Creato da LaDonnaCamel il 16/09/2006
Il diario intimo della Donna Camèl con l'accento sulla èl
 

Messaggi di Aprile 2013

L'occhio del coniglio - ultimo capitolo, ringraziamenti e baci

Post n°741 pubblicato il 28 Aprile 2013 da LaDonnaCamel
 

Beati quelli che riescono a pubblicare un libro perché così possono mettere in fondo i ringraziamenti. Ecco i miei, sono grata a molte persone e lo posso dire qui sotto, alla fine dell'ultimo capitolo, come si conviene.


"Perché lo tieni aperto a questa pagina?" Barbara si era fermata davanti a un libro d'arte appoggiato allo scaffale come su un leggio.
"Non so, mi piace" disse Anita, "secondo te dobbiamo rilavarli tutti?" teneva in mano un vassoio pieno di bicchieri a gambo lungo.
"Ma no, basta una spolverata. Dammi qua, ci penso io." disse Barbara.
Anita appoggiò i bicchieri al tavolo dove erano già state disposte le ciotole con le patatine, i pop corn, le noccioline e un vaso pieno di tulipani.
"Sono così nervosa."
"Tu? Non ci credo" rise Barbara. "Vatti a cambiare piuttosto, che tra un'ora arrivano".
"Vado. Non spostare il libro."
"Ma no."
"C'era un foglietto a tenere il segno." Anita si era fermata sulla porta.
"Un biglietto di tuo padre?"
"No, era un pezzo di carta bianco. Dai vado."

