Inginocchiarsi per un delinquente: la resa della civiltà

Ave Socii

Spesso i gesti simbolici valgono più di mille parole. In questi giorni, tutto il mondo è attraversato da proteste e manifestazioni contro il razzismo. E, soprattutto, il mondo sembra unirsi in un unico gesto: quello di inginocchiarsi nel ricordo di un uomo inerme, ucciso per mano di un poliziotto. Che l’evento sia accaduto negli Stati Uniti, patria dei diritti e delle libertà, fa certamente riflettere. Che quell’uomo sia un nero rende ancora più simbolico il gesto di inginocchiarsi (non certo per la stupidità dei “razzisti”, semmai per la propaganda degli “antirazzisti”). Ma che quell’uomo abbia molteplici precedenti penali, se permettete, fa riflettere ancor di più.

Un tempo ci si inginocchiava dinanzi a Dio, a un sovrano, a un signore… Ben poche erano le categorie di soggetti dinanzi ai quali era chiesto di inginocchiarsi. E, soprattutto, erano categorie di soggetti rappresentanti un qualche potere, terreno o ultraterreno che fosse. Poteri espressione di un ordine sociale verso cui i popoli erano chiamati a rispodere, dunque a tendere. Beh, oggi ci rendiamo conto (ma forse non è una novità) che valori sociali e poteri tradizionali sono stati sovvertiti. Se un tempo ci si inginocchiava dinanzi alla legge e all’ordine, oggi ci si inginocchia dinanzi all’eversione.

Che il Presidente Trump abbia arginato, nonostante COVID-19, la crescita della disoccupazione negli Stati Uniti passa in secondo piano, dinanzi a maree umane inginocchiate nel ricordo di un pluripregiudicato afroamericano. E poco importa se, durante queste manifestazioni, si verificano assembramenti, scontri e tafferugli: sono manifestazioni “per i diritti”, quindi provengono dai “buoni” della società. Poco importa se il mondo è dilaniato dal coronavirus e dalla crisi economica: l’importante è inginocchiarsi per un delinquente. Poco importa se in Italia la crisi morde più che in altri Paesi: l’importante è inginocchiarsi per un delinquente.

Soprattutto nelle società progredite, è diffusa l’idea che ogni persona abbia diritto a sempre nuove possibilità. Stranamente, l’idea che arrivati a un certo punto dare nuove possibilità sia inutile sembra stridere col concetto di “libertà” che tanto ci piace sbandierare. E allora, nell’immaginazione, diventa tutto possibile. Come in un romanzo moralista, il nemico deve diventare per forza amico. Non esistono più differenze e culture diverse, tutti si amano senza alcun pregiudizio. Buono e cattivo si confondono, con buona pace della giustizia, delle fondamenta del diritto e della stessa civiltà.

Mai come oggi il buonismo è l’oppio dei popoli. Ma dopo lo sballo, bisogna fare i conti con la realtà. Se gli immigrati commettono, in proporzione, più reati dei cittadini autoctoni, forse un problema di culture e di radici esiste. Forse chi è forzosamente trapiantato in altre culture ha maggiori probabilità di “reagire male”, dinanzi alla cultura che dovrebbe accoglierlo. Pur di non farci un bel bagno di realtà e ammettere che la totale integrazione è solo un bel sogno, preferiamo farci di buonismo e sognare un mondo senza differenze e divisioni. Oggi l’oppio che offusca il mondo si chiama “mettersi in ginocchio”. Attendiamo solo che il suo effetto finisca…

