Paolo Cognetti e l’arte di narrare

Paolo Cognetti | Malatesta Literary Agency

“Era una femmina che non aveva ancora visto il suo secondo inverno, né altro mondo che l’autorimessa lungo la provinciale. Da sola, sul retro dell’officina, giocava col brandello di un vecchio copertone: lo mordeva, lo lanciava, correva a riprenderlo, quando si accorse di avere spettatori. Dalla cava di ghiaia lì accanto era comparso un cane grigio, che la guardava. C’era il fiume da quella parte, anche se in autunno era in magra e non ci voleva molto ad attraversarlo. Posò il pezzo di gomma per cercare nell’aria l’odore di quel maschio, ma come alzò il muso ne vide altri tre spuntare dal mucchio dei rottami. Tre pastori con il pelo infangato e il campanello nel collare, e questi invece li conosceva. Di giorno custodivano le pecore, pascolando le stoppie nei campi e l’erba intorno ai capannoni, e di sera si aggiravano in cerca di qualcosa da rubacchiare. Ma adesso non erano lí per il cibo, erano lí per lei. La femmina sapeva e non sapeva perché erano venuti. A poco piú di un anno d’età, questo nuovo interesse dei maschi nei suoi confronti faceva parte delle cose che stava imparando in fretta, cose eccitanti e pericolose come i falò che i ragazzi accendevano in estate, o la corrente del fiume che una volta l’aveva quasi portata via. […]

Un’autocisterna passò sulla provinciale, aveva un dito di brina sul tetto che volò via con uno sbuffo. Novembre. La femmina scese dal suo sedile e scodinzolò al maschio che si avvicinava. In lui la furia di poco prima si era già placata, l’annusò con gentilezza, si lasciò annusare. L’odore che lei sentí era di bosco, di terra, di foglie, e del sangue del cane che aveva appena ucciso. Le venne voglia di leccarlo, e lo leccò. Poi lui la prese e cosí la sua infanzia era finita per sempre. Risalirono il fiume, quel giorno, correndo per l’euforia di essersi incontrati, lungo i banchi di ghiaia e gli isolotti, attraverso le terre desolate del fondovalle. Le creste lontane erano segnate dalla neve, ma lungo il fiume sorgevano i cementifici, i mobilifici, gli ingrossi di materiale agricolo, i magazzini edili”.

Paolo Cognetti, Giù nella valle

A proposito dei suoi trascorsi, Cognetti ha detto: “Ho sempre pensato che sarei morto giovane, ma la vita si sta dimostrando più lunga del previsto; non mi sono mai visto vecchio. La morte me la sono sempre immaginata in montagna, perché lì per me sarebbe una bella fine”.

Anch’io pensavo che sarei morta giovane, per l’esattezza a 35 anni. Ma il destino decise che del mio delirio potevo farne scarti per discariche esistenziali o qualsiasi altra cosa m’avesse suggerito la già traballante ars cogitandi. E dire che avevo pure bell’e pronto un epitaffio alla maniera di Spoon River…

DAVID SEDARIS un toccasana contro il malumore

David Sedaris Is Still Having a Hoot Getting Dressed | GQ

“Anche se un’intera industria campa dicendovi il contrario, le gioie della mezza età sono davvero poche. L’unico vantaggio, a mio modo di vedere, è che se ti va bene acquisisci una stanza per gli ospiti. C’è chi se la ritrova in automatico quando i figli se ne vanno, mentre altri, come me, finiscono per cercare una casa più grande. “Seguitemi” dico ora. La camera in cui accompagno i miei ospiti non è riordinata in fretta per accoglierli. Non funge anche da ufficio o da stanza degli hobby, ma esiste a un unico e solo scopo. Dentro ci ho messo un letto vero, anziché un divano letto, e appoggiato a una parete, come negli alberghi, c’è un portavaligie. Il pezzo forte, però, è il bagno privato.