L'inaugurazione dello studio era andata bene, era venuta un sacco di gente, soprattutto grazie a Barbara. Anita si sedette su una poltroncina della stanza più grande, la sala riunioni col tavolo di cristallo e lo schermo sulla parete, e si tolse le scarpe con i tacchi. Massaggiandosi la pianta di un piede pensò che ci sarebbero volute due ore per mettere a posto, non ne aveva proprio voglia. Le facevano male le gambe. Toccava a lei, Barbara aveva lavorato una settimana per organizzare la festa e l’impresa di pulizie non sarebbe venuta fino a sabato.
Mentre raccoglieva le cartacce e i bicchieri sparsi dappertutto ripensò al libro di suo padre. Aveva notato che durante la serata si erano fermati in parecchi a guardarlo. Era aperto su un paesaggio di Matisse, un albero inclinato dal vento in fondo a un campo pieno di arancioni e verdi forti, il cielo che diventava azzurro scuro in alto con una transazione così netta che le faceva pensare a un fronte freddo, se non fosse stato per gli altri colori accesi.  Le sembrava di conoscerlo da sempre ma non era possibile, era passato solo un anno da quando papà era morto e sua mamma le aveva dato i libri. Il cielo le ricordava qualcosa, oppure l'albero, chi lo sa, forse uno dei suoi viaggi di ragazza in Francia, chilometri e chilometri in macchina su e giù per quelle strade dritte in mezzo al niente. La didascalia diceva Paesaggio di Tolosa, collezione privata, poteva davvero esserci stata.
Sotto la finestra, dietro alla tenda, c'era una bottiglia di Berlucchi mezza piena. Guarda qua, pensò, qualcuno si è fatto la scorta. C’era stato un momento in cui le stanze erano così piene di gente che temeva di perdere il controllo della situazione. Invece era così che doveva andare, Barbara sapeva il fatto suo. Era lei che si faceva prendere dalle paure, “Come faccio a fare la consulente se non so nemmeno seguire i consigli che mi do da sola,” aveva detto quando stavano andando dal notaio e tutto era già stato deciso. Barbara aveva riso, “È proprio per questo che sei brava, sai metterti nei panni dei clienti e loro per questo ti daranno retta.” Poi si conosceva, nella battaglia non si tirava mai indietro e se aveva paura fa niente. Erano le novità che le mettevano ansia, soprattutto dopo il divorzio. Pensava di doversi appoggiare all’esperienza di qualcosa che avesse già fatto e in questo caso, a parte la nuova agenzia con Barbara, il suo lavoro lo sapeva fare. Poi anche questo non era vero, il lavoro se l’era inventato non molto tempo prima partendo da zero, da sola, e aveva funzionato, anche se non ci credeva del tutto nemmeno oggi.
Si portò alla bocca la bottiglia di spumante e ne bevve un sorso a canna. Era caldo e sfiatato. Andò a svuotarlo nel gabinetto. Le stava venendo mal di testa. Si guardò allo specchio, aveva gli occhi rossi e due occhiaie nere sotto le palpebre. Si tolse le lenti a contatto e le gettò nel water,  poi si diede una sciacquata alla faccia, strofinandosi finalmente gli occhi che le prudevano, ah che delizia, chi non porta le lenti a contatto non ha idea della goduria che si prova a sfregarsi gli occhi.
Però non si ricordava più dove aveva lasciato la borsa con dentro gli occhiali, dovette andare a cercarla brancolando per lo studio. Quando passò davanti allo scaffale sentì un brivido nella schiena. Il paesaggio di Matisse le stava dicendo qualcosa. Ma cosa? Si fermò a guardarlo da vicino. Era tutto diverso così. I colori si mischiavano, sfumavano.
La borsa era dietro la sua scrivania. Inforcò gli occhiali e guardò di nuovo la riproduzione sullo scaffale, li toglieva e li rimetteva. Senza le sembrava ancora più vero. Ma più vero di cosa?
Aprì l’armadio alle sue spalle, c’erano quadri e foto incorniciate che aveva portato via insieme ai libri quando aveva traslocato, a casa non ci stavano e li aveva tenuti dentro qualche scatolone in cantina prima di portali qui. Eccolo, pensò. Una tela che aveva dipinto a olio insieme a suo padre quando era piccola. Si ricordava bene di quel giorno. Suo padre la teneva in braccio e le parlava. Schiacciava i tubetti sulla tavolozza e li mescolava col pennello prima di passarlo a lei. Discutevano insieme i particolari, dicevano cosa c’era qui e cosa mancava lì e come andava fatto. Il libro con il paesaggio di Matisse era sul tavolo, lo stavano copiando come lo vedeva lei.
Anita pensò a quanto doveva essere stata miope anche da piccola. Non se ne erano accorti subito, le avevano fatto mettere gli occhiali in seconda o in terza elementare, chissà come faceva prima. Eppure non le era sembrato di vederci male fino a che non l’avevano portata dall’oculista. Si ricordava bene anche quella volta, aveva a che fare con un disegno, dovevano copiare un’ortensia che la maestra teneva sulla cattedra. Che scherzi strani fa la memoria, rivedeva i petali disegnati a uno a uno dalla sua compagna di banco mentre lei aveva abbozzato solo macchie di colore. Ma non era uno stile pittorico, li vedeva proprio così, come grosse padelle viola e la compagna era un’imbrogliona a sottilizzare su particolari che, secondo lei, erano troppo lontani.
“Disegneresti le mutande a qualcuno?” le aveva detto, “no, perché anche se sai che ci sono, non si vedono.”
Quella lo aveva detto alla maestra e la maestra lo aveva detto a sua mamma, l’avevano portata dall’oculista e lei aveva scoperto di non vedere le cose come erano, o come le vedevano gli altri, ma in un altro modo tutto suo.
Mise la tela vicino al libro. Con gli occhiali c’era una bella differenza, adesso che aveva imparato a guardare come gli altri a momenti non riconosceva nemmeno più il suo modello. Però quando se li toglieva diventava davvero identico, una copia perfetta di come l'aveva visto lei. Ho inventato la macchina del tempo, pensò, altro che le madeleinette. Sentiva l'odore della ragia e del tabacco, il duro della gamba su cui era seduta e il braccio che le circondava la vita tenendola salda, la tavolozza infilata nel grosso pollice di suo padre.
Non le importava niente di come fosse andata davvero, cosa avesse visto e come era stata la realtà. L’importante è ben altro. Chiuse il libro e lo infilò nello scaffale insieme agli altri. L’importante. Mise il quadro nell’armadio, prese la borsa e la giacca. Non lo so che cosa è l’importante. Spense tutte le luci e chiuse la porta a chiave.
Intanto vado a casa, poi vediamo.
(non continua più, è finito qui!)