Vostro affezionatissimo PennaNera

Prescrizione abolita e processi infiniti. Lo strapotere giudiziario continua

Ave Socii

Dal 1° gennaio è entrata in vigore la riforma che prevede l’abolizione della prescrizione. Un capolavoro del giustizialismo targato “Cinque Stelle” e che oggi solo i pentastellati rivendicano come una battaglia di civiltà di cui vantarsi. Chiaramente nessuno si fa convincere, forse solo il Pd. Che ovviamente è subito pronto a prendersela col “governo precedente”. Se la prescrizione è stata abolita, la colpa è anche stavolta della Lega, origine di ogni male… Ricordiamo che l’abolizione della prescrizione fu il frutto di uno dei tanti accordi fra Lega e Cinque Stelle… Abolizione della prescrizione, cavallo di battaglia dei pentastellati, in cambio di una radicale riforma della giustizia, voluta dai leghisti. All’epoca fu la Lega a cedere allo scandaloso giustizialismo del Cinque Stelle, al loro risentimento sociale. Ora, però, è il Pd e buona parte della sinistra a piegarsi dinanzi a questi odiatori di professione, senza peraltro opporre la benché minima resistenza.

In mancanza di una sostanziale riforma dei tempi dei processi, cancellare la prescrizione significa solo tenere i cittadini ostaggio della giustizia. Con il “fine processo mai”, prevediamo un aumento considerevole della domanda di avvocati. Quelli già operanti, infatti, saranno costretti ad occuparsi dei medesimi casi per buona parte della loro carriera. Al crescere dei casi da trattare, sarà necessario ricorrere ad un numero sempre maggiore di uomini del diritto. Un toccasana per gli avvocati in cerca di lavoro. Ma all’assorbimento dell’offerta in eccesso di avvocati, si contrappone il principio (assolutamente antigiuridico) della presunzione di colpevolezza già a partire dal primo grado di giudizio. Cittadini trattati come potenziali colpevoli… Ancora più tempo perso fra gli uffici giudiziari… E i detentori del potere giudiziario ringraziano. Chissà, forse un giorno ricambieranno il favore a certa parte politica… Magari eliminando giudiziariamente qualche avversario oggi politicamente ineliminabile…

Forse c’è ancora speranza che il Parlamento ribalti il prima possibile l’aberrante verdetto sull’abolizione della prescrizione. Staremo a vedere… Intanto ci auguriamo che dei cittadini finora innocenti non cadano nelle maglie della giustizia proprio in questo periodo caldo. E che alcune forze politiche la smettano di riversare le proprie malsane ambizioni e frustrazioni su un’Italia che già non ne può più della situazione in cui versa attualmente. Se il potere giudiziario è così potente, forse è anche un po’ colpa della debolezza e dell’incompetenza di certa politica.

Vostro affezionatissimo PennaNera

Strade sempre più insicure, soprattutto per i pedoni

Ave Socii

Da tempo immemore, purtroppo, la cronaca mostra che, sulle nostre strade, c’è chi si mette al volante ubriaco o drogato. E c’è ancora chi, tra le forze politiche, è addirittura favorevole ad aumentare il numero di sostanze legalizzate. Come se non bastasse l’alcol, vogliono aggiungere la cannabis e magari pure qualcos’altro. E poi si arrabbiano, quando qualcuno si fa vedere un tantino più “proibizionista”… Allora perché non fermiamo anche la vendita di alcolici? Questo si domandano, dandoci degli ipocriti. Sanno benissimo, furbetti, che la vendita di alcolici non si può limitare facilmente. E pensano bene di proteggersi dietro a questo scudo. Ci si sballa con l’alcol, tanto vale sballarsi pure con altro. Perché l’alcol sì e la cannabis no?

Questo giochino del “mettere sotto scacco i proibizionisti”, tuttavia, dà per scontata una cosa che in realtà scontata non è affatto. Ossia, che alcol e droghe abbiano la stessa natura e servano, fondamentalmente, per sballarsi. Questa pericolosa identità è oggi sponsorizzata in primo luogo dai trapper e dai loro testi musicali, tanto amati da giovani e giovanissimi. E’ un’identità pericolosa e fuorviante. Bere alcol non significa necessariamente sballarsi; farsi una canna, invece, conduce sempre ad un’esperienza di sballo. Perché gli alcolici sono degli alimenti, i cannabinoidi dei medicinali. Chi pensasse di trattare l’alcol come una droga tout court, in pratica, giungerebbe a considerare “spacciatori” perfino quei viticoltori che mantengono alto il nome del “Made in Italy” nel mondo. D’altro canto, la cannabis è una sostanza psicotropa che ha certamente effetti benefici su determinate patologie. E, in quanto tale, dovrebbe essere trattata come un farmaco, non come un passatempo ricreativo.