“Se alla vasca preferisci la doccia posso metterti di sopra, nella seconda stanza per gli ospiti” dico. “Il portavaligie c’è anche lì.” Quando sento queste parole uscire dalla mia bocca, affiancata da due solchi tipo burattino, provo un brivido di anziana soddisfazione. È vero, ho i capelli grigi e sempre più radi. Ho la guarnizione del pene che perde, e continuo a gocciolare urina ben dopo essermi richiuso la cerniera dei pantaloni. Però ho due stanze per gli ospiti.

La conseguenza è che, se vivi in Europa, quelle due stanze di ospiti ne attirano un bel po’. C’è chi spende una fortuna per il volo dagli Stati Uniti, e quando arriva è così povero e stanco che dormirebbe anche in macchina, se gliela offrissimo. Un tempo abitavamo in Normandia, in campagna, e gli ospiti venivano sistemati nella mansarda, che fungeva anche da studio per Hugh e puzzava di colori a olio e topi in decomposizione. Aveva il soffitto di legno ma non il riscaldamento, per cui faceva sempre o troppo freddo o troppo caldo. In quella casa c’era un solo bagno, incastrato tra la cucina e la nostra camera da letto. Poiché agli ospiti era negata la privacy che a volte serve in gabinetto, due volte al giorno prendevo Hugh e ci avviavamo verso la porta, gridando con la massima normalità: “Noi usciamo per venti minuti esatti. Serve niente dal marciapiede?”.

 da Calypso

Cari Amici e Familiari,

quando leggerete questa lettera io sarò già morta. Voi starete presenziando alla cerimonia e sarete seduti in silenzio, con in mano un bel fermacarte, un regalo che proviene direttamente da quella collezione che in vita era stata il mio orgoglio e la mia gioia. Vi rigirerete il fermacarte fra le mani e guarderete attentamente l’oggetto incastonato nel vetro, una rosa o uno scorpione, e fra le lacrime vi chiederete: “Che cos’è la morte?”. Io a quel punto la risposta a questo interrogativo la conoscerò, ma non sarò in grado di fornirvi i dettagli. So solo che un giorno vi incontrerò di nuovo nei verdi pascoli del Paradiso e sarò felice di abbracciarvi tutti, a parte Randy Sykes e Annette Kelper, e di farmi raccontare le ultime novità. Quando quel momento arriverà probabilmente non avrò molta voglia di vedere nemmeno mia madre, ma ahimè: arriva per tutti il momento in cui dobbiamo attraversare quell’ultimo vecchio ponte.

Se le mie indicazioni sono state seguite come ho chiesto (vedi busta n. 1), questa lettera vi sarà letta dal pulpito della Chiesa del Buon Pastore di Cristo dalla mia migliore amica Eileen Mickey (ciao, Eileen), che indosserà l’abito a maniche lunghe griffato Lisa Montino che mi stava così bene. (Eileen, io spero tanto che tu abbia perso un po’ di chili oppure che l’abbia fatto allargare sui fianchi, altrimenti ci soffocherai, lì dentro. Inoltre ricordati di farlo lavare a secco. So che tu e la tua famiglia volete sempre risparmiare, ma ti prego: non dare retta a quelli che dicono che Woolite fa miracoli. Mandalo in tintoria!)

La maggior parte di voi si sta probabilmente chiedendo perché l’ho fatto. Vi ripetete in continuazione: “Cosa può aver spinto Trish Moody a un gesto simile?”.

Sussurrate: “Perché, Signore? Perché hai preso con Te Trish Moody? Trish era un raggio di sole, sempre impegnata ad aiutare gli altri, sempre così allegra e vivace e piena d’amore. Così carina, poi. Sveglia, dolce e carinissima”.