 

Ringraziamenti

Prima di tutti e più di tutti ringrazio Alessio Sala: è stato quello che mi ha corretto la minuta minutissima, poi l'ha ripassato quando era solo un girino, poi l'ha letto ranocchio e infine il rospaccio che è diventato, dicendomi ogni volta qualche cosa di utile o anche solo di buono, il che non è poco.

Grazie a Giorgio Fontana che l'ha baciato la prima volta, sperando potesse diventare una principessa.

E grazie a Martina e Nico che non solo l'hanno letto, ma ci hanno lavorato sopra mostrandomi i punti deboli e mi hanno consigliata e spinta sulla strada dello sciò dontel che è sempre molto apprezzabile (anche da me che ormai sono postmoderna e non ci posso più fare niente).

Grazie a Paolo Cognetti che durante i laboratori mi ha indicato una direzione, se l'ho seguita - a modo mio - oppure no è stato anche per tutta libertà che mi ha insegnato.

Grazie a Davide Musso che ne ha lette almeno due versioni e mi ha fatto pensare che fosse possibile. Forse non l'avrei scritto senza i suoi discreti incoraggiamenti e pazienza se poi non andava più bene per Terre di Mezzo: mi ha dato le mie belle soddisfazioni anche così.

Grazie anche ai miei primi lettori: Camillo, Livio, Mario e Paola, mia mamma, mia sorella, mia cugina Laura, Matteo, Lorenza, Furio, Katia, Fulvia, Dario, Lillina, grazie a te che sei arrivato fino a qui e mi stai leggendo in questo momento e grazie a tutti quelli che l'hanno seguito in silenzio sul blog: forza, palesativi e ditemi brava!

Spero di aver imparato qualcosa.
Spero di essermi liberata di Anita e dell'occhio del coniglio perché vorrei cominciare un nuovo progetto e andare via saltellando leggera. Olè.



Questo romanzo è dedicato a Martina e Mario, i miei figli.

Paesaggio di Tolosa

Indice

1. La bussola segnava centoottanta
2. Rina e le sue sorelle
3. Anita saliva un gradino alla volta, tenendosi al corrimano
4. Ma deve proprio gridare
5. L’emporio aveva il soffitto curvo come una grotta
6. Rina pedalava sotto il solleone
7. I gatti sono a bordo?
8. Ogni volta
9. Dai, buttati
10. Se un uomo a questo mondo
11. I piatti lavati, asciugati e messi via
12. Mino baciò Luisa a capodanno
13. Stamattina niente vento
14. Mino posizionò i treppiedi
15. Tornando dal ristorante
16. Amilcare era così leggero
17. Anita sentì una mano sulla coscia
18. A Sesto Calende
19. Non riesco a dormire
20. Andavano in montagna
21. A Lavezzi c’era il pienone
22. In seconda media
23. La pizza
24. Mi ha telefonato la mamma di Luigi
25. Che carino che sei stato
26. Hai da fare
27. Metti via la spesa
28. Felice corrugò le sopracciglia
29. La pioggia picchiettava sulla coperta
30. Sì, sono d’accordo.
31. Il maestrale aveva spazzato via tutto
32. Perché lo tieni aperto a questa pagina  

 

Questo era L'occhio del coniglio, un romanzetto che ho scritto io e che mi è piaciuto offrire ai miei blogamici e agli sfaccendati che passavano di qui.

Già che faccio l'editore di me stessa, ho prodotto anche una versione digitale, mobi, epub e pdf. Se ti stanchi di leggere a schermo e la vuoi mettere nel tuo lettore eBook oppure se hai occasione di stampare a ufo e vuoi il pdf, scrivi a ladonnacamel@gmail.com e te la mando. Gratis e senza DRM!

