Creato da LaDonnaCamel il 16/09/2006
Il diario intimo della Donna Camèl con l'accento sulla èl
 

Messaggi di Marzo 2013

L'occhio del coniglio 24. Mi ha telefonato la mamma di Luigi - Secondo pezzo

Post n°724 pubblicato il 31 Marzo 2013 da LaDonnaCamel
 
Foto di LaDonnaCamel

(Il primo pezzo è qui)

 

 

Settembre a Milano è il mese più bello, pensò tornando a casa dopo gli orali. Ancora due settimane prima che ricominci la scuola, non fa caldo e non fa freddo e se si ha cura di mettere la crema le gambe restano abbronzate, si può andare in giro senza calze.
Marilena aveva avuto matematica e fisica, era rientrata anche lei ma i suoi genitori erano andati in crociera, era a casa da sola, a parte la mattina che c’era la donna di servizio. Con la scusa di finire i compiti delle vacanze Anita andava da lei tutti i pomeriggi. I ragazzi le raggiungevano verso le cinque, Marilena e Gianluca andavano nella camera dei genitori, Anita e Luigi stavano in salotto sul divano.
“Se vuoi…” disse lei. Era la prima volta che stavano soli, veramente soli in una stanza. Quando gli altri due avevano chiuso la porta – a chiave - facendo ciao con la mano, avevano ridacchiato e non si erano guardati. Guardavano invece il grande divano a fiori, i ninnoli sul tavolino di vetro, le cornici d’argento sul cassettone antico, i tendoni drappeggiati con le mantovane di velluto, che lusso.
Lui sorrise senza dire niente, la spinse giù sul divano e le mise le mani sotto la maglietta. Lei si inarcò con le braccia indietro e fece scattare il gancetto, finalmente lo sentiva sulla pelle. Senza smettere di baciarla lui l’accarezzava dappertutto, sulla schiena, sui fianchi, sulla pancia, sulla cerniera dei jeans. Lei sentiva un rombo nelle orecchie e le girava la testa, con gli occhi chiusi vedeva i colori dell’arcobaleno, le mancava il fiato come dopo una corsa. Quando le sollevò la maglietta e avvicinò la bocca al suo seno sinistro non sapeva più chi era. Lui le baciava i capezzoli e la accarezzava, la mano si incagliò nel bottone, lei tirò in dentro la pancia e la lasciò scivolare sotto la stoffa ruvida.
“Fermo” disse aprendo gli occhi e tirandosi su a sedere. Lui ritrasse la mano spaventato.
“Cosa c’è?”
“Niente. Ho paura.”
Lui sorrise, la abbracciò e ricominciò a baciarla sulla bocca. E ancora carezze e ancora il respiro corto e ancora lui si avvicinò circospetto al bottone dei pantaloni e girellava con la mano sull’ombelico.
“Dai riproviamo” disse lei tra i sospiri e ancora lui si infilò tra la stoffa e la pelle, superò la barriera delle mutandine e arrivò a lambire il pelo.
“Aspetta” di nuovo lei si era seduta, lui aveva tolto la mano e la guardava sorridendo.
“Aspetta un momento, adesso mi passa.”
Lui non si spazientiva, non si arrabbiava, non chiedeva. Sorrideva e aspettava che lei dicesse vai oppure fermati. Lei voleva ma non ce la faceva. Chissà perché. Aveva una paura folle. Ma era testarda. Non si sarebbe fermata, a costo di avanzare un centimetro alla volta. Meno male che i genitori di Marilena sarebbero stati via una settimana, che pare molto o molto poco, a seconda del punto di vista, come del resto parevano molto o molto poco le loro esplorazioni, come se dovessero restare preliminari per sempre. Per quella settimana di sicuro.
Ricominciò la scuola, lui fu mandato in un diplomificio per tentare di recuperare l’anno, lei continuò nella solita classe ma non le interessava più come prima. Aspettava solo il sabato pomeriggio per andare al cinema con lui. Alternative non ne avevano, avrebbe voluto avere un posto tranquillo ma i genitori di Marilena stavano a casa. I suoi genitori uscivano alla sera ma c’era suo fratello sempre tra i piedi.
Anita fantasticava di trovare un albergo dove non chiedessero i documenti, oppure un amico grande che gli prestasse la casa, la macchina no, nessuno dei due aveva la patente, lei non aveva nemmeno l’età. Si sentiva pronta e decisa, voleva andare fino in fondo, glielo diceva alla sera al telefono. Lui non metteva in dubbio e comunque non c’era modo di verificare. Non prendeva iniziative, non si lamentava, sembrava non avesse desideri o ambizioni. Se ne aveva non li esprimeva. Non parlava mai molto ma certe volte piombava in silenzi oscuri e impenetrabili che lo avvolgevano come un campo di forza invisibile. Non rispondeva nemmeno a monosillabi, non reagiva alle effusioni, il suo corpo era lì ma lui chissà dov’era. Lei gli apriva l’eskimo e gli si stringeva addosso infilandosi in un abbraccio che lui ricambiava passivamente, a volte poggiandole il mento sulla testa, a volte chiudendo le braccia in un riflesso condizionato. Era stato così dall’inizio, aveva smesso di chiedergli “cos’hai.”
La primavera sbuca col suo passo di talpa, pensò Anita girando l’angolo dietro la scuola. L’interrogazione di italiano era andata bene e l’aria tiepida era piena di batuffoli bianchi che volavano in stormi e si accumulavano nei cantoni come mucchi di neve. Lui era lì seduto su una moto vera, con la targa. Lei non chiese di chi fosse.
“Portami a fare un giro” disse solo “chi se ne frega se arrivo a casa tardi.”
Presero viale Zara che semaforo dopo semaforo diventò viale Fulvio Testi e chissà cosa c’era davanti. A San Fruttuoso gli battè sulla spalla e fece segno verso destra, il parco di Monza.
Si inoltrarono in un vialetto asfaltato e poi un sentiero in mezzo ai cespugli. I rami erano ancora radi, solo piccole gemme luccicavano al sole. Il prato però era verde, trapuntato di margheritine con gli orli rosa. La terra era secca e dura sotto i loro passi. Trovarono una minuscola radura tra un bosso impenetrabile e una forsizia che aveva già messo le foglie in mezzo agli ultimi fiori gialli. Si sdraiarono abbracciati sull’erba fredda. Arrivando lì non avevano incontrato anima viva.
Anita comprò una scoperta scozzese. Alla mattina lo raggiungeva sotto il platano di piazza Massari e invece di andare a scuola andavano al parco.
La prima volta non riuscì a entrare dentro di lei e nemmeno la seconda e la terza. C’era ancora la paura, c’era la cocciutaggine, c’era il dolore e lei era maledettamente stretta. Ma c’era anche la pazienza, c’erano le carezze e i baci, c’era quello che lei chiamava amore. Lui non lo chiamava in nessun modo, le parole erano tutte di Anita che doveva definire, dichiarare, raccontare.
“Quello che non viene nominato non c’è” diceva, “le cose ogni tanto vanno dette o scritte, se no non esistono. Le cose, a tacerle troppo finiscono per sparire”.
Gli scriveva molte lettere, lui non rispondeva mai. Le leggeva e poi le bruciava, chiuso in bagno buttava la cenere nel water. Non gli andava che qualcuno ficcasse il naso nei suoi affari, i suoi fratelli o sua madre o chiunque altro.
Ne aveva tenuta una sola, provvisoriamente, perché era molto lunga e non era riuscito a leggerla tutta: i suoi fratelli stavano buttando giù la porta a forza di calci e pugni.
 
