrambi facciamo in modo di giudicare noi stessi nel peggior modo possibile, prima che chiunque altro possa farlo – e poi facciamo in modo che chiunque parli con noi sappia che lo facciamo [perché? Perché ammirino il nostro rigore? Perché non abbiano il coraggio di giudicarci se già ci siamo detti tante cose brutte da soli?]). È un ‘problema di fiducia in sé’ è la diagnosi che ho ricevuto 5 miliardi di volte dalle persone – ma mi sembra che quasi tutti facciamo così. L’illusione è che gli altri siano OK, che soltanto noi siamo quelli fuori di testa, che solo a noi manchi la chiave, come se fossimo stati assenti proprio quel giorno a scuola o qualcosa del genere. Invece, siamo tutti uguali. Alcuni appaiono esattamente fuori di testa come lo sono nella realtà, altri no. Ma capita a tutti noi a volte di essere paralizzati. E disperati. A tutti noi. Abbiamo delle crisi.

Lei sta avendo ora una di queste crisi. Le “vite favolose, interessanti o stabili” dei suoi amici, sono solo le loro vite fino ad ora, viste da fuori. Le loro crisi arriveranno … e se ne andranno, e poi torneranno. È difficile essere giovani e intelligenti e schiacciati da troppe scelte. Ci può essere anche solo l’obbligo di Riuscire o Essere Felice (scelga il suo luogo comune intossicante) senza avere nessuna disponibiltà a fare ciò che è richiesto per ottenere queste cose. Tutto questo insieme ci sembra una pazzia, ci fa sentire come se noi fossimo impazziti. Ma non lo siamo – le persone veramente pazze non si preoccupano di se stesse nel modo in cui lei lo fa. MI creda.

Soltanto, sia più sveglia di me. Quando le cose gireranno per il loro verso, e i pezzi andranno al loro posto e il suo destino sembrerà sia stato ritagliato per lei e addirittura in discesa, e tirerà un sospiro di sollievo e si sentirà bene, ricordi questo momento, sapendo che tornerà ancora. E che questi possono essere I momenti più importanti per lei come persona – momenti in cui imparerà la pazienza e la compassione per se, e il Mistero del tutto. Non ha senso. E nemmeno questa risposta, probabilmente (vede? lo faccio anch’io).

il Suo,

David W.

 
 
 

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