Licenza Creative Commons
Quest' opera è distribuita con licenza Creative Commons Attribuzione - Non commerciale 3.0 Italia.

Le foto, dove non specificato, son prese in internet

 

Neanche un albero è stato sacrificato a causa dell'Occhio del coniglio, se lo vuoi comperare lo pui trovare qui su Amazon.

 
 
 

Mia nonna era google

Post n°740 pubblicato il 26 Aprile 2013 da LaDonnaCamel
 
Tag: EDS, gusto, sensi
Foto di LaDonnaCamel

Il signor Gardin aveva la fronte alta ai lati e bassa in mezzo, una attaccatura di capelli che lo faceva assomigliare a Topolino. Di Topolino  aveva anche il modo di stropicciarsi le mani tenendo i gomiti larghi, discosti dal corpo. Forse aveva  i guanti gialli ma non so, nel ricordo tendo a metterci dei particolari in più.

Il signor Gardin parlava sempre a voce molto alta perché apriva bene la bocca, lasciando vedere i denti d'oro. Faceva il venditore in un negozio di stoffe ed è lì che mia nonna l'aveva conosciuto, e di conseguenza io. Mia nonna mi metteva a sedere sul bancone in modo che potessi vedere le stoffe che lui sciorinava, così colorate e scrocchianti che facevano venire un pizzicorino nel naso. Lei tastava e accarezzava, Senta che seta pura, è esclusiva!

Esclusiva, mi giravo dentro la bocca questa parola che mi faceva gonfiare le guance e sporgere la lingua nella elle: esclusiva, esclusiva, chissà cosa voleva dire. A volte chiedeva di andare a vederle di fuori e mi lasciava lì sul banco mentre usciva con lui per accostare i colori alla luce naturale, nel negozio c’era il neon.
La burla giò?
le domandava, preoccupato per me.

Ghe minga pericul, l’è un gatt de marm. Diceva così perché ero una bambina tranquilla e ubbidivo, se mi ordinavano di stare ferma non mi muovevo per nessun motivo al mondo.

Il signor Gardin aveva un metro di legno a sezione quadrata, le tacche così consumate che i centimetri si potevano solo indovinare, ma tanto per le stoffe i centimetri non erano importanti o non si pagavano.

Mia nonna praticava l’arte della moda come dilettante evoluta, si industriava a tagliare e cucire un po' a modo suo e il risultato era spesso imprevisto. Sum minga una sarta mì, si difendeva quando mia mamma si lamentava della pence nel posto sbagliato o della manica che cascava male. Questo mi è stato riferito perché io non mi lamentavo di niente. Mia nonna mi faceva paura.

Il signor Gardin l’aveva sfidata sulla cassoela. Non posso sapere come erano arrivati a tanto ma lo immagino: la nonna pontificava su tutto, sapeva tutto e tutti le chiedevano consiglio. Come si concilia con il sum minga una sarta mì non lo so, c’è spesso incoerenza nelle dittature e in ogni caso nessuno si può lamentare.

Dunque mia nonna si vantava di saper fare la cassoela. Più avanti l’ho fatto anch’io.

Mi sono vantata di saper fare la cassoela, che solo a dire la parola ci vuole una certa dimestichezza. Almeno a voce, per scriverlo ancora non so bene come si scrive, ci sono diverse scuole. Me la sono tirata così tanto che quando Ombra, sarà stato il novantanove o l’anno duemila, ha organizzato la convescion autunnale me l'hanno chiesta. Ma deve cuocere un sacco, e poi ci sono gli ingredienti, e poi a Rocca di Papa non ci sono le pentole adatte e il fornello. Cercavo scuse.

Portala già fatta, la riscaldiamo.