Probabilmente scuotete il capo pensando che c’è un mucchio di gente molto peggiore di Trish Moody. Per esempio c’è quella sottospecie di uomo del suo ex fidanzato, Randy Sykes. Il ragazzo che, dopo che Trish gli ha accidentalmente tirato sotto il cane facendo retromarcia con la macchina, l’ha pestata come un tamburo. Pestata con le parole, d’accordo, ma è come se l’avesse presa a pugni. L’ha colpita ripetutamente con insulti ed espressioni quali “opportunista”, “gelosa”, “infantile” e altre che non oso riprodurre per iscritto. La morte del cane è stata un tragico incidente, ma forse nella sfortuna anche un bene, visto e considerato che Randy tendeva a trascorrere davvero troppo tempo con lui. Quel cane rischiava di diventare come lui, viziato e ribelle. Inoltre, avendo un pedigree lunghissimo, era comunque destinato a soffrire in futuro dei ben noti problemi all’anca.

E quale fu la risposta della mamma di Trish quando la sua bambina, dopo la rottura con Randy, corse da lei con il cuore a pezzi bisognosa di amore e comprensione? «Se stai cercando comprensione guarda sul vocabolario, fra “catarro” e “condiloma”.»

Può darsi che mia madre possa reggere battute del genere. Io no di certo”.

da Ciclopi

“Ho preso la bici e sono andato al lago delle barchette di Central Park, dove ho preso un gelato per poi sedermi a leggere su una panchina. Ho acceso una sigaretta, e me la stavo gustando quando la donna seduta tre metri e mezzo più in là, sull’estremità opposta della panchina, ha cominciato ad agitarsi le mani davanti alla faccia. Ho pensato che volesse scacciare una vespa.

Lei invece, continuando a dimenare le mani, mi fa: «Scusi, le spiace se stabiliamo che questa è una panchina per non fumatori?».

Davanti a una frase del genere io non so nemmeno da che parte cominciare a rispondere. «Le spiace se stabiliamo che questa è una panchina per non fumatori?» Stabiliamo un bel niente. I nostri voti si annullano a vicenda. Quello che voleva dire era: “Le spiace se lo stabilisco io che questa è una panchina per non fumatori?”.

Capirei se fossimo stati su un ascensore o rinchiusi insieme nel bagagliaio di una macchina, ma lì eravamo all’aria aperta. Chi si credeva di essere? La donna aveva un paio di sandali, che sono sempre indizio sicuro di guai. Sembravano il genere di calzature che poteva aver indossato Mosè mentre scalpellava le sue regole sulle tavole di pietra. Guardai i sandali, poi le braccia che si agitavano, e infine spensi la sigaretta. Facendo finta che non ci fosse alcun problema, mi misi a fissare le pagine del mio libro, odiando lei e Mosè. Tutti e due.

Il problema, con i non fumatori aggressivi, è che quando ti impediscono di fumare sentono di farti un favore. Sembrano convinti che un giorno, guardandoti indietro, li ringrazierai per quei quindici preziosi secondi di vita che ti hanno regalato. Non vogliono capire che per te sono solo quindici secondi in più per odiarli e meditare vendetta”.

da Diario di un fumatore

Favoloso Calvino

Alle Scuderie del Quirinale la mostra "Favoloso Calvino"

Tullio Pericoli, Ritratto di Italo Calvino, 2012

Una mostra, alle Scuderie del Quirinale, ripercorre l’universo immaginifico di Italo Calvino nel centenario della nascita, passando al setaccio lo stretto rapporto della sua scrittura con le arti visive, non di rado associate alla genesi delle sue opere.