Ritornando a chi viaggia sulle nostre strade, potremmo chiederci perché certa gente si mette a guidare in stato di ebbrezza o sotto l’effetto di stupefacenti. Probabilmente è gente che soffre, gente depressa che ha bisogno di sballarsi. Gente totalmente incentrata sui propri problemi, perciò incurante di tutto il resto. Una sostanza non provoca sballo finché non è legata ad una particolare esperienza. Bere tre dita di vino a pranzo, accompagnando i pasti, è forse un’esperienza di sballo? Persino la somministrazione controllata di cannabinoidi in ambito sanitario, per curare il morbo di Parkinson ad esempio, non porta ad uno sballo propriamente detto. D’altro canto, chi prima si fa una canna oppure svariati bicchieri di alcolici e poi scorrazza per le strade… Beh, forse ha bisogno di curarsi.

Chi ha avuto particolari esperienze di vita, soprattutto all’interno di famiglie problematiche, tende a cercare al di fuori del nido familiare la propria ragion d’essere. E spesso la trova nel divertimento estremo, nello sballo appunto. Mettere a rischio la vita altrui è forse una componente essenziale di quest’esperienza. Come dire: io ho sofferto tanto e ce l’ho con la società, perciò la società deve capire cosa vuol dire soffrire. A volte il fatto stesso di aver sofferto giustifica, agli occhi di costoro, la sofferenza che può capitare ad altri membri della società. L’invidia nei confronti del mondo li rende pericolosi: si lamentano che la loro vita è un inferno, quando certe volte sono loro stessi a rendere infernale la vita degli altri. E’ forse “libertà di divertirsi” questa? Nessuno può permettersi di affermare la propria libertà, arrivando a negare la libertà altrui.

Mettendosi nei panni di queste persone, si finisce senza dubbio per giustificarle. Le loro “vite difficili” coinvolgono e commuovono. Se sbagliano non importa, l’importante è che prima o poi si redimano… Perché la redenzione è possibile per tutti… Si tratta di un pensiero (purtroppo) assai diffuso oggi, dove sembra che ai criminali sia concesso tutto e che delle vittime tutti si dimentichino. Perché è così che dovrebbe essere considerato uno che scorrazza per le strade in preda allo sballo: un criminale. Il fatto che dei pedoni abbiano attraversato col rosso non giustifica un conducente in stato di ebbrezza che li travolge. Non vogliamo fare la solita predica sul divertimento sano e senza eccessi. Se volete bere, bevete. Se volete drogarvi, drogatevi. Ma per tornare a casa, fatevi almeno accompagnare da chi sta meglio di voi. Ne va non tanto della vostra vita ma della vita altrui, dei pedoni soprattutto.

Purtroppo il clima di buonismo negli ultimi tempi imperante ha varcato pure i confini del diritto. Dinanzi a un sistema che concede attenuanti a persone che “hanno sofferto”, noi rispondiamo con un progetto ri-educativo serio di reintegrazione e reinserimento nella società. Un progetto basato sulla rielaborazione del senso della vita, sull’abbattimento del vittimismo e sulla responsabilizzazione. Crediamo che ai soggetti devianti debbano essere concesse possibilità che magari non hanno mai avuto. Ma non all’infinito. Qualora tale progetto fallisca, infatti, non rimane che trattare queste persone come in effetti vogliono essere trattate: da criminali. E, nel caso risultino nuovamente coinvolte in reati provocati da situazioni di sballo, provvedere alla loro neutralizzazione.

