Un certain regard

Quel certain regard di Emanuele Trevi che deve tanto alla malinconia, continua a trovare il mio favore soprattutto quando si propone nelle vesti di recensore. Ora, se è vero che nel mio cuore c’è posto per un solo scrittore, un assoluto fuoriclasse, è altresì indiscutibile che il mio amore per la letteratura mi spinge a  comprare libri che arricchiscono di continuo la mia biblioteca la quale, per pingue che sia, non sarà mai veramente tale ai miei occhi. Ma tornando a Trevi. Se è lui a propormi qualcosa, io mi fido a prescindere. Così, due giorni fa, dopo aver letto la recensione relativa a un vecchio saggio di Susan Sontag, comprato il libro ho cominciato a leggerlo dalle pagine segnalate come maggiormente meritevoli di attenzione, contravvenendo alla regola strettamente personale che esige di dare continuità cronologica alla lettura anche se si tratta di un saggio. Perché tutta questa fiducia in Trevi?  Perché sento di far parte del suo stesso pantheon, quello dei malinconici che sono a proprio agio negli inverni nordici o sotto una nevicata di ciliegi in fiore. E, ancora meglio, nella poetica dell’assenza.

RICORDANDO BARTHES

[…]

Nulla sfuggiva all’attenzione di questo zelante e ingegnoso studioso di se stesso: il cibo, i colori, gli odori preferiti; il suo modo di leggere. I lettori attenti, osservò una volta nel corso di una conferenza tenuta a Parigi, si dividono in due categorie: coloro che sottolineano i libri e coloro che evitano di farlo. Dichiarò di appartenere al secondo gruppo: non faceva alcun segno sui libri di cui intendeva occuparsi, trascriveva, piuttosto, alcuni passi chiave su delle schede. Ho dimenticato la teoria che in quell’occasione elaborò per spiegare tale preferenza; perciò, ne improvviserò una di mio conio. Associo la sua avversione per i segni sui libri al fatto che disegnava e considerava il disegno, praticato con grande serietà, una sorta di scrittura. Le arti visive da cui era attratto traevano origine dal linguaggio, erano, anzi, varianti della scrittura; pubblicò saggi sull’alfabeto di Erté, composto da figure umane, e sulla pittura calligrafica di Réquichot e di Twombly. La scelta di Barthes richiama alla mente la metafora morta del “corpo” di opere – di solito non si scrive su un corpo che si ama.

Susan Sontag, Sotto il segno di Saturno

Dall’alfabeto di Erté

Stampa dell'alfabeto vintage Erté lettera lettere R e S - Etsy Italia

Sotto il segno di Saturno

Sono anni che i miei occhi rivendicano il diritto ad essere manifestamente malinconici, e per quanto imporsi sia loro ferma volontà, nondimeno esitano a farlo perché continuano a registrare, nello sguardo altrui, l’assenza di una reale comprensione di quello che sono. “Rivendicano” può sembrare un’espressione forte, ma non lo è: in una società votata all’opulenza dell’immagine, laddove per opulenza è da intendersi sovraesposizione, la persona incline all’introspezione, che sorride delle magnifiche sorti e progressive senza per questo essere pessimista, è vista con sospetto. Ora, la malinconia, al pari di ogni altra dimensione emozionale, è suscettibile di svariate interpretazioni. Per questo motivo, evadendo dal personale, chi volesse una trattazione esaustiva e avvincente dell’argomento, troverebbe nel libro di Susan Sontag Sotto il segno di Saturno un valido strumento.