Anita era seduta alla scrivania, stava traducendo Catullo per l’interrogazione programmata. Scriveva i paradigmi a matita sui margini sperando che la proff non pretendesse di scambiare i libri, a volte lo faceva.
La stanza era in penombra, il cono di luce della lampada sulla scrivania definiva un confine tra lei e tutto il resto.
Entrò Luisa senza bussare, chiuse con la chiave e se la mise in tasca.
“Dobbiamo parlare” disse avvicinandosi. Anita buttò fuori l’aria dal naso fino a svuotare tutti i polmoni.
“Per caso, sei andata a letto con Luigi?”
Lei non si mosse, continuando a guardare davanti a sé. Sentì l’odore di minestrone che era entrato quando sua madre aveva aperto la porta.
“Guarda che so tutto” continuò Luisa a bassa voce.
Qualcuno al piano di sopra aveva spostato una sedia strisciandola sul pavimento. O forse era nella stanza accanto. Forse suo padre si era seduto a tavola e stava versandosi il vino, facendone cadere una goccia sulla tovaglia. Una goccia che si allargava in una macchia rossa.
“No.” Disse senza alzare la testa.
“E invece sì, l’hai fatto.”
Anita accarezzò piano il libro di autori latini che aveva davanti, passer deliciae meae puellae.
“L’hai fatto e l’hai anche scritto.”
Anita alzò la testa: sua madre era in piedi a lato del tavolo, sembrava un’interrogazione, con lei seduta in cattedra a far la parte della proff.
“Mi ha telefonato la mamma di Luigi.”