Quando la letteratura incontra l'arte. Cento anni di Italo Calvino alle Scuderie del Quirinale - Roma - Arte.it

Illustrazione di Lele Luzzati per L’Uccel Belvedere, 1972

Favoloso Calvino”: i cento anni dello scrittore alle Scuderie del Quirinale

Pedro Cano, Fedora, ispirato a Le città invisibili, 2005

Vittore Carpaccio, San Giorgio che uccide il drago e quattro scene del suo martirio, 1516

Luigi Serafini, Pagina del Codex Seraphinianus, 1977,

(libro amatissimo da Calvino)

Mario Monge, Italo Calvino bateleur, 1973

(lo scrittore è fotografato nella posa del Bagatto dei tarocchi)

Nelle Città invisibili non si trovano città riconoscibili. Sono tutte città inventate; le ho chiamate ognuna con un nome di donna; il libro è fatto di brevi capitoli, ognuno dei quali dovrebbe offrire uno spunto di riflessione che vale per ogni città o per la città in generale.

Il libro è nato un pezzetto per volta, a intervalli anche lunghi, come poesie che mettevo sulla carta, seguendo le più varie ispirazioni. Io nello scrivere vado a serie: tengo tante cartelle dove metto le pagine che mi capita di scrivere, secondo le idee che mi girano per la testa, oppure soltanto appunti di cose che vorrei scrivere. Ho una cartella per gli oggetti, una cartella per gli animali, una per le persone, una cartella per i personaggi storici e un’altra per gli eroi della mitologia; ho una cartella sulle quattro stagioni e una sui cinque sensi; in una raccolgo pagine sulle città e i paesaggi della mia vita e in un’altra città immaginarie, fuori dallo spazio e dal tempo. Quando una cartella comincia a riempirsi di fogli, comincio a pensare al libro che ne posso tirar fuori”.

[…]

Che cosa è oggi la città, per noi? Penso d’aver scritto qualcosa come un ultimo poema d’amore alle città, nel momento in cui diventa sempre più difficile viverle come città. Forse stiamo avvicinandoci a un momento di crisi della vita urbana, e Le città invisibili sono un sogno che nasce dal cuore delle città invivibili. Oggi si parla con eguale insistenza della distruzione dell’ambiente naturale quanto della fragilità dei grandi sistemi tecnologici che può produrre guasti a catena, paralizzando metropoli intere. La crisi della città troppo grande è l’altra faccia della crisi della natura. L’immagine della «megalopoli», la città continua, uniforme, che va coprendo il mondo, domina anche il mio libro. Ma libri che profetizzano catastrofi e apocalissi ce ne sono già tanti; scriverne un altro sarebbe pleonastico, e non rientra nel mio temperamento, oltretutto. Quello che sta a cuore al mio Marco Polo è scoprire le ragioni segrete che hanno portato gli uomini a vivere nelle città, ragioni che potranno valere al di là di tutte le crisi. Le città sono un insieme di tante cose: di memoria, di desideri, di segni d’un linguaggio; le città sono luoghi di scambio, come spiegano tutti i libri di storia dell’economia, ma questi scambi non sono soltanto scambi di merci, sono scambi di parole, di desideri, di ricordi. Il mio libro s’apre e si chiude su immagini di città felici che continuamente prendono forma e svaniscono, nascoste nelle città infelici”.

