Quando un amore va

Lucia e Vincent sono uniti dall’amore e dal lavoro. Una simbiosi perfetta che però diventa sconveniente quando lui non riesce a gestire un insuccesso. E se ne va. Se c’è una cosa che trovo snervante sono le scene strappalacrime. Soprattutto quelle d’amore. Quella che segue poteva esserlo, ma la scanzonata intelligenza di Lucia le dà un taglio che ci impone di ricordare che la vita va presa, quando possibile, con ironia.

MONTAGGIO FINALE

È la scena di un film?

«Mi piaci molto», dice l’uomo, «ma non ti amo più. È semplicissimo».

Nei dieci e rotti anni in cui la donna è stata sposata con lui, niente di quell’uomo è mai stato semplice. Nemmeno scaricarla può esserlo.

«Ti sei innamorato di un’altra?» Una domanda inutile che non otterrà mai una risposta diretta. Comunque lei sa già la risposta.

«No».

È sempre stato pessimo a dire le bugie e adesso sta mentendo. La guarda così fisso negli occhi che in quel momento le viene voglia di ridere. Lui crede davvero a quel mito idiota: se guardi l’altra persona dritta negli occhi, dimostri di stare dicendo la verità.

«Ti prego, non lasciarmi», dice lei.

Piuttosto che scrivere una battuta del genere, mi taglierei la gola!

«Ti prego», ripete. «In questo momento ho bisogno di te».

Non ce l’ha un briciolo di orgoglio? Questo dialogo va riscritto.

«Voglio essere libero», dice l’uomo.

«Perché proprio adesso? L’anno scorso no? O l’anno prima?»

L’uomo alza le spalle come se non ci fosse un motivo particolare. Lei conosce il motivo. L’anno prima lei stava scrivendo per lui la sceneggiatura di Capriola e l’anno scorso lui l’ha girato. È stato il loro più grande successo.

«C’è un’altra, vero?»

L’uomo infila un dito nel bicchiere e rimescola i cubetti di ghiaccio. «Ce lo siamo detti: se non funziona, divorzieremo. Ce lo siamo detti quando ci siamo sposati, vero o no?»

Oh sì, se l’erano detti. La donna annuisce. A dirlo s’erano sentiti frivoli e disinvolti: li aveva aiutati a superare l’imbarazzo di essere pazzi l’uno dell’altra.

«Be’, è successo», dice lui. Butta giù un lungo sorso.

Tutta la scena è sbagliata. Se la stessi scrivendo, mi fermerei e mi chiederei: allora, cosa abbiamo? Abbiamo un uomo e una donna in un salotto mezzo ammobiliato. Lui è un regista. Lei è una sceneggiatrice. Nella stanza c’è anche un cane. Non ce lo metterei mai un cane in una scena del genere. Però c’è un cane nella stanza.

«Ti prego, resta», dice la donna.

Questa scena non va da nessuna parte! Qual è il senso di questa scena? L’uomo ha intenzione di andarsene per sempre. La donna si rende conto che le cose tra di loro non miglioreranno mai ma vuole che lui resti finché non finiscono il prossimo film. È da un sacco di tempo che lei lavora alla sceneggiatura.

«Almeno fino alla fine del film», aggiunge la donna.

«Non voglio farlo questo film».

Questo è un brutto colpo. Nella stanza non fa freddo ma lei ha freddo. «Non ci credo!», esclama. Cerca di nascondere i brividi. «Abbiamo già il contratto. Un contratto fantastico. Il migliore di sempre!»

Lui lo sa benissimo! Per un dialogo del genere boccerei i miei studenti di cinema! Quante volte ho spiegato l’esposizione: dico sempre che devono trovare un modo per fare entrare il pubblico in una situazione senza che i personaggi si raccontino quello che già sanno.

Il cane, una grossa barboncina nera, ha lasciato cadere una palla intrisa di saliva ai piedi dell’uomo. La barboncina lo guarda e scodinzola.

L’uomo ignora il cane. «Non voglio più che siamo i Wade», dice. «Non voglio più essere Vincent-e-Lucia Wade». Pronuncia i nomi insieme come se fossero tutt’uno.

«Perché no? Non ce la siamo cavata male».

«D’ora in poi voglio essere Vincent Wade». Evita di guardarla. «Ho rinegoziato il nostro contratto per un film diverso che voglio fare da solo».

«Fammi capire», dice lei. «Hai trasformato il nostro contratto in un altro contratto che mi esclude? E quando è successo?»

«Ci sono i telefoni a Dublino, eh».

Quindi lui aveva orchestrato tutta la faccenda dal set mentre lei si trovava in una stanza poco lontana a scrivere la sceneggiatura di un film che lui sapeva di non volere fare.

«E i produttori? Hanno gradito il gioco di prestigio?»

«Comunque a loro la tua sceneggiatura non piace».

«Perché?»

«Non gli piace, tutto qui». Lui solleva il bicchiere e butta giù un lungo sorso di scotch. «Il finale… Pensano che il finale sia troppo cupo».

