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L'occhio del coniglio 16. Amilcare era così leggero.

Post n°705 pubblicato il 03 Marzo 2013 da LaDonnaCamel
 

Siamo a metà, da adesso in poi è tutta discesa! (Stasera metto su anche l'EDS, lo sto scrivendo, credici)
 
 
 
Amilcare era così leggero che non aveva impresso nemmeno una vaga orma sul letto. Anita lo voleva rifare, lui le disse di lasciar stare che ci avrebbe pensato Rina al suo ritorno. Anita aveva cinque anni e sapeva lavare i piatti. Spianò il lenzuolo, che comunque era già perfettamente spianato,  sistemò le coperte. Il materasso era altissimo, le arrivava all’altezza della gola e per questo aveva preso il poggiapiedi – quello che usava facendo finta che fosse una sedia,  con la panca della cucina come tavolo. Non spolverò la testiera di legno scuro e i comodini con le colonne scolpite, non ci arrivava nemmeno con lo sgabello. Amilcare non disse più niente e la lasciò fare. Non l'aveva mai sgridata. Aveva i capelli ancora quasi neri tenuti insieme dalla brillantina.
Rina invece brontolava. Era partita presto la mattina. Era andata a Milano a prendere la pensione. La sera prima aveva ripetuto mille raccomandazioni, aveva preparato tutto e li aveva affidati l'uno all'altra.
Amilcare a Milano aveva una scrivania in camera da letto e quando era in casa e stava lì a scrivere nessuno lo poteva disturbare, Rina chiudeva la porta e faceva sst. Lui stava tutto il tempo a tracciare quei suoi numeri ordinati che sembravano stampati tanto erano scritti bene. Anita ne aveva trovati in archivio ancora molti anni dopo, quando lavorava nell'azienda di suo padre. Amilcare teneva la contabilità in partita doppia anche se la ditta era così piccola che per papà sarebbe bastato aprire il cassetto per sapere come andava, ma era una scusa per dargli uno stipendio.
E poi era sempre malato. Era Rina che raccontava, con la voce di tuono e il pugno alzato a maledire, le sue operazioni sbagliate, i chirurghi disgraziati che l'avevano rovinato, Crist-è-ggiusto quanto è vero Iddio, diceva con devozione, non le pareva nemmeno una bestemmia. Anita lo sapeva bene, stava quasi sempre dai nonni, non andava più all’asilo da quando Rina era andata a prenderla col taxi e l’aveva portata a casa sua invece che dalla mamma. Mentre erano in macchina le aveva annusato i capelli e aveva stabilito che puzzava di caprone, la colpa era delle suore. A lei piaceva l’asilo perché c’erano i bambini e soprattutto perché c’erano le seggioline e i tavolini della sua misura, quando si sedeva poteva toccare il pavimento con i piedi. A casa dei nonni invece non c’erano bambini e doveva stare sempre sola.
Dopo aver rifatto il letto Anita si era seduta in cucina e aveva aspettato che  Amilcare bevesse il suo caffé riscaldato nel bricco della napoletana. Poi lui avrebbe letto il giornale di ieri e alla fine forse si sarebbe messo il cappello e l'avrebbe portata a fare una passeggiata fino alle panchine della chiesa. Anita aspettava ferma e buona perché era grande.
La cucina era piena di mosche, Anita le seguiva con lo sguardo e quando si posavano vicino, appena cominciavano a sfregarsi le zampe le mandava via soffiandoci sopra. Rina quando ne aveva voglia le schiacciava con una paletta bucata fatta apposta e le contava: trentasette, venticinque, una volta quarantadue più tre ragni. Non avevano la carta moschicida qui, come invece c'era nella cucina della contadina che gli affittava quelle due stanze in campagna per la villeggiatura, in uno dei tanti paesi dove i nonni erano stati sfollati in guerra. Non c'era nemmeno il gabinetto, per fare la pipì bisognava andare in un casotto puzzolente nel cortile oppure nel pitale di ferro smaltato, bianco con il bordino nero.