“Mi ha detto che ha trovato una lettera.”
“Balle.” Appoggiò la testa sul libro circondandola con le braccia. Non avrebbe risposto più una sillaba. Non avrebbe nemmeno ascoltato.
“Dimmi la verità. Non ti faccio niente.” Luisa si appoggiò al tavolo, le toccò una spalla.
Balle, pensò lei, serrando le mascelle.
“Papà è preoccupato, vuole che ti portiamo dal ginecologo. È per il tuo bene.”
Le si riempirono gli occhi di lacrime. Attraverso il muro partì la sigla del telegiornale.
“Non vogliamo che ti rovini la vita. E se resti incinta? Papà ha detto che se non parli ti toglie da scuola. Ma prima ti portiamo dal ginecologo.”
Piuttosto scappo di casa, pensò. Vado con gli zingari. Vado al circo a pulire le gabbie degli animali. Vado.  Ma dove cazzo vado. Le uscì un singhiozzo.
Luisa le accarezzò la testa. Anita piangeva forte adesso, sua madre le diceva paroline dolci all’orecchio, come quando da piccola la cullava e la consolava di un torto subito.
Volle sapere tutti i particolari con domande precise alle quali Anita non riusciva a rispondere con le parole, faceva sì no con la testa, gli occhi bassi e la faccia che scottava, un rombo continuo nelle orecche.
Non la portarono dal ginecologo. Non la fecero più uscire. Misero un lucchetto sul disco telefono. Mino la andava a prendere a scuola e la accompagnava in macchina tutte le mattine, non andava via fino a che non l’aveva vista entrare. Lei attraversava l’atrio, scendeva in cortile e usciva dal cancello sul retro. Luigi l’aspettava all’angolo.
In casa non la lasciavano mai sola, piuttosto facevano venire la nonna come quando lei e suo fratello erano piccoli. Rina qualche volta cedeva alle suppliche e le dava la chiave del lucchetto. Una sera l’aveva anche lasciata uscire per un’ora, di nascosto. Ma poi Mino l’aveva scoperto, avevano litigato.
“Cosa vuoi che faccia in un’ora?” gli aveva detto la nonna.
“Non è quello. È il principio,” aveva risposto lui, “e poi, senti chi parla.”
Rina si era offesa e questo aveva troncato la discussione. Restava il mistero di chi avesse fatto la spia, non lo sapeva nessuno a parte lei, la nonna e Luciano. Luciano no, non poteva essere stato. Erano sempre stati complici, si erano coperti a vicenda da quando erano piccoli, avevano rotto vasi di cristallo tirando calci al pallone in casa, giocato al dottore all’ora della siesta nella villa al mare, rubato gli spiccioli dal borsellino della mamma. Avevano praticato la più stretta omertà, a costo di prenderle ingiustamente l’uno per l’altra, poteva davvero essere stato lui? era forse impazzito?
“Io mio padre lo odio” disse a Marilena nell’intervallo.
“Hai presente il figlio di Peregalli?”
“L’ingegnere?” disse lei pulendosi un baffo di rossetto con il fazzoletto.
“Futuro ingegnere, sta solo al primo anno. Ieri sera mi fa, perché non esci con Carlo che è un bravo ragazzo, invece che con quel morto di fame. Non gli ho neanche risposto.”
Marilena alzò gli occhi al cielo.
“Che poi l’ho visto una volta o due. Mi ha accompagnata a casa quella volta delle bici, te l’avevo detto no?”
“Ma scusa, esci con lui qualche volta. Poi gli dici che hai mal di pancia e vai da Luigi.”
Anita la guardò scuotendo la testa, “eggià, e  ti pare che quello non glielo va a dire?”
Marilena chiuse con uno scatto lo specchietto e alzò le spalle.
“Dipende” disse dopo un po’.
“Dipende da cosa?”
Fece un sorrisetto e sbattè due volte le ciglia.
“Ma sei scema?” disse Anita gettando indietro i capelli con uno scatto della testa, “tu sei scema. Ma neanche morta.”
La prima sera Carlo andò a prenderla con la Porche di suo padre. Quando lei uscì dal portone lui scese dalla macchina per aprirle la portiera. Mino le aveva dato il permesso di stare fuori fino alla una. Andarono al ristorante e poi in un piano bar dove si poteva anche ballare. C’era un grande acquario all’ingresso e il cameriere li aveva accompagnati a un tavolo d’angolo, c’era sopra il cartellino riservato. Era quasi buio, la musica era bassa.
Carlo le aveva scostato la sedia, le versava da bere e lei dovette ammettere tra sé che non era neanche antipatico. Gli piacevano i Led zeppelin, sapeva suonare la chitarra e  aveva due moto.
“Due moto?” aveva ripetuto lei con gli occhi sbarrati.
“Una è da cross” aveva minimizzato lui. “Balliamo?” Le porse la mano e lei ci appoggiò sopra la sua.
La pista era piena di vecchi di trent’anni e anche di più.
(continua)


boschetto

Questo è L'occhio del coniglio, un romanzetto che ho scritto io e che mi piace offrire ai miei blogamici e agli sfaccendati che passano di qui.

Già che faccio l'editore di me stessa, ho prodotto anche una versione digitale, mobi, epub e pdf. Se ti stanchi di leggere a schermo e la vuoi mettere nel tuo lettore eBook oppure se hai occasione di stampare a ufo e vuoi il pdf, scrivi a ladonnacamel@gmail.com e te la mando. Gratis e senza DRM!
(Però poi non venire qui a spoilerare il finale eh, t'ammazzo! Che, se non si era capito, le puntate qui continuerò a metterle, al ritmo di due a settimana, più o meno.)

 

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Le foto, dove non specificato, son prese in internet

ma questa, tanto per cambiare, è mia.

 


 
 
 

L'occhio del coniglio 24. Mi ha telefonato la mamma di Luigi.

Post n°723 pubblicato il 31 Marzo 2013 da LaDonnaCamel
 
Foto di LaDonnaCamel

Stavolta mi tocca spezzarlo in due, quel cretino dell'editor del blog mi ha appena detto che il messaggio è troppo lungo! E io che volevo fare un'eccezione. Invece no, e approfitto per dirti buona Pasqua, se ci credi, se no buona domenica anche se piove.