L’applicazione della pena di morte, in realtà, non dovrebbe valere solo per chi viaggia per le strade in preda a droghe o alcol. Dovrebbe valere per tutti coloro i quali mettono a rischio la vita altrui, fra i quali anche spacciatori e assassini. Perché la vita è un diritto sacro e, in quanto tale, nessuno dovrebbe permettersi di insidiarlo. Qualora questo accada, potrebbero aprirsi degli spiragli per un intervento dello Stato nel caso il reo sprechi le possibilità di reinserimento nella società. Speriamo, ovviamente, che interventi tanto drastici non trovino mai applicazione pratica. Tuttavia crediamo che ognuno di noi avrebbe un motivo in più per responsabilizzarsi, se sapesse di rischiare grosso. E’ così strano sentir parlare di morte per i colpevoli, in uno Stato in cui si parla spesso di morte per gli innocenti?

Vostro affezionatissimo PennaNera

Populismo di sinistra in salsa di sardine

Ave Socii

La cura del linguaggio in politica, l’utilizzo o meno dei social network da parte dei Ministri… Con tutto il rispetto, forse non sono i problemi principali con cui la maggioranza degli italiani si sveglia la mattina. Forse chi non vive nei quartieri alti non può capire la profondità del “politicamente corretto” e di tematiche affini. A rinvigorire l’attenzione per queste tematiche di vitale importanza è ora il “movimento delle sardine”, movimento (ormai abbiamo imparato a conoscerlo) apertamente schierato a sinistra e a cui molti partiti (quelli attualmente più in difficoltà, diciamocela tutta) strizzano l’occhio. L’obiettivo ultimo è quello di combattere contro il populismo (di destra, aggiungiamo noi).

Eppure anche le sardine, a modo loro, sono espressione di un certo populismo. Ebbene sì, quasi nessuno osa dirlo ma anche a sinistra è in voga una certa specie di populismo. Un populismo per i benestanti, per i salottieri, per chi può trascorrere il proprio tempo ad interrogarsi sul sesso degli angeli. Un populismo dei “vaghi principi”, talvolta considerati superiori perfino alla legge. Contrarietà al razzismo, accoglienza, umanità, integrazione, diritti civili… Certamente chi ha la pancia piena ha maggiori possibilità di badare a questi principi. Principi sostanzialmente vuoti, che ognuno di noi in realtà può riempire a piacimento.

Perché esiste la legge? Proprio perché il popolo disponga di un riferimento comune e il più possibile insindacabile a cui appellarsi, al riparo dalle opinioni di certa retorica. Qual è, d’altro canto, l’intento di certa retorica? Porsi al di sopra della legge, cavalcando battaglie su principi tutta apparenza e niente sostanza, principi formalmente di buon senso ma praticamente irrealizzabili. Come si può pretendere che i popoli abbattano tutte le barriere, quando le barriere e le diversità sono esse stesse condizioni essenziali per l’esistenza e l’identità di un popolo? Eppure l’accoglienza è un principio “bello”, lo dice pure il Vangelo… Far leva sulla religione è un altro modo per dar forza a questi vaghi principi e, se necessario, metterli in contrasto con la legge.

Istaurare la dittatura dell’opinione, a dispetto della legge vigente. Ecco l’obiettivo ultimo delle sardine. Ed ecco probabilmente l’obiettivo ultimo della sinistra tutta, che indistintamente ha applaudito e plaude a questo e ad altri “movimenti spontanei”. Perché le sardine si riuniscono in un edificio occupato abusivamente? Dicono per una questione di soldi (per inciso, se l’edificio è occupato abusivamente siamo tutti noi a pagare per le loro riunioni abusive), ma sicuramente anche per una questione politica. L’obiettivo è sfidare la legge. Sfidare l’ordine pubblico. Sfidare lo Stato. Sfidare tutti noi per spodestare i principi fondativi della Nazione ed incoronare i “loro” diritti. Diritti che spesso e volentieri non debbono valere “per tutti”, ma solo “per gli amici”. Perché la libertà di espressione vale per loro e i loro amici, mentre gli avversari debbono essere censurati?