SU PAUL GOODMAN

[…] Il primo dei suoi libri che ho letto – avevo diciassette anni – fu una raccolta di racconti intitolata The Break-up of Our Camp, edita da New Directions. Nel giro di un anno lessi tutto ciò che aveva pubblicato e, da allora in poi, mi sono tenuta al passo. Non c’è un altro scrittore americano vivente che abbia suscitato in me la stessa naturale curiosità di leggere al più presto qualunque cosa scrivesse, su qualsiasi argomento. Nella maggior parte dei casi ero d’accordo con ciò che pensava, ma non era questa la ragione principale del mio interesse per lui: ci sono altri scrittori con cui concordo, ma ai quali non sono altrettanto fedele. A sedurmi è stata la sua voce – una voce così americana, diretta, scontrosa, egotista e generosa. […] La sua scrittura era un’ardita commistione di rigidità sintattica e felicità lessicale; era capace di costruire frasi di straordinaria purezza stilistica e vivacità linguistica, ma anche di scrivere in modo così sciatto e maldestro che ci si immaginava lo facesse di proposito. Eppure, non aveva alcuna importanza. È stata la sua voce, vale a dire, la sua intelligenza, e la poesia di quell’intelligenza incarnata, a fare di me un’ammiratrice devota e appassionata. […]

Leggendo Paul Goodman ho accumulato energia. Lui era parte di quel piccolo gruppo di scrittori, vivi o morti, che per me hanno sancito il valore del mestiere dello scrittore e dalle cui opere ho ricavato i criteri di giudizio in base ai quali valuto le mie. Di questo variegato e personalissimo pantheon hanno fatto parte alcuni scrittori europei viventi, ma nessuno scrittore americano vivente, a parte lui. Mi piaceva tutto ciò che consegnava alle sue pagine. Mi piaceva quando si mostrava cocciuto, goffo, umbratile, e anche quando aveva torto. Il suo egotismo, anziché infastidirmi (come mi capita spesso con quello di Mailer), mi commuoveva. Ammiravo la sua diligenza, il suo desiderio di rendersi utile. Ammiravo il suo coraggio, di cui diede prova in tanti modi – uno dei più ammirevoli fu la franchezza con cui in Five Years parlò della propria omosessualità, che gli valse le aspre critiche dei suoi amici eterosessuali del mondo intellettuale newyorkese; ciò avveniva sei anni fa, prima che la nascita del movimento di liberazione omosessuale rendesse chic uscire allo scoperto. Mi piaceva quando parlava di sé e quando mescolava i suoi tristi desideri sessuali ai suoi desideri politici. Al pari di André Breton, a cui per molti versi è paragonabile, Paul Goodman era un connaisseur della libertà, della gioia e del piacere. Tre cose su cui, leggendolo, ho imparato molto.

Susan Sontag, Sotto il segno di Saturno

Così Emanuele Trevi nel recensire Sotto il segno di Saturno:

Ma quello che più conta, è che la malinconia non è considerata primariamente né una patologia né un destino, ma una forma di conoscenza del mondo, e dunque una specie di metodo, proprio come si può parlare di un metodo scientifico o un metodo storico: “Proprio perché il carattere melanconico è ossessionato dalla morte, i melanconici sono coloro che sanno leggere il mondo”. O meglio, aggiunge subito dopo Susan Sontag, correggendo leggermente ma significativamente il tiro, “è il mondo ad arrendersi allo sguardo indagatore dei melanconici, come non fa davanti allo sguardo di nessun altro”. […] Non si tratta solo dell’evoluzione di un metodo critico, ma del talento di scrittrice della stessa Sontag. E c’è da rimpiangere che abbia sperperato un po’ dei suoi doni nella scrittura di romanzi (lo stesso errore lo fece un’altra grande maestra della forma saggistica, Joan Didion): non era quella la sua strada. Me ne convinco leggendo quello che mi sembra il pezzo più bello tra quelli raccolti in Sotto il segno di Saturno: un ricordo semplicemente perfetto di Roland Barthes, scritto nel 1980 a una settimana dalla morte improvvisa del maestro francese, a causa di un incidente stradale. Sono pagine impagabili nel loro mescolare, al rimpianto per la perdita di un amico e all’ammirazione sincera della sua opera, un velo di ironia che, anziché attenuare la commozione, è come il sigillo supremo dell’amicizia: perché ciò che abbiamo davvero amato e apprezzato spesso ci fa anche sorridere. E così, Susan Sontag riesce a schizzare magistralmente i tratti di un vero narcisista, di uno scrittore “vivace, rapido, denso, acuto“, talmente immerso in “un’immensa e complessa impresa di auto-descrizione” da diventare uno “zelante e ingegnoso studioso di sé stesso”. Ed è, anche questa, una forma suprema e geniale di malinconia.