Domani o stasera metto la seconda parte e poi parlerò dell'EDS appena passato, non mi sono dimenticata e non faccio la gnorri ;)

 
 
“Mi ha telefonato la mamma di Luigi”.
“Luigi chi?” disse Mino voltandosi con i calzoni in mano.
“Luigi Ravasi. Il moroso di Anita” disse Luisa, come per scusarsi. Era in piedi vicino al letto, aveva scostato le coperte e aspettava.
Lui si rimise a piegare i suoi pantaloni, li accarezzò per lisciare una grinza e li appoggiò alla sedia. Si slacciò i bottoni della camicia, cominciando dai polsini.
“E cosa voleva?” continuò dopo un po’, visto che lei taceva.
“Gli ha trovato una lettera.”
“Che lettera?” Mino si era tolto la camicia. Si tolse anche le mutande e si sedette sul letto.
“Una lettera che gli aveva scritto lei.”
“Lei chi? Ma cosa c’entriamo noi?”
“Sembra che siano andati a letto insieme” disse lei tutto in una volta. Era ancora in piedi e lo guardava.
Lui si voltò di scatto “Sei sicura?”. Una vampata di rossore gli era salita dal collo.
“No, non sono sicura. A lei non ho detto ancora niente. Non sapevo cosa fare.”
Luisa si tolse la vestaglia e la appese all’attaccapanni dietro la porta, poi si infilò sotto le coperte ma restò seduta, senza appoggiarsi ai cuscini.
Lui abbassò gli occhi “domani chiediglielo, fatti dire tutto. Se fosse vero…” si infilò anche lui sotto le coperte, si girò dall’altra parte e spense la lampada sul comodino.
“Se fosse vero?”
“Chiediglielo.”
“Cosa devo fare?”
“Non farmi incazzare Luisa che poi non riesco a dormire.” Disse voltando la testa verso di lei.
Lei si mise sdraiata e si tirò su il lenzuolo fino al naso.
 