Italo Calvino, Le città invisibili

Almeno erano le lettere di lei

“[…] L’amavo? L’amo? Era sposata da tanti anni con un altro. Adesso aveva il cancro. Sulle buste delle sue lettere c’erano francobolli con le farfalle da tredici centesimi. Nell’angolo in alto a sinistra c’era il suo indirizzo da ragazza. Se mai l’avesse cercata, non sarebbe andato nella casa dove viveva con il marito e i tre figli. Sarebbe tornato nella città dove le strade non erano più popolate da persone che conosceva, ma lunghe, deserte e ampie come i viali di Tamatave. In realtà non ricordava affatto la città di quando lei era ragazza. La memoria cala, sprofonda sotto il proprio peso negli stagni melmosi. Il nuovo virus che a quanto aveva letto trasforma in tre giorni una persona in poltiglia nera forse era solo il contraltare di quello che l’oblio fa all’anima molto lentamente. Perché lui poteva ricordare l’emozione che aveva provato quando le sue lettere si erano posate, una dopo l’altra, nella cassetta della posta, ma ormai poteva solo simulare, non ricapitolare, l’emozione flagrante e fragrante che gli aveva invaso i polmoni quando aveva aperto ogni busta tanti anni prima. Ormai le lettere avevano quasi la stessa età di loro due da ragazzi. Una volta si mise a rileggerle, ma alcune erano battute a macchina e altre scritte nella sua calligrafia intensa e scontrosa; aveva letto solo le parti scritte a macchina perché era stanco e gli dolevano gli occhi. Sta andando troppo per le lunghe, gli aveva scritto, e lui pensò: Mi sa che vale anche per la mia vita. Volevo essere educata ma non amichevole. Ora sono egoista e meschina, quasi mai gentile. La mia vita mi piace così com’è perché è appartata e quasi tutta mia. Poi aveva cancellato due o tre righe e continuato: Ora sono maleducata. Voglio solo allontanarmi a pensare. Gli parve di ricordare (non ne era certo) di aver passato un’ora o più a cercare di individuare la parte maleducata e adesso, se proprio avesse voluto farlo, gli sarebbe toccato chiamare la CIA. Non perché non gli interessasse; la sua mente e la sua anima erano andate all’estero così tante volte, intrappolandolo ogni volta in nuove esperienze da cui, lottando per liberarsene o immergersi di più, aveva sparso polvere e sepolto il suo passato. Tutti quegli strati gli fecero venire il dubbio che amarla ancora (o amarne il ricordo) potesse essere grottesco. Tutto lo affaticava. Pensare a lei gli dava piacere anche adesso, ma quelle lettere ammuffite erano come ganci per trascinarlo in basso. Chiuse gli occhi e vide la sua firma formarsi all’interno delle palpebre come una scritta nel cielo. Le parole che lei aveva messo sulla carta erano immutabili. Il tempo l’aveva separata sempre di più da ciò che era stata. Almeno erano le lettere di lei. Le sue sarebbero state peggiori. I riflessi dei ciuffi d’erba nell’acqua scura circostante inverdivano anche la terra sul fondo che sembrava fluttuare nel buio. Si sarebbe tuffato a cercare le donne che lo avevano amato. Avrebbe vissuto per saltare sulle isole di roccia rossa nella foresta. Un uccello batteva le ali al ritmo del suo cuore.

Una madre lesse al figlio: Gli irochesi aspettavano nella foresta.

Il cielo era un soffitto di cristallo azzurro sorretto da colonne di betulle bianche rivestite di rigogliose felci crepuscolari. Era l’ora in cui la luce esce dai laghi. […]”

William T. Vollmann

Il profeta della strada

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“Povero il biologo costretto a dimostrare (mai scoperto perché) che il caribù nelle tundre canadesi cede un litro di sangue a settimana alle zanzare. Ovviamente il caribù ha più sangue di noi; forse non è così grave come sembra, pagare un litro di sangue a settimana per il privilegio di vivere. Ricordo giorni di estate in Alaska in cui quasi non mi vedevo il dorso delle mani perché era coperto di zanzare. Un pilota della forestale mi raccontò che una volta aveva sorvolato una collina dove un uomo sembrava fargli dei segnali con lunghe stelle filanti nere; anche lì si trattava di zanzare a migliaia, che usavano quell’uomo come frangivento mentre lo attaccavano, alzandosi e abbassandosi in spaventosa armonia con le sue braccia frenetiche, velandogli il volto di un nero ronzante e famelico. Di solito è difficile afferrare il concetto di oceano per analogia con una sola goccia d’acqua, ma nel caso di queste sgradevoli creature, l’alacrita’ vampiresca con cui una zanzara ci piomba addosso basterà a rappresentare l’intero sciame, a differenza della goccia di rugiada che giace così docile nel palmo di una mano da sembrare del tutto estranea alle maree e ai naufragi tra gli scogli. La goccia d’acqua è a riposo ovunque. La zanzara sembra soddisfatta solo quando si installa sulla nostra pelle, le sei ginocchia flesse sopra le ali, le zampe anteriori parzialmente in fuori come quelle di un cane sdraiato, le antenne dritte, la testa in giù, la proboscide affondata dentro di noi per succhiarci un altro po’ di vita. Anche in questo stato di soddisfazione la creatura appare in tensione. È pronta a ritrarsi dalla ferita in qualsiasi momento (anche se mentre si gonfia di sangue sarà sempre meno in grado di farlo alla svelta); ottiene, in breve, un orgasmo furtivo e semi distratto, tutto quello che la legge naturale permette a un pigmeo che stupra un elefante. Lo spettro delle sensazioni tra il piacere, la paura e l’appagamento nelle zanzare deve essere molto ristretto. Quando si rannicchiano smaniose sulle foglie o sui soffitti non sembrano tanto diverse da quando si nutrono. […]

