Neve

Vilhelms Purvītis, Inverno

Lettone la neve di Purvītis, giapponese quella degli haiku di Yuko, protagonista del delicato racconto di iniziazione di Maxence Fermine. Chi non si lascerà demotivare dalla texture minimale di Neve, scoprirà una storia d’altri tempi. Tempi in cui ci si orientava facendo affidamento sul cuore:

“La neve è una poesia. Una poesia di un candore smagliante.

  In gennaio ricopre la metà settentrionale del Giappone.

  Lì dove viveva Yuko la neve era la poesia dell’inverno.

 Contro il volere del padre, nei primi giorni del gennaio 1885 Yuko intraprese la carriera di poeta. Decise di scrivere solo per celebrare la bellezza della neve. Aveva trovato la propria strada. Sapeva che quella vita sfolgorante non l’avrebbe mai stancato.

 Nei giorni di neve prese l’abitudine di uscire assai presto di casa e incamminarsi verso la montagna. Per comporre le sue poesie andava sempre nello stesso posto. Si sedeva a gambe incrociate sotto un albero e rimaneva così per ore e ore, vagliando in silenzio le diciassette sillabe più belle del mondo. Poi, quando infine sentiva di possedere la sua poesia, la vergava su carta di seta.

 Ogni giorno una nuova poesia, una nuova ispirazione, una nuova pergamena. Ogni giorno un passaggio diverso, una luce nuova. Ma sempre l’haiku e la neve. Fino al calar della notte.”

Neveultima modifica: 2024-05-02T10:40:31+02:00da hyponoia

5 pensieri riguardo “Neve”

  1. D’improvviso e senza alcun motivo, proprio mentre leggevo “Neve”, la pioggia ha schiaffeggiato più volte i miei vetri. Avrei voluto aprire la finestra per cantargliene quattro e restituirgliene altrettanti, ma non l’ho fatto. Incapace a reagire, sono rimasto a guardar scorrere le lacrime sulle gote dei miei vetri e quando ha smesso di piovere, come qualcosa accaduta lontano da me, ho ripreso a leggere. Mi è tornato in mente quando, essendo appassionato di gialli, ho scoperto gli haiku…
    “Guarda che gli haiku non hanno nulla a che fare con i gialli, sono poesia”, mi dice.
    Penso che, il fatto che le voglia bene non dovrebbe autorizzarla ad interrompermi ma, se lo fa, è proprio perché le voglio bene e, quindi, glielo concedo.
    “Chi ha inventato gli haiku?”, le chiedo.
    “I giapponesi”, mi risponde.
    “Quindi gli haiku hanno a che fare con i gialli”, le rispondo per tapparle la bocca. Invece è lei che tappa la mia con la sua trattenendo una fragorosa risata.
    Dopo una decina di minuti ovvero quando lei ha esaurito quel bacio, le chiedo:
    “Se la caratteristica del tweet erano 140 caratteri, qual è la caratteristica dell’haiku?”
    “Troppo facile, l’ho anche scritto: sono tre versi per complessive 17 sillabe”, mi risponde.
    Sorrido.
    “Sarai brava con le onomatopee, ma l’haiku non ha nulla a che vedere con le sillabe che in giapponese non esistono perché le parole si dividono in more. E la mora è l’unità di suono che, per loro definisce quella che noi chiamiamo sillaba e, sempre in giapponese, la mora determina l’accento…” e, qui, sono io a tapparle le labbra con le mie.
    Dopo quindici minuti ovvero quando esaurisco quel bacio, lei mi dice:
    “Adesso smettiamola di parlarne… vieni… scrivimelo addosso un haiku…”
    “17 more?”, le dico dandole la mano.
    “Se fossero di più sarà licenza poetica…”

  2. Impagabilmente delizioso. p.s. per la serie “Io non conosco le onomatopee ma tu non conosci le more” 🙂 detto tra noi per me le more, fino a 5 minuti fa, erano soltanto dei frutti di bosco 🙂

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