Luigi Ravasi era uno con l’aria sempre arrabbiata, non dava confidenza a nessuno e sembrava un po’ più grande della sua età, oltre al fatto che era ripetente. A scuola girava voce che rubava e forse era anche vero, che era amico di Vallanzasca, ma questo lo dicevano tutti i ragazzi che abitavano alla Comasina, che aveva un coltello a serramanico di venticinque centimetri con la lama che scattava fuori appena schiacciava un bottoncino. Quando doveva essere interrogato faceva quasi sempre scena muta ma la sua faccia, più che da bullo sembrava una faccia da scemo, lo sguardo vuoto e distante, le braccia molli e le spalle curve. La cosa che lo rendeva diverso da tutti gli altri erano i capelli corti, la sfumatura alta sulla nuca come nemmeno gli adulti portavano più. Era una fissa di sua madre, una donnina piccola e dura come una scheggia di ossidiana che mandava avanti la sua famiglia alla maniera di una truppa d’assalto dei marines - del resto sei figli maschi come si fa a tirarli su senza marito.
Luigi entrava in classe con la faccia scura, sbatteva forte i libri e le penne sul banco, teneva la testa bassa e non salutava nessuno come nessuno salutava lui. Si sedeva sempre dove capitava, non aveva un posto fisso e quel giorno l’unico banco libero era quello a fianco di Anita - la sua amica Marilena era assente.
Per tutta la mattina Anita ebbe cura di guardare in un’altra direzione, fuori dalla finestra, la lavagna, la professoressa che spiegava. Lo sentiva muoversi di fianco così vicino da far accapponare la pelle. Non poteva dire di averne paura, lì davanti a tutti non poteva succedere niente. E però sentiva la sua presenza, come aver vicino un cane ringhioso legato a una catena corta.
Alla fine della quinta ora, mentre univa con l’elastico la pigna di libri lasciò scivolare una rapida occhiata verso di lui. La stava guardando e questo le fece salire un tremito, l’elastico le sfuggì e colpì il banco con un suono secco. Lei ci mise sopra la mano, ormai troppo tardi. Lui alzò le sopracciglia.
Marilena restò a casa tutta la settimana e lui si sedette sempre lì. Il secondo giorno nell’ora di inglese si schiarì la voce e le chiese in prestito una penna. Il terzo giorno la incontrò sulle scale e le disse ciao. Ogni volta Anita aveva un tremito dentro, ma poi passava e non ci pensava più.
Il sabato pomeriggio si era fatta dare un po’ di soldi da suo padre e aveva preso appuntamento con Marilena alla Standa di largo Cairoli. Si trovavano sempre lì e poi giravano per negozi a caso, via Dante, via Meravigli per finire da Sem in corso Vittorio Emanuele o da Fiorucci, un negozietto dietro via Torino, uno dei pochi che aveva i Levis. Stava provandosi anelli di bigiotteria prendendoli da un espositore e ogni tanto buttava un’occhiata verso la porta, ravanava nel mucchio senza voglia per passare il tempo e se lo trovò davanti.
“Luigi.”
“Cosa fai?” rispose lui.
“Niente.” Appoggiò al banco l’anello che aveva in mano e si guardò intorno indecisa. Le tremavano le gambe.
Poi non avrebbe saputo dire come si erano ritrovati fuori e nemmeno il sole tra le foglioline – così tenere sui rami neri delle piante intorno al castello, né il vento tra i capelli che faceva piegare gli spruzzi della fontana, non avrebbe saputo ricordare chi aveva incominciato a parlare e perché non si era stupita, perché non aveva paura, perché non aveva pensato più a Marilena. Si ricordò bene invece la faccia di lui mentre faceva comparire dal nulla un anellino con una margherita di smalto verde, “era quello che ti stavi provando?” La prima volta che lo vedeva sorridere. Bei denti, tra l’altro.
Marilena il giorno dopo l’aveva chiamata, le aveva chiesto spiegazioni e si era anche un po’ arrabbiata per il bidone ma lei non sapeva che dire, ci si trovava in mezzo e non voleva ragionamenti e prediche. Sapeva solo che prima non si era accorta che lui fosse così. Non aveva capito che non era taciturno ma timido, che non era incazzato ma triste.
Cominciarono a uscire insieme senza che lui gliel’avesse mai chiesto. Nemmeno lei gli aveva chiesto niente, tecnicamente non erano fidanzati, o insieme. Si vedevano ogni volta che potevano anche se non erano niente, non si erano mai baciati. Lo fecero due settimane dopo, in piazza Massari sotto il platano. Al ritorno dal cinema lui la accompagnò a casa e metà strada si fermò, così, a caso, si girò e appoggiò la bocca su quella di lei.
“Finalmente ti sei deciso” disse lei, “credevo non l’avresti fatto più.” Lui ridacchiò e le mise un braccio intorno alle spalle. Adesso erano proprio insieme, pensò infilando il suo braccio a cingergli la vita, quello era il gesto ufficiale.
A scuola facevano finta di niente, si ignoravano più o meno come prima, non facevano apposta, sembrava naturale e opportuno a tutti e due. Però qualche occhiata ogni tanto scappava, senza contare che ogni volta che Marilena era assente lui si metteva al suo posto. Non c’erano ancora chiacchiere vere e proprie ma le ragazze cominciarono a evitare Anita. Appena entrava nel bagno delle donne smettevano di parlare e guardavano da un’altra parte, non la invitavano a studiare, la stavano isolando e lei non se ne accorgeva neppure. Aveva un pensiero tanto grosso in testa che non restava spazio per altro.
Tornando da scuola si infilavano in certe vie strette dove non passava mai nessuno e limonavano in piedi, appoggiati ai muri di cinta delle villette, sotto qualche siepe di glicine che spandeva un odore da far girare la testa.
Un giorno le fece una sorpresa, arrivò su un motorino marca Aspes rosso con i parafanghi bianchi.
“Salta su che ti accompagno a casa” le disse.
“È tuo?”
“Mavà.”
“E di chi è? Te l’hanno prestato?”
“L’ho preso.”
L’ha rubato, pensò lei alzando la gamba per salire. Neanche duecento metri dopo li fermò un vigile. Un sudore freddo lungo la schiena, Anita batteva i denti e tremava di paura.
“Vai a casa” le disse, “stai tranquilla”.
Stai tranquilla un cazzo, pensò lei per tutto il tragitto, le gambe molli e il cuore in gola. Lo metteranno in prigione, non ci vedremo mai più. Non aveva idea di cosa avrebbe potuto succedere davvero, pensava ai carcerati dei film con le divise a righe e le guance emaciate, grigie di barba, agli interrogatori della polizia americana con le lampade puntate sui sospettati, quelle stanze buie piene di fumo, gli schiaffoni per farli parlare e piangeva piena di paura, ferma al semaforo rosso non si accorgeva che i bambini con le cartelle sulle spalle la guardavano e tiravano la giacca alla mamma.