Quando andai in autostop da San Francisco a Fairbanks le zanzare mi circondarono con un ronzante inno di laurea – non subito, ovviamente; solo quando arrivai in Canada. Finché ero in salvo su un camion non potevano toccarmi e io vissi la familiare emozione della velocità e della distanza, crogiolandomi sul retro dell’autocarro, con un bellissimo husky che mi baciava le mani e le guance, ma appena rallentammo per lasciar passare un alce mi giunsero di nuovo all’orecchio. Una zanzara mi punse. Ormai mi trovavo sull’Alaska Highway. Avevo scordato la notte in cui mi arresi, senza neanche essere in Oregon, e mi fermai in un motel, con il viso lurido e ustionato e gli occhi doloranti; mi parve un peccato spendere sedici dollari per la stanza ma era tutto il giorno che pioveva a dirotto, e nessuno mi avrebbe dato un passaggio. Più il mondo mi sporcava, meno probabile era che qualcuno mi accettasse. Ma la mattina dopo c’era il sole e mi ero fatto la doccia e la barba, ragion per cui in mezz’ora rimediai un passaggio da un furgone che mi portò in Oregon, e mentre viaggiavo tutto contento credendo di aver fatto progressi, non considerai proprio che l’interno del furgone non era tanto diverso dall’interno di un motel; ero di nuovo protetto. Quando ricordo quell’estate, ora così lontana, devo riconoscere che sono ancora protetto, sia pure in modo fluttuante, e così mi punge una domanda insistente: cosa è peggio, essere protetti troppo spesso e quindi dimenticare le altrui sofferenze, o soffrire di persona? Forse esiste una via di mezzo: stare al mondo abbastanza per fortificarsi ma avere un riparo sufficiente per tenere alla larga l’indifferenza e l’infelicità. Certo si potrebbe anche dire che la moderazione ha qualcosa di deprimente e perfino di degradante – com’è eloquente il fatto che medio è sinonimo di mediocre! Arrivammo sul lungo tratto di strada da Fort St. John a Fort Nelson, dove abbondavano le zanzare, e incontrammo l’indiana che ballava. Era quasi l’imbrunire, saranno state le nove o le dieci. I campi erano pieni di arcobaleni, nebbiolina e fiori gialli. Ogni ora dovevamo fermarci a pulire il parabrezza su cui le zanzare si spiaccicavano a frotte, giocando a unisci-i-puntini con i contorni di tutte le cose. […]