Evabbè. Non avevo scuse. Il periodo era quello: la cassoela si fa al giorno dei morti, ma solo se la verza ha preso una bella gelata. A quell'epoca il buco dell'ozono era piccolo e le mezze stagioni facevano quello che andava fatto, era possibile che ai primi di novembre ci fosse già stata una gelata. La gente aveva perfino i soprabiti, e li metteva! adesso non esistono più, non li trovi nemmeno alla caritas, bisogna spiegare ai giovani cosa sono: il soprabito è come un cappotto, ma leggero, oppure come una giacca, ma lunga e pesante. Una via di mezzo tra l'estate e l'inverno, hai presente quando non fa ancora freddo freddo ma nemmeno si suda, le giornate diventano corte e l'umidità... no eh? Fidati, te lo dico io.

Mia nonna non cercava scuse come me. Si offriva volontaria. E mi offriva volontaria anche a me, mi immolava come commensale di accompagnamento perché il signor Gardin mica lo poteva ricevere da sola.

Perché no?

Eh, non si può.

In certi momenti diventava improvvisamente evasiva e io non capivo,  mi mancava l’extratesto. Stava lì ore e ore a spiegare della verza, che prima bisogna scottarla nell’acqua bollente così diventa più digeribile, a freddo, a caldo, strizzata bene e via così. (Credimi, non è vero, si può mettere direttamente nel battuto di sedano carota cipolla, tanto la mazzata non è mica la verza), e poi se le facevo una domanda precisa, non rispondeva.

Cosa avevano da ridere, per esempio: c’è il maiale, e allora? la cotenna, i verzini, che sono salamini fatti apposta, salsicce mignon più che altro, e le puntine, ovviamente. Fanno ridere ste cose? Gardin sosteneva che ci volevano le costine, la nonna inorridiva: eretico! le puntine! mai le costine! Gridavano e ridevano, litigavano? A me non facevano ridere e nemmeno al nonno quando tornava a casa la sera facevano ridere.

Il salamino fa ridere? dicevo al nonno.
Perché?
faceva lui, e mi guardava da sopra gli occhiali.

No, così.

Ah. Chiudeva il giornale e andava nel cucinino a bisbigliare con la nonna.

Ma appena entravo io, smettevano.

Se avessi dovuto imparare da mia nonna, stavo fresca.

Quella volta che l’ho portata ai castelli romani avevo chiesto al salumiere che c’era qui sotto ma adesso guarderei su google.

Mia nonna non ne aveva bisogno: google era lei e tutti andavano a chiederle le cose, qualsiasi cosa. Sapeva tutto e si ricordava tutto. Io non so un bel niente e però so cercare bene dove stanno scritte le cose, è come se avessi qui mia nonna a portata di mano per chiederle quello che non so, che comunque probabilmente non me lo avrebbe detto.

Io ero piccola e la cassoela non mi piaceva neanche, con tutte quelle verdure. Giusto i salamini. La mangiavo lo stesso, ero stata abituata così, però potendo scegliere avrei fatto a meno. Della cassoela e del signor Gardin, che rideva con la nonna quando da ridere non c’era proprio niente.

Per la convenscion avevo ceduto e l’avevo preparata a modo mio, senza scottare la verza, buttandola direttamente nel soffritto e poi le puntine di maiale (non ho ancora capito la differenza tra puntine e costine, se lo sai tu dimmelo) e la cotenna raspata bene, che non ci siano rimasti i peli, e infine i salamini. Non ci vuole nemmeno troppo tempo, un’oretta o poco d più che se insisti si disfa. L’avevo messa in un contenitore tapperware dentro una valigia e l’avevo portata in aereo come bagaglio a mano. Ti lascio immaginare cosa è successo in quota quando la cabina si è depressurizzata, il contenitore ha fatto pfff e l’odore di cavolo si è diffuso a bordo, non è questo l’eds adatto. Tutti zitti che si guardavano l’un l’altro con sospetto.

Ai romani non era nemmeno piaciuta molto, ne era avanzata una bella scodella. La mattina dopo Charlie se l’era mangiata per colazione, così fredda di frigo col grasso solido e giallo da far venire i brividi come un film dell’orrore e giuro che un finale così non l’avevo previsto.