Che poi lui era minorenne e probabilmente al Beccaria non gliele mettevano le divise a righe ma non era questo il punto. Avrebbe fatto meglio a restare lì e affrontare il pericolo insieme e invece lui aveva voluto salvarla e si era preso tutta la colpa per non metterla nei guai. E allora piangeva ancora più forte, tutto il corpo scosso dai singhiozzi e tremante di paura, tanto che entrata in casa si infilò di corsa in bagno perché nello specchio dell’ascensore aveva visto la sua faccia tutta devastata dal rimmel colato.
Nel tardo pomeriggio le telefonò.
“Dove sei?” gli chiese senza nemmeno dire ciao, pensando che avesse sprecato l’unica telefonata dal carcere per chiamare lei invece che l’avvocato.
“A casa, perché?”
“Ti hanno rilasciato?”
“Ah, il vigile.” Ridacchiò quando capì, “tutto a posto, gli ho raccontato una favoletta.”
Gli avrebbe picchiato la testa contro il muro per la paura che aveva provato. E lui rideva, disgraziato. Ma rise anche lei, alla fine era andata bene.
Questo fatto però non lo raccontò a Marilena. Era l’unica che le era rimasta e si sentivano tutti i giorni dopo la scuola, stavano ore al telefono. Litigava in continuazione con Gianluca, il suo ragazzo. Poi facevano la pace e ogni volta doveva raccontarle tutto per filo e per segno. I motivi erano sempre gli stessi: lui voleva fare cose e lei gliela faceva cadere dall’alto. Anita non capiva quale fosse il problema vero, visto che poi facevano come voleva lui e a lei piaceva eccome, tanto valeva dire di sì subito. Non li capiva anche perché tutto questo a loro non succedeva, si baciavano e basta, Luigi non aveva altre pretese. Del resto, cosa avrebbero potuto fare per strada, se pure in angoli poco frequentati. Al sabato pomeriggio andavano al cinema e si tenevano abbracciati guardando il film, qualche rara volta lui le accarezzava il seno attraverso i vestiti. Lei lo lasciava fare, le piaceva molto, l’avrebbe incoraggiato se solo lui si fosse fatto avanti. Non c’erano altre occasioni, alla sera lei non poteva uscire e nemmeno durante la settimana, in questo i suoi genitori erano molto severi. Suo padre soprattutto voleva sapere dove andava, con chi era, come si vestiva. La minigonna, per esempio, era proibita: se la doveva mettere di nascosto in ascensore o meglio, in ascensore si toglieva il gonnellone scozzese a pieghe che ci metteva sopra e al ritorno faceva l’operazione inversa, le toccava portarsi dietro delle borsette gigantesche.
Piano piano le confidenze di Marilena cominciarono a roderla dentro. Come mai Luigi non chiedeva o non creava situazioni per chiedere? C’era forse qualche cosa in lei che non andava bene? Non gli piaceva abbastanza? Non la voleva? Chi lo sa. Non aveva esperienza in queste cose, quei due o tre che aveva avuto prima erano state solo pomiciate tra ragazzini che erano durate poco, con Luigi era insieme da tre mesi e tutto sembrava fermo alla prima sera. Non aveva da lamentarsi, sia chiaro, non litigavano mai, andavano d’amore e d’accordo. Lui non parlava molto, è vero, in compenso parlava lei per tutti e due e andava bene così, quando lo guardava lui le sorrideva e questo era già tanto, anzi tantissimo. Le aveva pure detto ti amo. Una volta sola e anche un po’ troppo presto a dire il vero - era la prima sera. Però l’aveva detto. Forse era stato in qualche modo sollecitato, lei gli aveva chiesto come mai uscivano insieme così tanto spesso, era strano, no? lui si era fermato, l’aveva guardata, “si vede che ti amo” le aveva detto e l’aveva baciata, prima sulle labbra e poi con la lingua, aveva aperto un po’ la bocca e le aveva fatto sentire quei bellissimi denti. Era stato tutto molto dolce, però Marilena non solo aveva già fatto sesso normale ma anche orale e lei si sentiva sminuita e anche un po’ infantile. Chissà cosa mi racconterà la prossima volta, pensava, chissà quale porcheria lui le chiederà e lei rifiuterà – o farà finta di rifiutare. Cose che Anita non sapeva nemmeno esistessero al mondo.
“Sarà normale?”  le chiedeva. “È normale, è normale” sospirava lei con rassegnazione. Come faceva a saperlo, come facevano tutti a sapere sempre tutto. Tutti tranne lei che era ancora fin troppo vergine per la sua età.
Pensò di provare a parlarne con Luigi, lui non si arrabbiava mai o non lo dava a vedere, certe volte non rispondeva nemmeno. Gli voleva chiedere se c’era un motivo preciso oppure semplicemente non aveva voglia, non ci pensava o non ci teneva. Non voleva certo fare la figura della ragazza facile ma in qualche modo voleva fargli capire, molto velatamente, che sarebbe stata disposta a una conoscenza più profonda e intima, qualcosa che aveva a che fare con l’amore e l’affetto. Non sapeva bene da che parte cominciare, l’avrebbe presa molto alla lontana.
“Marilena mi ha detto che Gianluca vuole che lei gli faccia i pompini fino in fondo” disse uno degli ultimi giorni di scuola mentre tornavano a casa. Stavano attraversando i giardinetti, silenziosi a quell’ora, si sentivano solo gli uccelli gridare, le panchine riflettevano i bagliori del sole a picco, faceva caldo. Lo guardò con la coda dell’occhio, lui sorrideva.
“Ma lei gli ha detto di no, ha detto che fino in fondo non le va.” Lui non cambiò espressione, sbattè solo due volte le palpebre.
“Tu cosa ne pensi?” continuò lei, fermandosi e guardandolo in faccia.
“Non lo so” sospirò passandosi una mano sulla fronte, “non ho mai provato. Non ho mai avuto una ragazza.” Lei lo guardò con gli occhi spalancati.
“Prima di te, intendevo.”
Gli si rannicchiò contro, strofinando il naso sul suo collo con gli occhi chiusi. Chi l’avrebbe detto. E però, certo, con quel carattere così silenzioso, a volte perfino ombroso, tutto tornava.
Durante le vacanze si videro poco, lei andò prima a Forte dei Marmi, poi a Cortina mentre lui era rimasto a Milano. Si scrissero qualche lettera, si telefonarono anche, due o tre volte. Lui purtroppo era stato bocciato, chi lo sa cosa avrebbe fatto a settembre. Lei aveva avuto latino e matematica e quello che avrebbe fatto lo sapeva per forza.
 