Come se non bastasse, abbiamo conosciuto pure le sardine nere e le sardine islamiche. Di questi tempi va di moda parlare di integrazione. Ben venga l’integrazione, ma che sia fatta nel rispetto della legge. Ecco, a questi “movimenti spontanei” l’espressione “nel rispetto della legge” va proprio di traverso. Se c’è qualcuno che ha la pelle nera, magari pure immigrato irregolare, sono proprio questi movimenti a strumentalizzarlo e a riconoscerlo come “diverso”: questo non è forse populismo? Se c’è qualcuno di un’altra religione, magari pure legata ad ambienti vicini al terrorismo, deve per forza mostrarsi da un palco e farsi riconoscere per la religione che professa: questo non è forse populismo? Invece no, gli unici populisti sono i “sovranisti”. Di destra, per di più.

Ma c’è una differenza fondamentale, fra populismo di destra e populismo di sinistra. Il primo vuole istaurare il primato della legge e della certezza del diritto, il secondo il primato dei “vaghi principi” e dell’opinione. Per fortuna agli italiani è ancora concesso di scegliere. Se il populismo ha davvero qualche significato, sarà il popolo stesso a decidere quale.

Vostro affezionatissimo PennaNera

Ideali scomodi. Il coraggio dell’impopolarità

Ave Socii

Lo strumento della politica dovrebbe servire per portare avanti degli ideali e trasformarli in realtà. E’ questo il bello della politica: combattere per degli ideali in cui si crede. Continuare a combattere per essi, anche se sono ideali passati ormai di moda. Oppure ideali che cozzano contro posizioni attualmente di moda. Battersi per degli ideali, in democrazia, espone al rischio di trovarsi contro le mode del tempo, contro le tendenze, contro il popolo. E purtroppo è proprio questo che, molto spesso, impedisce ai politici di lottare liberamente per gli ideali in cui credono davvero.

In realtà, un po’ tutte le forze politiche tendono a comportarsi come il popolo vorrebbe si comportassero. Il populismo, checché se ne dica, alberga a sinistra così come a destra. Mettere nuove tasse è certamente impopolare, specie in uno Stato dove la pressione fiscale è già alta. Se tuttavia una forza politica ha il coraggio di proporre simili misure, dovrebbe poi avere anche il coraggio di sostenerle fino in fondo. Ciò che in sostanza questo governo negli ultimi giorni non ha fatto, rinviando tasse proposte e avallate proprio da alcune forze di maggioranza. Pur di mostrarsi compatto e “favorevole al popolo” ha deciso di non decidere, spacciando questa “non decisione” per un “miracolo”. Pensando magari che gli italiani avrebbero ringraziato elettoralmente, quasi avessero l’anello al naso. Dalle tasse rinviate alle sardine, se le stanno inventando tutte pur di riacquistare consensi. Se alle prossime elezioni regionali non dovessero farcela neanche così…

L’essere popolari, come detto, è un vincolo che caratterizza e influenza tutti i partiti, soprattutto i più grandi. Accanto ad argomenti popolari, invece, ogni partito dovrebbe pure sostenere posizioni e ideali che vadano al di là del proprio tornaconto elettorale. C’è chi propone lo ius culturae per i minorenni nati in Italia da persone immigrate, benissimo… C’è chi propone di superare il concetto di “modica quantità” e trattare con durezza ogni tipo di detenzione di stupefacente, benissimo… Si abbia, però, anche il coraggio di portare avanti queste battaglie. Con serietà, determinazione e coerenza. Perché la coerenza paga. E se non paga adesso, perché momentaneamente vanno di moda altri ideali, magari pagherà in un futuro neanche troppo lontano. Perché le bandiere che il popolo segue possono cambiare. La sfida è farsi trovare pronti. E farcisi trovare, per quanto possibile, da una posizione che nel tempo si è mantenuta coerente.