 

Questo racconto partecipa all'eds Ipogeusia insieme a:

- Dario con Sarde a baccaficu
- Hombre con Caffè alla Norma
- Cielo con Lettera alla donna che ami sulla felicità e il ragù
- Singlemama con La prima volta che ho mangiato i piselli davvero
- Lillina con Lu vinu
- Melusina con risi e bisi
- Dario fa il bis con Bastardi affucati
- Pendolante con Antichi sapori

 
 
 

L'occhio del coniglio 31. Il maestrale aveva spazzato via tutto

Post n°739 pubblicato il 24 Aprile 2013 da LaDonnaCamel
 
Foto di LaDonnaCamel

Penultimo capitolo! Non perderti il finale, lo metto qui domenica e poi basta.
 
 
 
 
Il maestrale aveva spazzato via tutto. Nella notte aveva sbatacchiato le palme nei giardini e aveva fatto vibrare gli alberi delle barche nel porto. Aveva tirato su l’acqua dal fondo della baia, spingendo le onde verso il largo. Aveva dissolto le nuvole, pulito l’aria e asciugato la sabbia delle spiagge. Con la luce del giorno si era acquietato e faceva scintillare le increspature sulla superficie del mare.
Carlo era uscito presto, era andato a comprare il pane e le brioches calde di forno, aveva svegliato Anita e i bambini con la colazione preparata in pozzetto: succhi di frutta, marmellata di more e qualche dolcetto sardo alle mandorle.
“L’ho fatto forte come pace a te” disse versando il caffé nella tazza blu, quella di Anita.
Lei non disse niente. Mise lo zucchero, mescolò. Prese una brioche dal cestino.
Lui mollò gli ormeggi da solo, mentre lei era sotto la doccia.
“Ti va bene Thaiti?” le disse quando uscì in pozzetto, con l’asciugamano ancora avvolto intorno alla testa. “È al traverso all’andata e al ritorno.”
I bambini stavano togliendo i parabordi, la randa era stata già alzata e il genoa leggero era pronto.
Anita si sedette in un angolo all’ombra delle vele e guardò l’orizzonte. Avevano passato da poco la punta di Baia Sardinia, stavano entrando nel canale e si vedeva il mare aperto. Il sole del mattino faceva brillare l’acqua come una coperta di lustrini d’argento, era ancora presto per i motoscafi e non c’erano onde artificiali o rumori. Solo il fruscio delle vele e il sommesso pigolare del timone automatico. Anita guardava e prendeva dei respiri profondi, come se avesse fatto una corsa, o un pianto. Si sentiva arrivare il fiato da dentro e per quanto allargasse i polmoni le sembrava che non bastasse e allora ne tirava su un altro, e poi ancora uno. I bambini erano silenziosi giù in cabina. Carlo, seduto vicino al timone, guardava la costa e ogni tanto la sbirciava di sottecchi, lei lo sapeva ma non le importava.
Arrivarono in vista delle rocce bianche del fiordo di cala Coticcio, Tahiti per gli intimi, in un bordo solo, senza quasi manovrare. Non era ancora mezzogiorno, c’erano poche barche, la caletta davanti alla spiaggia più bella era vuota. Il colore dell’acqua, blu scuro vicino alle rocce che scendevano a picco, schiariva verso la spiaggia in un turchese irreale, da cartolina.
Carlo aveva ammainato il genoa e acceso il motore al minimo. Senza dire una parola accostò piano a sinistra verso il vento e senza fretta camminò verso prua per calare l’ancora. Tornando in pozzetto sciolse la drizza della randa. Viola lo aiutò a imbrigliarla negli elastici. Anita restò per tutto il tempo seduta in quell’angolo, le giravano intorno come se non ci fosse, stavano attenti a non urtarla, parlavano piano tra loro.
Entrarono in acqua dalla scaletta, tutti e tre, e nuotarono verso la spiaggia.
Anita si era voltata in modo da guardare verso il largo, con le spalle alle rocce. Il profumo dell’elicriso arrivava fino a lì e quei colori, l’aria leggera che l’accarezzava, la baia che aveva amato di più di tutto l’arcipelago - che era il luogo che aveva amato di più in assoluto, le sembrarono inutili. Aveva tanto guardato il riflesso del sole sul mare che le bruciavano gli occhi e quando spostava lo sguardo le restavano impresse le ombre di macchie scure e frastagliate.
Non ci capisco più niente, pensò. La lacrime le scendevano lungo le guance. Io credevo che mi piacesse. E invece non lo so che ci faccio qui. Non so più niente, so solo che non mi piace. Le colava il naso e si pulì il moccio con il dorso della mano. Mi fa schifo tutto e non so nemmeno cosa vorrei.
Si alzò, si guardò intorno e vide Carlo e i bambini sulla spiaggia. Erano vicini a un gruppo di scogli, lui era chinato e loro lo guardavano. Forse gli stava parlando.
Scese in cabina, cercò un pezzo di carta da cucina per soffiarsi il naso.
Dentro era fresco, l’aria entrava dal boccaporto di prua e la penombra riposava gli occhi. Si stese nella sua cuccetta e si addormentò profondamente.