 
(continua)

castello


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(Però poi non venire qui a spoilerare il finale eh, t'ammazzo! Che, se non si era capito, le puntate qui continuerò a metterle, al ritmo di due a settimana, più o meno.)

 

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Le foto, dove non specificato, son prese in internet.

 
 
 
 

L'occhio del coniglio 23. La pizza

Post n°722 pubblicato il 27 Marzo 2013 da LaDonnaCamel
 
Foto di LaDonnaCamel

"La pizza?”
"Sì, la pizza. L'ho già impastata, devo aspettare che lieviti. Ma non stare lì impalata. Vieni su.”
Anita indugiava tenendosi alla battagliola.  Gabriella, sulla barca a fianco, si stava asciugando le mani con uno strofinaccio. Lo buttò in cabina e si sedette sulla panca.
"Ma dove sono tutti?” disse Anita poggiando il piede sul bordo. Le due barche si muovevano una rispetto all'altra e i parabordi che avevano legato in mezzo si spostavano a ogni movimento della risacca. Le catene delle ancore si tendevano con piccoli strappi anche se non c'era vento. Il passaggio dei motoscafi che tornavano in porto riverberava sugli scogli le onde che entravano disordinate. Cala Francese era quasi vuota, c'erano solo due cabinati a motore, distanti.
"Elisabetta e Pietro sono andati a far la spesa col gommone, Felice è là su quello scoglio che pesca, lo passano a prendere al ritorno.” Disse guardando verso la punta, una mano a coppa a ripararsi gli occhi dal sole, ancora potente, dall’altra parte del canale.
“E i tuoi?”
"Arrivano. Sono andati a fare il bagno” Scavalcò del tutto e si sedette in coperta a gambe incrociate.
“Ma la pizza? Come ti è venuto in mente?”
"Così. Fa allegria, no? Uh, ma lo sai chi ho incontrato ieri alla Maddalena?” Si era sciolta la treccia e si ravviava i capelli con le dita. Anita la guardava aspettando la rivelazione.
“Il bel tenebroso, il meglio fico del bigoncio.”
“Chi?”
“Eddai, non dirmi che anche a te non piace Ignazio.”
"Se ne fai una questione estetica,” rise Anita, “mi adeguo al parere della maggioranza silenziosa. Cosa fa adesso? È sempre col Velamare?”
"Ma non solo. È una puttana. Quello va con chi lo chiama. E ho fatto anche la rima.” Sghignazzò.
“Gli ho detto se ci raggiungono.” Frugò in una nicchia sotto il tavolo e tirò fuori un pacchetto di sigarette.
"Stasera?” Anita era scivolata in pozzetto e si era seduta sulla panca. Cuscini bianchi in finta pelle ricoprivano le sedute intorno al tavolo e dietro al timone. Guardò verso la sua barca. I gatti erano usciti e camminavano sul bordo cercando un punto buono per saltare.
"Sì, dopo cena,” disse dopo aver buttato fuori il fumo dal naso. “Dice che ha un equipaggio carino. Tutte donne. Tanto per cambiare.”
Anita guardò il pacchetto rosso e bianco sul piano di legno.
“Posso?” senza aspettare la risposta prese una sigaretta e l'accendino.
"Ma fumi?”
"No.” Anita sorrise, se la portò alle labbra e l'accese. “Ma fumavo. Tanti anni fa.” Alzò le spalle.
Gabriella la guardò con curiosità. Aveva smesso di toccarsi i capelli, aspettava una spiegazione o una confidenza.
“Ho comprato il Martini e il Campari,” disse invece Anita, “Carlo ha detto che stasera vuol fare il Negroni.” Aspirò dalla sigaretta e si appoggiò allo schienale, stendendo la gambe sotto al tavolo.  “Che bei capelli che hai sempre.”
Gabriella scosse la testa e li fece saltare sulle spalle.
"Ci ho messo l'olio” disse, portandosi una ciocca davanti agli occhi. “Ma non serve a niente. Sono pieni di doppie punte.” Risero. I gatti erano saliti a bordo e annusavano le cime arrotolate ad asciugare
"Ma la pizza?”
"Eh sì. È ora. Dai, vieni giù. Aiutami a stenderla.”
Anita si alzò. Buttò in acqua quel che rimaneva della sigaretta, si stirò la schiena appoggiandosi le mani sulle reni e la seguì in cabina.
Gabriella stese l'impasto su una teglia di alluminio usa e getta. Anita si guardava intorno. Le tendine sugli oblò richiamavano il celeste degli imbottiti e sulla paratia che divideva la dinette dalle cabine di prua  erano avvitati due bassorilievi di ottone. Il tavolo in mogano  era tirato a lucido e avrebbe potuto accogliere una dozzina di commensali, seduti intorno al grande divano a u.
"Va tutto bene?” disse Gabriella dopo un lungo silenzio.
"Direi di sì. Forse puoi fare dei buchi con uno stecchino?”
"Ehi. Tu non me la conti giusta.”
Anita sorrise.
"Fa niente, ho capito. Non hai voglia di parlarne.” Si voltò e prese da uno stipetto una scatola di pomodori spezzettati. Anita guardò fuori dal tambucio aperto. Si sentiva il ronzio di un motore.
"Sono loro?” chiese subito.
"Vai a vedere” disse Gabriella spargendo la conserva sulla pasta.
Anita uscì e vide il gommone che si avvicinava piano allo scoglio bianco, arrotondato dal vento, dove Felice aspettava in piedi con la canna in mano e la cesta a tracolla. Piero guidava e Viola, seduta sulla prua, si sporgeva per passargli una cima.
Infilò la testa nel tambucio.
“Torno da me, i bambini stanno arrivando.”
"Ma dai, stai qui. Che vai a fare?”
"Eh, così Giulio approfitta per non farsi la doccia.”
"E allora?” rise Gabriella “Lasciali fiatare, per una volta.”
"Per una volta” rise anche Anita, “ma non questa volta.”
Andò a poppa ad aspettarli. Sul gommone c’erano solo Pietro, Felice e i bambini.
“Papà?” chiese a Viola mentre lo legavano alla barca.
“Ha detto che torna a nuoto con Elisabetta.”
Anita guardò verso il largo. Il cielo era striato di nuvole rosse. Sul mare, in controluce, non si vedeva nessuno.
(continua)