La donna ha la sensazione che lui stia improvvisando. «È lo stesso finale del libro. Quando hanno letto il libro, non avevano niente da obiettare».

«Ho proposto un prodotto molto commerciale. Un best seller».

«Ah sì? E cosa?» La donna è ancora in preda ai brividi, ma per la rabbia, non per il freddo.

L’uomo dice il titolo del romanzo che ha comprato.

Incredibile quante cose si possono fare al telefono da Dublino a Los Angeles.

Le dice quanti registi di grido volevano comprarlo. Elenca i nomi in tono trionfante. Sembra più orgoglioso di averli fregati di quanto non lo sia del romanzo in sé.

Cristo santo, non farle chiedere chi scriverà la sceneggiatura.

«Chi scriverà la sceneggiatura?», domanda.

«L’autore». Lancia alla donna un’occhiata torva e accusatoria con il bicchiere alle labbra. «A te il libro non è nemmeno piaciuto!»

«Lo stile mi piaceva… Non mi piaceva la protagonista. Mi sembrava così paralizzata, così spenta…»

«È spenta perché soffre», dice l’uomo, sulla difensiva. «Soffre più della gente qualsiasi».

«E perché?»

«Perché è più sensibile».

«Non riuscivo a capirla».

«Come potresti? Tu sei una sopravvissuta». Le ha già dato della sopravvissuta, con lo stesso tono sprezzante. Le sta rimproverando di non essere abbastanza sensibile, di non essere abbastanza fragile. Sottintende che lei è banale, perché quando soffre non è paralizzata. Sta forse ricordandosi di quella sera al Beverly Hills Hotel un paio d’anni fa in cui lei s’è trasformata in un’isterica ululante e l’ha quasi ucciso? Se la lampada che gli ha lanciato non avesse avuto il cavo corto, forse l’avrebbe ucciso.

«Va bene», dice l’uomo, «ti ho detto quello che volevo dirti». Scola il bicchiere.

«Torni in albergo?»

Lui annuisce.

«È assurdo. Tu vivi qui, questa è casa tua. Quello è il tuo cane. Io sono tua moglie».

Altra battuta orribile. Perché lei si cataloga come una cosa di sua proprietà?

All’improvviso si rende conto che lui non porta più la fede. Libero, l’anulare della mano sinistra sembra più grosso e paffuto che mai. Anche lui sembra più grasso dall’ultima volta che l’ha visto un paio di settimane fa a Dublino. Era lì a girare un film, il primo scritto da un altro sceneggiatore. Era stata lei a volerlo. Quando avevano avuto bisogno di soldi lei s’era messa a scrivere per altri registi. Sapeva che era un bene per entrambi lavorare con gente nuova. Questo sceneggiatore in particolare era un amico giornalista che avevano pagato di tasca loro per buttare giù una prima stesura. Più tardi Vincent aveva stretto un accordo con lo studio. La donna era stata a Dublino per quasi tutta la durata delle riprese ma se n’era andata in anticipo per tornare a casa e finire di arredare l’appartamento. Al termine delle riprese, lui inaspettatamente (per lei) è andato a Parigi. Quando è tornato a New York si è trasferito direttamente in albergo.

«Come mai sei andato a Parigi?»

«Mah… ne avevo voglia».

«Hai visto Claude e Monique? Hai visto Nelly?»

«Ho… ho preferito starmene per i fatti miei».

Non è bravo a mentire. Non è mai riuscito a starsene per i fatti suoi, non sopporta di stare da solo. Già dopo pochissimi anni non riusciva nemmeno a stare da solo con lei.

«Dov’è la fede? Sul fondo della Senna?»

«Ma che dici?»

Lui ha sempre avuto una memoria selettiva. Adesso si alza in piedi e contempla i mobili appena arrivati che hanno scelto insieme.

«Senza un tappeto, questa stanza è orrenda», dice. Lo dice con disprezzo, come se fosse quello il motivo per cui gli risulta impossibile restare lì.

«Non volevo sceglierne uno senza di te. Aspettavo che tu…» La voce le viene meno mentre lui si dirige verso l’ingresso. La barboncina gli corre dietro felice, con la palla in bocca. Alla fine la donna si alza e li segue.

Sulla porta, l’uomo dice: «Spero che resteremo amici. Non smetterò di considerarti una delle mie migliori amiche». Non le chiede che cosa spera lei o come vorrà considerarlo in futuro.

Se ne va. La coda della barboncina si affloscia. Lei lancia verso la porta uno sguardo indignato.

«C’est la vie», la donna dice alla barboncina.

Eleanor Perry, Pagine azzurre (romanzo e autobiografia)

Eleanor Perry Discusses Writing, Film and Feminism 1974 - Gallimaufry

Eleanor Perry

Quando un amore vaultima modifica: 2024-03-28T14:29:02+01:00da hyponoia

2 pensieri riguardo “Quando un amore va”

Lascia un commento

Se possiedi già una registrazione clicca su entra, oppure lascia un commento come anonimo (Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato ma sarà visibile all'autore del blog).
I campi obbligatori sono contrassegnati *.