Secondo noi, esistono molte battaglie politiche per cui varrebbe la pena combattere, in questo preciso momento storico. Andare in mezzo ai giovani e spiegare che la cannabis fa male. Legalizzare la prostituzione, invece che le droghe. Colpire i consumatori, oltre che i trafficanti di stupefacenti. Almeno discutere di pena di morte per i criminali, così come si discute di aborto e eutanasia per gli innocenti. Consentire l’organizzazione di ronde per sopperire alla carenza di pubbliche forze dell’ordine, oltre che regolamentare la legittima difesa nella proprietà. In casi eccezionali, per salvaguardare la sicurezza pubblica, provvedere a limitare alcuni diritti.  Affermare che l’integrazione è sì buona e bella, ma impraticabile perché ogni immigrato ha i suoi valori, spesso incompatibili con quelli del Paese che lo ospita. Sostenere che alcune famiglie, nell’accudimento dei figli, sono più adatte di altre. Schierarsi contro la deriva ambientalista, sostenendo che avvantaggia i petrolieri piuttosto che l’ambiente…

Quante battaglie si potrebbero sostenere, se non si badasse esclusivamente al consenso del popolo! Ma schierarsi apertamente contro certi ideali significherebbe, per alcuni partiti, crollo sicuro nei sondaggi. Visto che ultimamente si tengono elezioni a distanza molto ravvicinata, certe battaglie non vengono intraprese. Ce li vedete, voi, i politici ad andare in mezzo ai giovani, spiegando loro che la cannabis fa male? Gli riderebbero addosso, in fondo “è solo una cannetta, tutta roba naturale”… O a dire che, a determinate condizioni, certi diritti vanno limitati? Darebbero loro dei “barbari”… O a sostenere che certi nuclei familiari, pur legittimati da un Parlamento, sono una spanna al di sotto della “famiglia tradizionale” nella cura dei figli? Politici del genere sarebbero etichettati come “retrogradi e sfigati”… O a mettersi contro l'”onda verde”, contro chi riempie le piazze manifestando a favore dell’ambiente? Tali politici verrebbero messi al rogo, pure a costo di inquinare l’atmosfera…

Ci auguriamo che alcuni abbiano il coraggio di assumere queste (ed altre) posizioni scomode. E di assumerle in maniera continuativa, senza timore per una situazione di impopolarità temporanea o prolungata nel tempo. E di continuare a navigare nella stessa direzione, pure quando il popolo volta le spalle e il vento cambia. Perché un giorno il vento tornerà a soffiare in questa direzione. Perché un giorno il popolo volgerà di nuovo lo sguardo verso questa parte. Perché quel giorno chi è rimasto coerente raccoglierà i frutti della propria coerenza.

Vostro affezionatissimo PennaNera

Reciprocità, un valore che rischiamo di perdere

Ave Socii

Donare se stessi, farsi umili, porgere l’altra guancia… Forse siamo fin troppo ossessionati dalla “politica della non violenza”. Forse non riusciamo davvero a separare la nostra sfera interiore dai rapporti con l’esterno. Forse davvero ci stiamo abituando ad abbozzare e abbozzare ancora, fino a scoppiare. Perché prima o poi arriva il momento di rilasciare l’energia che nel tempo abbiamo accumulato dentro. Perché ad un’azione corrisponde (deve corrispondere) sempre una reazione, perfino nei rapporti umani.