A mezzogiorno mangiarono le cose che Rina aveva lasciato pronte, la tavola era già apparecchiata, c’era solo da cuocere la carne e condire la verdura. Il nonno si era messo un grembiule a fiori per non sporcarsi con gli schizzi, lei aspettava in silenzio e lo guardava darsi da fare davanti al fornello. Prima di cominciare a mangiare le tagliò la carne e le spezzettò il pane in piccoli bocconi che le mise in fila vicino al bicchiere. Poi si tolse il grembiule, si versò il vino e si sedette con un sospiro.
Rimasero in silenzio per un po’, si sentiva il rumore dei grilli che veniva da fuori e una musica lontana, forse la radio della trattoria in piazza, portata dal vento.
Anita gli chiese perché mangiava prima l'insalata e dopo la bistecca invece che insieme come fanno tutti.
"Perché se no poi non ho più fame, ma la bistecca la devo mangiare per forza," disse lui. Anita pensò che visto che non c'era la nonna, per una volta poteva fare come voleva e nessuno l’avrebbe saputo. Invece lui ubbidiva sempre, anche se era da solo.
Per farle il bagno riempivano una tinozza di metallo grigio scuro con l'acqua che avevano scaldato nel pentolone sulla stufa. La tinozza era sul tavolo della cucina della contadina, con le carte moschicide che pendevano dal soffitto. Rina prese in braccio Anita e la mise lì vicino con le gambe giù. La spogliò a partire dalle scarpe col cinturino, poi le calze bianche, le tirò su il vestito che le aveva cucito lei stessa, di cotone rosa pesca con le maniche a sbuffo e i ricami in fondo, lo tirò via facendolo passare dalla testa e poi la canottiera bianca. A casa sua si spogliava da sola ma qui bisognava fare come voleva la nonna. La mise in piedi sul tavolo e mentre le stava tirando giù le mutande entrò di corsa il nipote della contadina. Aveva la testa rapata e gli mancavano due denti davanti - uno era venuto via il giorno prima, quando sua nonna gli aveva strappato di bocca uno strofinaccio che stava succhiando. Il bambino la vide  sul tavolo e si mise a ridere con la mano davanti alla bocca. Anita lo chiamava forte e faceva dei gesti con le mani "Gino! Gino! sto facendo il bagno!" Ma la contadina gli dava scapaccioni sulla testa, "va via!” gli urlava.
Lui alzò le braccia per proteggersi e piangeva, diceva che la guardava minga la tusa, ma sua nonna lo picchiava e lo spingeva fuori e poi chiuse la porta con la chiave, che il Gino se si metteva in testa una cosa si faceva ammazzare piuttosto che ubbidire. Anita la contadina non la capiva quando parlava, aveva pochi denti in bocca e la bauscia le veniva giù di lato, le faceva anche un po’ paura perché urlava forte che sembrava sempre arrabbiata. Comunque non c'era pericolo che le parlasse, discorreva solo con Rina e tutt’al più con sua mamma, le rare volte che veniva qui.
Anita faceva fatica a capire anche quello che diceva Gino, lo guardava con gli occhi spalancati e allora lui le prendeva la mano e la portava nel campo delle patate, le indicava le coccinelle sulle foglie, tra le zolle secche sotto il sole a picco e bisbigliava chissà cosa, faceva sì no con la testa seguendo dei ragionamenti che sapeva solo lui.
Qualche volta la portava nella conigliera, chiudeva la porta e le metteva in braccio un cucciolo tremante. Nella penombra si sentiva odore di erba umida e di caldo, gli animali grattavano il fondo, si muovevano di scatto nelle gabbie, si allontanavano dalla grata. I rumori di fuori sembravano lontani, c’era una striscia di luce che partiva dal finestrino rotto, si apriva in un cono di bruscolini saltellanti e andava a finire sopra un sacco di mangime.
