Creato da LaDonnaCamel il 16/09/2006
Il diario intimo della Donna Camèl con l'accento sulla èl
 

Messaggi del 13/12/2011

Lo scultore

Post n°526 pubblicato il 13 Dicembre 2011 da LaDonnaCamel
 

Mi è arrivato un altro racconto anonimo. Questa cosa mi lusinga, non pensavo di avere tanti seguaci nascosti nell'ombra. Mi raccomando, tu che leggi, commenta anche questi racconti anche se non sappiamo di chi sono, soprattutto perché non sappiamo di chi sono. Ricordati cosa diceva il vecchio Re: è la storia, non chi la racconta.

Lo scultore

E’ il primo colpo di martello, quello più impegnativo.  Basta un’esitazione, un tentennamento della mano e il danno è fatto.
Carlo, in piedi davanti al blocco di marmo, non riesce a decidersi. Si sente arenato, come uno scrittore fermo sulla pagina bianca.
La statua non si svela. Si fa desiderare, nascondendosi all’interno della pietra.
Lo scultore è tormentato da un’immagine: una bimba, in ginocchio, china su una tana scavata alla base di un salice. La composizione lo assilla già da qualche anno. Questa bambina urla per uscire.
E Carlo sente quell’urgenza, la avverte con tutto il suo corpo. Cerca di concentrarsi: “Cosa manca ancora?”. Tutto inutile. Qualcosa gli sfugge. Si gira, nervoso, e raggiunge il tavolo in fondo alla stanza.
Sopra, fogli pieni di schizzi a carboncino: particolari del busto, mille dettagli del viso. Quanto ha patito prima di trovare l’espressione voluta! Notti insonni spese nel tentativo di rappresentare, almeno sulla carta, quella bocca e quello sguardo, così chiari nella sua mente. Il significato di quest’opera è racchiuso nell’espressione. La bimba, inginocchiata, attratta dal nascondiglio e al tempo stesso bloccata dalla paura. L’indecisione della mano, tesa verso la tana, è secondaria. Tutto dev’essere rivelato dal volto.
Tratteggiare il tronco di salice, invece, è stato più semplice. E’ il soggetto di sfondo, importante solo per il rifugio nascosto tra le sue radici. Pochi tratti, necessari per accompagnare l’occhio in basso, verso la tana.
Carlo è affascinato dalla tecnica orientale, in cui il soggetto non è mai completamente tracciato. Qualche colpo di scalpello sufficiente per far percepire il tutto. I particolari non devono spiegare la scultura. La loro assenza, piuttosto, rende l’osservatore sensibile alle intenzioni dell’artista.
L’opera deve scorrere nell’animo dello spettatore, come il liquido fluisce in una ciotola vuota e si adegua alla forma del contenitore. Niente di esplicito. Tutto è lasciato al sentimento di chi guarda.
Accompagnato da questi pensieri, chino sul tavolo, Carlo esamina i fogli. Li separa con le mani. Poi li solleva e li scorre uno a uno. Un’ultima correzione a un dettaglio della mano destra della bambina. E’ stremato, quindi pronto a iniziare. La mente si fa silenziosa, per lasciar parlare lo spirito.
Con decisione, afferra martello e scalpello e si avvia verso la pietra. Colpisce. E finalmente l’ispirazione fluisce libera, come un fiume in piena non più costretto tra gli argini. Le martellate si susseguono rapide e precise. Ogni colpo alleggerisce il marmo e scopre la statua. Ora è sereno, felice: sta liberando la bambina.

Questo racconto mi è stato inviato in forma anonima per partecipare all'EDS del ponte, le regole sono qui e la scadenza, lo ricordo, è a mezzanotte.

 
 
 

Un contributo anonimo

Post n°525 pubblicato il 13 Dicembre 2011 da LaDonnaCamel
 

Stamattina nella mailbox della Donna Camel c'era questo racconto, che pubblicherò senza indicare i dati di chi lo ha scritto, come da richiesta, per partecipare all'EDS del ponte.