Il conducente non voleva fermarsi ancora, ma notai che sforzava gli occhi per vedere attraverso gli insetti morti, e stavo per dire che stavolta potevo benissimo pulire il parabrezza da solo (dopotutto stavo viaggiando gratis), quando più avanti, sulla strada vuota (non incrociavamo altri veicoli da due ore), la vedemmo sgambettare come se fosse felicissima e, avvicinandoci, vedemmo che saltava e si contorceva con disperazione affannosa, come un essere mezzo schiacciato che non riesce a morire. Non molto tempo fa ho versato soprappensiero qualche goccia di solvente nella terra secca ed è spuntato un lombrico, che si è teso verso di me con aria accusatoria, si è irrigidito ed è morto. Ma le convulsioni di quella donna non finivano più. La sua danza di presunta felicità mi era parsa del tutto autosufficiente come la masturbazione, ma poi mi sembrò la danza della tortura di una pazza irrecuperabile, che la isolava dagli altri esseri umani, quasi fosse un’alcolizzata che borbotta versando lacrime incomprensibili. Solo quando stavamo per superarla capii, da dietro i nostri finestrini ermetici, che urlava per chiedere aiuto. Non so dirvi quanto fossero terrificanti le sue urla in quel posto selvaggio. Il conducente esitò. Era un’anima buona, ma aveva già caricato un autostoppista. Doveva salvare il mondo? Tra l’altro, poteva essere matta o pericolosa. Gli strilli non si sentivano quasi più e stava diventando un puntino nello specchietto retrovisore quando lui rallentò per pensarci e solo allora capimmo cosa avevamo visto, perché i cervelli protetti lavorano a rilento: le zanzare le scurivano il viso come un grappolo di more, e le gambe sotto i pantaloncini rossi erano nere e insanguinate. Il conducente si fermò. Le zanzare cominciarono a scagliarsi sui finestrini. Ci toccò aiutarla ad entrare. Ci abbracciò con tutta la forza che le rimaneva, piangendo come una bambina. Quando lo toccai, il suo viso orribilmente tumefatto scottava. Era piena di punture intorno agli occhi e non ci vedeva quasi più. I lunghi capelli neri erano impiastrati di sangue e zanzare morte. Le guance gonfie come palline da tennis. Si era azzannata il labbro e il sangue le colava sul mento, dove ancora bacchettava una zanzara. La schiacciai.

Quel pomeriggio era stata senz’altro più bella, con gli zigomi pronunciati che riflettevano la luce, il viso ovale, scuro e levigato, le labbra scure ancora scintillanti, gli occhi neri e sani, che illuminavano ancora un po’ il mondo con il loro brillio mercuriale, i lucenti capelli neri ondulati di lato sulla fronte. Ecco perché l’uomo di Fort Nelson aveva deciso di patrocinare la sua attività. Una bella preda che arriva dritta dalle riserve, pensò. Lei montò sul suo camion, e ci trovò anche degli altri uomini; tutti usufruirono in abbondanza dei suoi servizi. Ma a differenza delle zanzare lente, che pagano il conto, se non altro con la vita, gli uomini assaggiarono la sua carne impunemente. Non furono del tutto ignobili. Non la picchiarono. La lasciarono solo in balia delle zanzare. Le permisero di rivestirsi prima di buttarla fuori…

Aveva provato a scavare una buca nel terreno ghiaioso, una tomba in cui nascondersi, ma dopo neanche due centimetri cominciarono a sanguinarle le dita, le zanzare le si infilarono nelle orecchie e non riuscì più a pensare, e si mise a correre per la strada vuota; corse finché non dovette fermarsi, allora le zanzare le scesero sulle palpebre come una neve scura. Erano passate due auto ma avevano tirato dritto. Avrebbe voluto uccidersi ma le zanzare non la lasciavano abbastanza in pace per farlo. Non scorderò mai il modo in cui mi strinse fra le sue braccia disperate – non dimenticherò mai il suo balletto. […]”

William T. Vollmann

Di Vollmann si è già detto ogni bene e infatti, per quel che vale, nel suo curriculum non mancano “prestigiosi riconoscimenti letterari”. Per parte mia ci aggiungerei pure un Nobel perché non è da tutti tessere una trama che verte sulle zanzare e farlo magnificamente. I fatti e i luoghi riportati non sono frutto della fantasia di Vollmann, ma del suo vissuto: in quanti avrebbero saputo farne una piccola opera d’arte?