Gino si sdraiava sul pavimento sudicio, si rotolava in quello spazio stretto e appena poteva le guardava le mutande sotto la vestina bianca inamidata. Lei si stringeva il coniglio contro la pancia e non aveva il coraggio di muoversi nemmeno per accarezzarlo, aveva paura che scappasse via, restava ferma senza respirare fino a che lui si stancava, le strappava di mano la bestiola e la ricacciava dentro.
Una notte si sognò di avere un coniglietto nero tutto suo sotto le coperte. Lo appoggiava sulla pancia e lo accarezzava, sentiva la morbidezza del pelo e il calore contro la pelle, i baffi le facevano il solletico e anche se toglieva le mani lui restava lì, non scappava via perché erano amici. Era un coniglio che sapeva parlare anche se non si capiva quello che diceva, muoveva le narici e sorrideva, mostrando i suoi dentini che brillavano nel buio. Anita volle toccarli ma lui le morsicò il dito.
Si svegliò piangendo e la nonna che era venuta a vedere disse che aveva fatto la pipì a letto. Ma non era stata lei, era stato il coniglio, l’aveva sentito come una cosa calda che scendeva ma la nonna non ci aveva creduto.
La mattina dopo Gino la prese per mano senza dire niente e la portò sul retro. C’era un uomo con un coniglio grigio da una parte e un bastone dall’altra, era il lavorante. Li guardò mentre si avvicinavano e come se li stesse aspettando, quando si fermarono davanti a lui colpì il coniglio dietro alla testa. La bestia smise di dimenarsi, si distese come se fosse diventata più lunga tutto a un tratto.  L’uomo lo appese a un chiodo sul palo di legno della tettoia, lo fissò per i piedi che erano legati insieme. Anita fece un passo indietro, voleva andare via ma c’era Gino che le stava addosso. La prese per le spalle e se la schiacciò contro, “spèta” le soffiò nell’orecchio. L’uomo lavorava veloce con un coltello, praticava piccole incisioni sulle zampe, all’improvviso con due mani strappò giù la pelliccia. La carcassa era lucida e rosa, mandava un odore schifoso. Gino le stringeva le braccia, il suo fiato era caldo e le faceva venire i brividi nei capelli.
“Lo sai cos’è questo?” disse il lavorante porgendo sulla punta della lama un grumo scuro e molle, “è il fegato. E questo? Il cuore.” Man mano che toglieva i pezzi li nominava, mostrandoli ai bambini,  poi li metteva in un piatto o li buttava per terra, a seconda.
“E questo cos’è?” disse ancora, guardando fisso Gino.
 “È l’occhio del coniglio!” gridò lui. Anita gli diede un pestone col calcagno e scappò via, le risate dei due la rincorsero per il cortile, coprendo il crepitare dei suoi piedi nella ghiaia.
(continua)

conigli

Questo è L'occhio del coniglio, un romanzetto che ho scritto io e che mi piace offrire ai miei blogamici e agli sfaccendati che passano di qui.

Già che faccio l'editore di me stessa, ho prodotto anche una versione digitale, mobi, epub e pdf. Se ti stanchi di leggere a schermo e la vuoi mettere nel tuo lettore eBook oppure se hai occasione di stampare a ufo e vuoi il pdf, scrivi a ladonnacamel@gmail.com e te la mando. Gratis e senza DRM!
(Però poi non venire qui a spoilerare il finale eh, t'ammazzo! Che, se non si era capito, le puntate qui continuerò a metterle, al ritmo di due a settimana, più o meno.)

 

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Commenti al Post:
amicoMM
amicoMM il 03/03/13 alle 19:41 via WEB
Posso farti un applausone per come descrivi i pensieri e le emozioni dei bambini?
Bravissima, LDC!
 
 
LaDonnaCamel
LaDonnaCamel il 03/03/13 alle 19:51 via WEB
E io mi inchino :-)
 
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