Luis Silvio Danuello: a suo modo, anche lui mito degli anni ’80.

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Come sapete, il nostro blog ama ogni tanto tornare nel passato.

Oggi torniamo indietro di più di quarant’anni, esattamente al 1980, anno in cui le società calcistiche poterono tornare ad acquistare calciatori non italiani, raccontando la storia di quello che è diventato suo malgrado un simbolo dei “bidoni” (ovvero calciatori stranieri che si dimostrarono non all’altezza del nostro campionato) giunti in Italia dall’estero,  sia per gli aspetti legati sia alla trattativa che lo portò in Italia, sia per il rendimento di certo non memorabile.

Nel 1980 la Federcalcio, dopo più di un decennio, aprì di nuovo le frontiere, permettendo così alle società di calcio di tesserare nuovamente un calciatore straniero tra le proprie fila. Finiva così quello che fu un periodo di vera e propria autarchia calcistica, avuto inizio nel periodo post-Mondiali 1966, che videro la Nazionale soccombere davanti alla Corea e al carneade Pak-Doo-Ik, autore del goal che sancì una delle sconfitte più brutte della storia della Nazionale.

Immediatamente ci fu la rincorsa a cercare di avere un calciatore straniero in squadra, per rinforzarla ma anche per appagare le fantasie dei tifosi.

Il 10 agosto del 1980 in questo senso fu un giorno memorabile. Proprio in quella data a Fiumicino atterrava un aereo con a bordo Paulo Roberto Falcao, il talento brasiliano che avrebbe scritto la storia della Roma (ma diremmo del calcio) con la sua eleganza, la sua classe e la sua visione di gioco.

Sullo stesso aereo però c’era un altro passeggero, anche lui calciatore, anche lui brasiliano, ma indubbiamente meno talentuoso. Sarebbe entrato, a modo suo, anche lui nella storia del calcio, ma non per la sua eleganza, la sua classe e la sua visione di gioco. Il suo nome era Luis Silvio Danuello e quando si pensa ai “bidoni”,  lui rappresenta, per tutti noi che abbiamo vissuto il calcio degli anni ’80 il non plus ultra.

Come abbiamo scritto, la possibilità di tesserare uno straniero in squadra, scatenò le fantasie di molti tifosi e le ambizioni di molti dirigenti, che si diedero da fare per portare in squadra un calciatore non italiano che fosse in grado di rinforzare i propri club.

In quell’estate, oltre al “Divino” (come fu soprannominato dai romanisti) Falcao, arrivarono anche Brady alla Juventus, Krol al Napoli, Prohaska all’Inter (calciatori indiscutibilmente di talento), giunti ad aumentare il tasso tecnico dei club che li avevano tesserati.

Anche i club più piccoli, al fine di portare lo straniero nel campionato italiano, non stettero a guardare. Tra questi vi fu la Pistoiese, neopromossa in Serie A (per la prima e unica volta della sua storia), che mandò il proprio allenatore in seconda Beppe Malavasi in Brasile, per cercare di scovare un talento in grado di rinforzare la squadra, proprio come qualche anno dopo, ne “L’Allenatore nel pallone”, avrebbero fatto Oronzo Canà e Andrea Bergonzoni (interpretati da Lino  Banfi e Andrea Roncato) quando si recano in Brasile per acquistare Aristoteles.

Quella della Pistoiese e di Luis Silvio però è una storia vera, non un film.

Malavasi in Brasile assistette ad una partita del Ponte Preta e rimase incantato da un attaccante di nome Luis Silvio Danuello, che in quel match mostrò doti tecniche che convinsero l’allenatore a portarlo in Italia. Si disse che furono pagati centosettanta milioni dal club toscano per quello che a tutti gli effetti pareva un talento.