tahiti

Questo è L'occhio del coniglio, un romanzetto che ho scritto io e che mi piace offrire ai miei blogamici e agli sfaccendati che passano di qui.

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(Però poi non venire qui a spoilerare il finale eh, t'ammazzo! Che, se non si era capito, le puntate qui continuerò a metterle, al ritmo di due a settimana, più o meno.)

 

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Le foto, dove non specificato, son prese in internet

 
 
 

EDS ipogeusia

Post n°738 pubblicato il 22 Aprile 2013 da LaDonnaCamel
 
Tag: EDS, gusto, sensi
Foto di LaDonnaCamel

Sul cruciverba di repubblica del 20 aprile (guarda delle volte le combinazioni che la vita ci riserva)  al 18 verticale viene chiesto di inserire la parola che corrisponde al termine scientifico per la mancanza di gusto. È una parola difficile, che non avevo mai usato, ipogeusia. Non l'avevo mai usata e non la conoscevo, apposta faccio le parole crociate, per imparare cose nuove e anche per diventare più intelligente.
La mancanza di gusto la definivo in altro modo, pensando a quelle che si vestono male e accostano il blu al marrone, che poi certe regole valevano ai tempi di mia nonna ma adesso la trasgressione può essere trendy e anzi, può dare effetti strepitosi perché impensati. Metteresti i sassi nel risotto, per esempio? Eppure si può fare, te lo giuro. Che poi non serve nemmeno giurare perché ho i testimoni, te lo giuro.
E dunque facciamo questo EDS e si dovrà parlare dei sapori sopraffini o schifosi e delle papille gustative e di chi ha gusto e chi non ce l'ha, ovvio, e ci starà bene anche una ricetta, mostrata raccontata o letta, altrettanto ovvio, e per insaporire la minestra ci metteremo una grattatina di dialetto, ma poco eh, che se no attacca giù in gola e rovina tutto: tanto quanto il parmigiano sulle lasagne, la bottarga sugli spaghetti, il tartufo dappertutto e i sassi nel risotto.

quindi:

- scrivi un racconto sul tuo blog
- parla dei sapori sopraffini
- mettici una ricetta
- mettici un po' di dialetto, ma poco!
- due settimane di tempo: scadenza lunedì 6 maggio a mezzanotte
- quando hai fatto dillo

 

sasso

 

E vai che si comincia!

Come prima portata abbiamo le sarde a beccaficu chi offre di più?
Ovvio, O ‘rraù! la rima sembra che me l'ero preparata ma invece no, credici.
Il caffé? ma come, stiamo già al caffè? ma se mancano dieci giorni, hai voglia a scrivere, a sto giro mi sa che ne facciamo tre a testa!
E non basta: tornano pure i reduci, e i piselli freschi, ma dove sei stata per tutto questo tempo?

