Creato da LaDonnaCamel il 16/09/2006
Il diario intimo della Donna Camèl con l'accento sulla èl
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"Mille e ancora mille."
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C’è stato un periodo della mia vita, collocato su per giù nei dintorni dell’adolescenza, in cui sparavo delle balle colossali, inutili o comunque fini a se stesse ma piene di fantasia. Mi fingevo altro da me con persone incontrate sui treni, inventavo un fidanzato immaginario che cercavo di rifilare alle mie amiche facendole affacciare alla finestra per guardarlo giù in strada, ah no, ha appena girato l’angolo ma un momento fa c’era, mi ha accompagnato fino a qui, non ci credete? Portavo avanti lunghe e ricorrenti conversazioni telefoniche con tizi che non mi conoscevano dicendo che li avevo visti in qualche posto e raccontando fatti e circostanze plausibili ma completamente falsi.
Un’attitudine a raccontare storie che devo aver preso da mia mamma, che me ne raccontava tante quando ero piccola: un conto è leggere una fiaba da un libro, sempre quella con le stesse parole, altra cosa raccontare a braccio, inventando qualche variante ogni volta, aggiungendo personaggi secondari, svolte non previste del canovaccio. Del resto mia mamma più che raccontare, recitava, facendo le vocine e spingendo sulla drammaticità dell’intreccio fino a farmi piangere.
La differenza importante è che in quei casi, pur con la sospensione dell’incredulità che era facilitata dalla fiducia della bimba verso la mamma, il contesto narrativo era esplicito e dichiarato, mentre più tardi io sperimentavo il metodo stanislavskij senza averne mai nemmeno sentito parlare: mi immedesimavo nei personaggi a tal punto da interpretarli nella realtà.
Oggi mi è tornato in mente un fatto legato a un biondino che frequentavo da ragazzina, un giovanotto alto e muscoloso, fisico apprezzabile ma viso un po' comune, occhietti azzurri chiari dallo sguardo vago, labbra sottili, mascella squadrata, tipo il soldato tedesco nei film di una volta, non quello importante ma quello di seconda fila, che va sempre a finire che muore.
Il biondino, chiamiamolo così che non voglio dire il nome, dichiarava di odiare gli ebrei, un fatto che mi è sempre sembrato assurdo eppure succede, oggi ho letto che nel 2016 sui social sono stati scritti 382 mila post antisemiti, uno ogni 83 secondi: è per questo che mi è tornato in mente il biondino e continuo a non capirne il senso.
In ogni modo il biondino mi faceva una corte assidua purtroppo per lui non corrisposta, mi accompagnava sempre a casa da scuola, facevamo interminabili discussioni di politica ignorante, con tutte quelle frasi fatte dei quindici anni.
Non puoi capire la sua faccia quella volta che, abbassando gli occhi e giocherellando con l’anellino che portavo nel dito medio, gli ho confessato di essere ebrea. Eravamo davanti a casa mia e si è bloccato lì, una mano sul cancello semi aperto - stavo per entrare e si è messo in mezzo. Di colpo è diventato tutto pallido, ha alzato le sopracciglia e gli son venuti gli occhi rossi, poi anche il collo, sotto e dietro le orecchie gli è venuto tutto rosso, con la carnagione chiara che aveva e i capelli così corti la sua faccia era una brochure a colori dei suoi sentimenti. Ha smesso anche di respirare per un minutino, poi ha scosso la testa, no dai no, dimmi che non è vero.
Io ci ho preso gusto, certo che è vero, vedi il mio cognome? è tipicamente ebreo. Ero seria, non sorridevo nemmeno mentre lo dicevo, e il mio naso? tutta la mia famiglia lo è, mio nonno è stato prigioniero in un campo di concentramento…
Si è piegato in avanti come se gli avessi piazzato a tradimento un cazzotto nello stomaco, basta, ha detto con la voce roca. Mi ha aperto del tutto il cancello e si è spostato per farmi passare.
Ho fatto i gradini a due a due e prima di entrare nel portone mi sono voltata. Era ancora lì nella stessa posizione. Gli ho fatto ciao con la mano ma non ha risposto.
Non era di quelli che frequentavano la parrocchia come me, se no l’avrebbe saputo.
Ecco, il pezzo è finito, volevo solo dire che ne ho raccontate ancora per un po’ e poi ho smesso, ma quando scrivo certe volte mi immedesimo così tanto nelle storie che è come se fossero vere bugie e quando passo per strada vicino ai posti dove le ho ambientate, il sagrato della chiesa dove Eleonora raccoglieva il riso, l’edicola dove prendeva il giornale il tranviere che aveva vinto al totocalcio e aveva buttato via la schedina, la casa fantasma dove ero entrata di notte a cercare il mio gatto e poi ero morta, mi tornano in mente quei fatti come se fossero ricordi di cose successe veramente.
Chi scrive lo sa.
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