ASSENZA - DANNO - GINOCCHIO - PIETRA - SPIRITO – TRONCO

Un tappeto di foglie gialle mi accoglie al mio ingresso nel grande giardino. Qualche giorno di assenza a scuola e l’autunno si è già impossessato  ormai di tutto lo spazio intorno. Cammino lentamente cercando di non far rumore: lo scricchiolio della ghiaia mista a foglie sotto i piedi mi distrae dai miei pensieri.
Oggi come ieri. Camminavo anche allora in punta di piedi, ma per non farmi sentire da te, la mia compagna di giochi da sempre. Ci piaceva giocare a nasconderci in quell’immenso spazio verde: i nascondigli erano sempre gli stessi, ma noi ci divertivamo un mondo. Le corse affannate, le risate argentine riempivano il cielo di vita.
Oggi no, il cielo plumbeo rimanda solo tristi presagi riflessi nelle pozzanghere. È passato troppo tempo: allora correvamo nel fango, ora cammino in punta di piedi per evitare di affondare con i tacchi alti.
Una volta, correndo, sei scivolata e cadendo su di una pietra, ti sei sbucciata un ginocchio: il danno  sembrava piuttosto grave e ti ho vista piangere per la prima volta. Mi sono spaventata, ti eri fatta male e io, chissà perché, mi sentivo in colpa.
Ti ho accompagnata sorreggendoti per la vita, non ce la facevi a camminare e ti sei seduta sopra un tronco lì vicino: ti ho fasciato il ginocchio con il mio fazzoletto e mi hai finalmente sorriso tra le lacrime.
Credo di averti visto poche volte piangere: spirito forte, libero e indipendente, ti ho sempre ammirata,   la più brava a scuola, sempre, fino all’università, per me  come una dea, una roccia.
Per un periodo ci siamo perse e poi ritrovate per caso, insegnanti nella stessa scuola. I fili magicamente riannodati, le compagne di gioco diventano compagne di lavoro, e come un tempo, l’intesa è perfetta: i tuoi occhi brillano e io so già  cosa vuoi dire.
Anche l’altra sera, in ospedale, ho guardato i tuoi occhi neri, profondi e velati ed ho capito: non stavi piangendo,  tu non piangi quasi mai.
I pensieri si affollano nella mia mente, un peso enorme mi sovrasta, mi tolgo il cappotto e lo appoggio all’attaccapanni: il tuo posto è là, vuoto. Strano non vedere la tua sciarpa rosa, quella con i brillantini o “sbrilluccichi” come dici tu: la lasci spesso appesa lì,  quasi a tenerti il posto, e poi, rauca di troppe sigarette, ti lamenti: - Oggi non ho voce, ho preso freddo ieri, senza sciarpa, non posso fare scuola così, in classe non mi sentirà nessuno.-
Ti sentono, eccome, i ragazzi, non solo la tua voce roca da fumatrice incallita, ma sentono la tua passione, la tua forza comunicativa:  schietta, ironica e diretta, talvolta colpisci al cuore, nel bene e nel male.
    - Sto male, sì, ma, vedrai- mi hai detto l’ultima volta con una voce flebile, rotta dall’affanno- non permetterò certo a “questa cosa qui” di impedirmi di tornare.-
Hai indicato l’addome stranamente gonfio, sorridendo quasi fosse uno scherzo: ma i tuoi occhi, una voragine nera di dolore, non mentivano e allora, un brivido è sceso nella schiena, ed ho capito.
Cammino piano, cercando di non far rumore: i tacchi rimbombano troppo nell’atrio della scuola. Non voglio disturbare: la campanella della seconda ora non è ancora suonata.
Riprendere a insegnare è dura, senza di te, non so proprio quali parole userò per dirlo ai ragazzi.

 
 
 

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