Il Vino, anzi lu vinu! Meno male che qualcuno ci ha pensato, mica si poteva digerire un prnazo così solo con l'acqua, e sono pronti anche i risi e bisi, a tavola a tavola!

L'ho fatto anche io, manca ancora qualcuno e manca ancora una settimanella piena e già c'è chi fa il bis, l'avevo detto che questa volta facciamo il botto?

 
 
 

L'occhio del coniglio 30. Sì, sono d’accordo.

Post n°737 pubblicato il 21 Aprile 2013 da LaDonnaCamel
 
Foto di LaDonnaCamel

La fine è vicina (cit.)
Domenica prossima posterò l'ultimo capitolo. Ancora un po' di pazienza e poi basta, non ti ammorberò più con questa storia. Finalmente ti potrò ammorbare con un'altra storia.


 
"Sì, sono d'accordo, è così anche per me". Annuiva e guardava le foglie fradice incollate alla strada tra le pozzanghere iridescenti.
"Lo sapevamo che non sarebbe stato per sempre, ti ricordi?"
"Certo che mi ricordo. Te l'ho detto, anch'io sono un po' stanco. Va bene anche a me."
Erano arrivati senza accorgersene in fondo alla via e un grande prato incolto si stendeva davanti a loro. La pioggia aveva lasciato l'aria trasparente, la riga di nuvole nere si stava allontanando. Il fango però era ancora fresco, lo sentivano viscido sotto le scarpe.
Si erano fermati e si fronteggiavano indecisi se tornare indietro o costeggiare il prato lungo il sentiero.
"Devi andare?"
"No, sarei libera ancora per un po'. Se devi andare tu, però..."
"No, no, io resterei volentieri. Non fa freddo."
"Sì, si sta ancora bene."
Stava per darle la mano, poi invece lasciò stare e la mise in tasca sentendosi goffo.
"Camminiamo ancora un po', ti va?" disse lei prendendolo a braccetto, "Posso appoggiarmi? Ho paura di scivolare."
Le strinse il braccio e camminarono piano lungo il prato umido.
Le rondini gridavano tracciando rotte irregolari nel cielo chiaro.
Lui prese un respiro profondo, lei si fermò e lo guardò.
"Ti dispiace davvero tanto?" disse piano.
"No, te l'ho già detto. Non c'è nessun problema. È così anche per me. Va tutto bene. Prima o poi doveva succedere. Era previsto. Non preoccuparti per me. Tu piuttosto?"
"Io? Io non so. Sì. Va tutto bene anche per me."
"Allora partite domenica? Quanto state via?"
"Una settimana, solo una settimana. E voi, che fate?"
"Niente, staremo a casa. I bambini hanno la scuola, non possiamo tenerli a casa oltre la fine delle vacanze. E poi Anita deve lavorare."
Si erano fermati di nuovo,  lei si era allontanata di qualche passo. Con la punta del piede faceva rotolare un riccio di ippocastano mezzo aperto.
Lui si avvicinò da dietro, sentiva il profumo dei suoi capelli.
"E come stai? Voglio dire, sei sicura di farcela?"
"Bene. Sto bene, non ti preoccupare. Va tutto bene. Al massimo prendo un po' di pillole."
"Sei sicura? Io me la cavo sempre in un modo o nell'altro, lo sai. Ma non vorrei mai che tu"
"Basta. Andiamo?"
Si voltò lentamente e lasciò che i loro occhi si incontrassero. Rimasero a fissarsi per un tempo indefinito, era tutto quello che sarebbe rimasto. Tutto bene, davvero, tutto bene.
"Ti accompagno?"
"No, grazie. Meglio di no."
"Allora ciao".
"Ciao. E fatti sentire. Qualche volta."
"Sì. Qualche volta."

 

la fine è vicina

Questo è L'occhio del coniglio, un romanzetto che ho scritto io e che mi piace offrire ai miei blogamici e agli sfaccendati che passano di qui.

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