Peccato che in Italia Danuello giocò appena sei partite e non confermò ciò che fece vedere in quella partita con la maglia del Ponte Preta. C’è chi disse che in realtà quella partita fu organizzata ad “hoc” e che fu tutta una messa in scena al fine di rifilare il “pacco” alla Pistoiese, ma ciò non ha mai trovato conferme e soprattutto fu sempre smentito con forza da Danuello in persona.

E’ stato confermato dall’interessato invece, riguardo al suo ruolo in campo, che dichiarò ai dirigenti pistoiesi: “Jo soy ponta”. Questi ultimi pensarono che andasse impiegato da punta, ignari che ponta in portoghese significa ala destra.

Fu forse a causa di questo malinteso linguistico che Luis Silvio non brillò sui campi di calcio nostrani, ma entrò (anche per questo bizzarro equivoco) a suo modo nella storia.

Tornato in Brasile, su di lui si scatenarono leggende incontrollabili: chi diceva che avesse aperto un ristorante, chi diceva che gestisse un chiosco nello stadio di Pistoia, chi addirittura diceva che avesse intrapreso una carriera di attore di film porno.

Anni fa si scoprì che se n’era tornato in Brasile, dove giocò ancora un paio d’anni, per poi appendere le scarpe al chiodo e dedicarsi all’attività di rivendita di ricambi per macchine industriali.

La rincorsa allo straniero da parte delle società di calcio non si fermò lì, non si fermo lì neppure l’arrivo di autentici bidoni (se è per questo ne continuano arrivare  a tutt’oggi), ma la vicenda di Luis Silvio è e rimane una pietra miliare per quanto concerne i bidoni del calcio italiano.

 

Quando c’era lui…

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Quando iniziammo a seguire il calcio, all’inizio degli anni ottanta, le partite di cartello andavano quasi tutte in onda sulla RAI. Vi erano vari telecronisti all’epoca, ma il principale, il “Re”, era senza dubbio Nando Martellini. Mediaset (allora Fininvest) non potendo trasmettere in diretta, trasmetteva pochi incontri di calcio e a commentare essi vi era Giuseppe Albertini, storico telecronista della TV Svizzera, competente, che aveva la peculiarità di pronunciare correttamente tutti i nomi dei calciatori stranieri. Erano due “signori della telecronaca”, la facevano bene, senza bisogno di inviati a bordo campo (ad Albertini fu successivamente affiancato, quando smise la carriera di calciatore, Roberto Bettega, la cui competenza era fuori discussione), senza urlare ad ogni azione, senza usare aggettivi roboanti in continuazione.

Oggi non ci si capisce più niente. Abbiamo il telecronista, l’ex calciatore che commenta, l’inviato su una panchina, l’inviato sull’altra panchina, lo studio che commenta prima della partita, nell’intervallo e alla fine. Tutta questa gente a Martellini non serviva e non serviva neppure a noi che la partita ce la gustavamo benissimo comunque.

Per questo i telecronisti di oggi, con le loro urla, le loro improbabili considerazioni, i loro ancor più improbabili schemi (Sky fa vedere durante le partite al replay le azioni per spiegare la tattica, peccato che però facendo così, più di una volta ha fatto perdere ciò che realmente interessa allo spettatore: la diretta), non sono degni di legare le scarpe a Martellini, Albertini o Pizzul.

I quali, durante il minuto di silenzio, avrebbero fatto il minuto di silenzio, ovvero se ne sarebbero stati zitti, invece di fare quasi un rap come l’altra sera quello zulù di De Capitani.

Inoltre ai tempi di Martellini la RAI non mandava la pubblicità durante l’atteso ingresso di Eriksen in campo (è un mese che non si parla altro che della trattativa per portarlo all’Inter e quando sta per entrare in campo mandi la pubblicità).

Noi, lo abbiamo già segnalato in altri post, se abbiamo un po’ nostalgia del calcio di una volta è per questi motivi.

Anche allora il calcio non era tutto bello (anzi), ma vi era più umanità, più civiltà, più educazione, a cominciare dai toni usati da chi ce lo raccontava.