 

Questo è L'occhio del coniglio, un romanzetto che ho scritto io e che mi piace offrire ai miei blogamici e agli sfaccendati che passano di qui.

Già che faccio l'editore di me stessa, ho prodotto anche una versione digitale, mobi, epub e pdf. Se ti stanchi di leggere a schermo e la vuoi mettere nel tuo lettore eBook oppure se hai occasione di stampare a ufo e vuoi il pdf, scrivi a ladonnacamel@gmail.com e te la mando. Gratis e senza DRM!
(Però poi non venire qui a spoilerare il finale eh, t'ammazzo! Che, se non si era capito, le puntate qui continuerò a metterle, al ritmo di due a settimana, più o meno.)

 

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Quest' opera è distribuita con licenza Creative Commons Attribuzione - Non commerciale 3.0 Italia.

Le foto, dove non specificato, son prese in internet.

 

 
 
 
 

Ciat

Post n°721 pubblicato il 27 Marzo 2013 da LaDonnaCamel
 
Tag: EDS, sensi, tatto
Foto di LaDonnaCamel

- Dai, apri la touchcam
- No, non mi va
- Ti prego, son già tre settimane che sto qui, non ne posso più.
- Ma se l'abbiamo fatto ieri sera, e l'altro ieri, e tutti i giorni da quando sei partito.
- E allora? Intanto non è la stessa cosa che a casa. E poi, a casa lo facciamo anche due volte al giorno, quindi... dai apri.
- L'hai detto, non è la stessa cosa.
- Uffa. All'inizio non dicevi così. All'inizio ti piaceva.
- Sarà stata la novità. Le prime volte anche solo l'idea...
- Mi basterebbe una carezza. Stasera sono triste. Mi sento solo. Mi sento come un pulcino bagnato, lontano da casa, lontano da te e dal mondo civile, lontano da tutto. Sob.
- Vabbè, una carezza. Poi basta.
- Ohh, brava.
- Ma non farmi lo scherzone di quella volta che ci hai messo subito il cazzo.
- No, solo una carezza sulle mani, magari sulla faccia. Dai apri.
- Dove sei?
- Sono nella camerata. Da solo, stai tranquilla. Quelli che non sono in libera uscita sono andati in sala mensa, il capitano ha sfidato Romoletti a ping pong. E tu dove sei?
- In camera nostra, accendi la webcam.
- No dai, facciamolo al buio, che mi dia l'impressione di essere lì.
- Non funziona bene al buio, lascia stare. Fatti vedere. Voglio essere sicura che sei tu.
- Ma chi dovrebbe essere scusa?
- Comincia a farmi sentire la voce. Che ne so di chi potrebbe essere. Chiunque. Un collega, un amico. Un nemico.
- Un nemico?
- Eh. Perché no.
- Non c'è abbastanza banda per far andare tutto, video, voce e touch. Fammi una carezza intanto. Poi mi faccio sentire e vedere. Ho tanta voglia delle tue mani morbide. Ma più ancora del tuo collo, del tuo seno. Fammi sentire le tette.
- Il tuo seno? Ma chi cazzo sei? Scordatelo che mi faccio toccare. Se non ti fai vedere chiudo la comunicazione e poi faccio denuncia al comando.
- Ti supplico, sto per morire, accendi la touchcam e fatti sentire a questo povero soldato lontano
- La smetta immediatamente. La avviso che questa sessione è registrata. Chiunque lei sia farò rapporto ai suoi superiori.
- Dai, scherzavo, accendo.
- Che scemo. Credevo che era qualcuno che ti aveva rubato il tablet.
- Lo so, l'avevo fatto apposta per farti spaventare, magari eccitare un po'. Adesso toccami, dai.





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* Revel è una tecnologia già esistente in grado di simulare una vasta gamma di sensazioni tattili leggi qui e qui e ancora qui


Questo racconto partecipa all'EDS Toccami o del tatto lontano come pure

Dario

Hombre

Lillina

Cielo

MaiMaturo

Melusina

Pendolante

Chiedo scusa per la magrezza del testo ma questa volta va così.

 
 
 

Toccami - EDS sensuale del tatto lontano riporto su

Post n°720 pubblicato il 25 Marzo 2013 da LaDonnaCamel
 
Tag: EDS, sensi, tatto

Dario

Hombre

Lillina

Cielo

MaiMaturo

Melusina

e domani anche Pendolante ma io no, chiedo scusa, se mi ripiglio lo faccio per il 27 e se no pazienza, la testa bi zgobbia e il nazo bi gola, per una volta mi godo il ravvreddore

 
 
 

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