Forse dovremo abituarci a credere un po’ di più nella reciprocità. Un valore che non necessariamente significa “occhio per occhio, dente per dente”. Un valore che, al contrario, se correttamente applicato potrebbe pure aiutarci a evitare incomprensioni e tensioni. Si può rispondere a un torto altrui anche senza ricorrere a un torto a nostra volta, purché si risponda. Non rispondere ora equivale solo a rimandare la risposta più in là. A furia di rimandare, tuttavia, si rischia di perdere il controllo dell’energia accumulata dopo tanti e continui abbozzi. L’energia può certamente cambiare forma e di diverse forme sono anche le reazioni che uno può avere. Ma fare completamente finta che nulla sia successo è impossibile. Al massimo si può dare l’idea di “essere superiori” alle provocazioni, ma mai ignorarle del tutto. Dopotutto anche il Vangelo insegna ad agire in certi modi, mica a non agire affatto! Sottile è il Signore…

E la reciprocità dovrebbe valere, in un contesto più ampio, anche nei rapporti fra gli Stati. Qualcuno continua a sostenere che oggi un tale valore risulti ormai superato. Oggi, dicono, valgono i diritti universali… Ebbene, è proprio in nome di quei diritti universali che spesso si consumano le peggiori incomprensioni e tensioni fra le Nazioni. Emigrare è un diritto universale, dicono alcuni… Perciò accogliere i migranti dovrebbe essere un dovere universale… Sì, peccato che il più delle volte lo sia solo a parole. E un diritto ribadito solo a parole non è un vero diritto. I diritti non esistono, se non vengono realizzati da tutti coloro i quali li proclamano. I diritti, per esistere, hanno bisogno di reciprocità. Quelli che io e te consideriamo “diritti” esistono nella misura in cui io e te, reciprocamente, ci impegniamo a realizzarli. Altrimenti sono solo belle parole.

L’esistenza di diritti universali costringe gli Stati a tutelare certe posizioni soggettive, spesso sollevando i singoli dalle proprie responsabilità. Quante volte assistiamo a simili casi di squilibrio nei rapporti! Quante volte assistiamo alla celebrazione del valore dell’accoglienza! E ad approfittarne non sono solo i migranti, ma anche e soprattutto quelli che dicono di aiutarli. Nessuno parla mai del diritto dei popoli a rimanere nella loro terra. Forse non è di moda considerarlo un diritto universale… Farsi vedere accoglienti ci rende molto più “graditi” agli occhi altrui, anche in quanto Stati. Peccato che parecchi Stati siano molto accoglienti coi porti altrui e molto meno coi propri! Anche in ciò servirebbe reciprocità, se davvero accogliere è un dovere universale.

Non raramente un diritto inalienabile è in grado di spingere un individuo a determinati comportamenti, pur di ottenere quanto sperato. Pensate solo a quelli che, per i più disparati motivi, iniziano uno sciopero della fame. Pur di ottenere quello che voglio, sono disposto a mettere a rischio la salute e la vita… Questo è il messaggio, più o meno implicito, alla base di simili comportamenti. Se la strategia funziona, non è detto che essa non possa venire strumentalizzata al punto da sfociare nel vittimismo. Anche in casi del genere, il rapporto tra individuo e sistema non è affatto reciproco: l’individuo può agire persino strumentalizzando un diritto universale, la vita, che invece il sistema è obbligato a difendere ad ogni costo (proprio in quanto diritto universale).

Situazione simile, pur con le dovute differenze, nel caso degli omicidi… Alcuni individui si permettono il lusso di violare un diritto universale, privando altri individui della vita… Il sistema, invece, pur di tener fede al principio della vita come diritto universale, non può applicare la pena di morte nei confronti dei colpevoli… E’ interessante notare, a questo punto, come in realtà esistano dei limiti alla vita in quanto diritto universale. Si pensi all’eutanasia. Ebbene, un individuo può morire perché colpito da malattie incurabili, ad esempio… Perché, invece, uno non può morire se ha privato altri della vita? Specie se nemmeno il percorso di rieducazione si è dimostrato utile? Gli innocenti possono morire, i colpevoli no… Ci sembra un tantino ingiusto.

