Mi nutrivo delle emozioni che la mia musica evocava.
Il mio sangue, erano quelle note.
I miei respiri, scanditi dalle pause tra una battuta e l’altra.
Ero io. Ero fragile.
Ero condannata.
Ma non era più tempo di paura
Alcuni l’avrebbero chiamata “follia”, ribattezzando con quel meschino nome,
i miei sentimenti, i miei coscienti vaneggiamenti.
E sebbene non facessi alcunché per impedire loro di credere ciò che volevano,
dentro quel cuore che ancora indugiava in lenti battiti,
sentivo una pena, un
rammarico.
Sentivo un rimorso.
Mi prendeva la gola,
me la chiudeva in un nodo
che poteva sciogliersi solo in lacrime.
Avrei voluto essere più banale, di quanto in effetti non fossi.
Avrei voluto essere come le persone che osservavo.
Come le protagoniste di certi
libri che avevo letto,
negli interminabili pomeriggi
che passavo in compagnia di un fuoco spento,
mentre il gelo mi entrava nelle ossa rendendole rigide,
quasi di ghiaccio…ed a
volte, temevo che solo alzandomi in piedi,
le avrei mandate in frantumi, insieme
alla mia scarsa capacità di movimento.
Avrei voluto chiamare le cose con nomi comuni,
senza mai lettere maiuscole
all’inizio. Avrei voluto accontentarmi
di conoscere anche le ridicolaggini,
in grado di riempire tante vite…non la mia.
Ero io. Ero bianca.
Ero in attesa, di ricominciare a vivere…già..
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