Forse ricorrere alla reciprocità potrebbe, in parte, risolvere simili questioni. Sapere che se hai ammazzato qualcuno potresti incorrere nella medesima pena, forse spingerebbe l’omicida a sentire sulle proprie spalle tutto il peso della responsabilità del proprio comportamento. Sapere che non esistono diritti universali, ma che i diritti vanno guadagnati sul campo attraverso i rapporti con gli altri individui… Invece la politica dei diritti universali crea solo squilibri, illudendo i deboli di essere forti e rendendo tutti più vulnerabili alle strategie vittimistiche. Se l’intento ultimo è quello di creare una società di deboli, di gente facilmente controllabile e influenzabile, lottiamo finché siamo ancora in tempo! Combattiamo contro la deriva dei diritti garantiti solo sulla carta! Solo i diritti reciprocamente riconosciuti meritano di essere realizzati.

Vostro affezionatissimo PennaNera

Vita, diritto da difendere ma anche da meritare

Ave Socii

“Vuoi la vita? Meritala!”… Dovrebbe essere questo l’imperativo morale di ogni essere umano di ogni tempo e di ogni cultura… Invece molti di noi amano appiattirsi sulla vita in quanto “diritto inalienabile”, diritto anteposto persino allo Stato e che lo Stato deve limitarsi unicamente a tutelare. Ma cosa significa “tutelare la vita”? In che modo uno Stato può intervenire, se un individuo minaccia l’esistenza di un altro individuo? Dovremmo essere tutti d’accordo sul fatto che la vita è sacra… Eppure c’è chi, attraverso i suoi comportamenti, dà l’idea di pensarla in maniera esattamente opposta. Chi uccide, evidentemente, non ha molto a cuore la “sacralità” della vita. A nostro avviso, i criminali che si macchiano di omicidio dovrebbero sapere cosa significa “sentire che la propria vita è a rischio”. Forse questo potrebbe spingerli a “cambiare”… Se ciò non accadesse, lo Stato dovrebbe agire di conseguenza.

Pure la regola generale del “vivere” come “diritto inalienabile” presenta delle eccezioni. Certe volte uccidere un innocente è sintomo di progresso: infatti ci interroghiamo su aborto e eutanasia. Ma uccidere un colpevole rimane un tabù: infatti molti vedono nella pena di morte un ritorno alla preistoria. E sperano che presto venga abolita in tutto il mondo. Vediamo, dunque, che anche per i diritti cosiddetti “umani, universali, inalienabili” possono essere previste delle eccezioni. Ma chi decide la liceità o meno di queste eccezioni? Se un diritto è universale e inalienabile lo è in assoluto, senza eccezioni. Perché, in certi casi, si può invece chiudere un occhio? Allora non siamo di fronte a un diritto così inalienabile come alcuni vorrebbero far credere… Se solo alcuni pensano di decidere quando un diritto è inalienabile o meno, noi non ci stiamo. Ed esprimiamo le nostre idee in merito… I fascio-buonisti non si indignino!

Per fortuna sta cominciando a passare il principio che chi entra nella proprietà altrui, senza essere il benvenuto, implicitamente accetta di mettere a repentaglio la propria vita. Quello della legittima difesa è, tuttavia, un provvedimento che necessita di molti miglioramenti. Però è già un primo passo per contrastare il senso di impunità che sembra aver spadroneggiato nel nostro Paese negli ultimi anni. Siamo assolutamente favorevoli a che sia ristabilito un clima di rispetto delle regole. Far rispettare le regole è l’unica garanzia di umanità e diritti per tutti, specialmente per i più deboli. Purtroppo abbiamo l’impressione che questo rinnovato clima non durerà a lungo. A qualcuno, infatti, questo clima non piace affatto e farebbe di tutto pur di spazzarlo via… Magari in nome di quei presunti “diritti umani” che hanno già dimostrato generare solo conflitti nella nostra società…

Ci sono persone che bevono o si drogano, poi si mettono alla guida di un’auto, sfrecciano a tutta velocità per le strade, incontrano persone ignare e magari succede il peggio… Al di là di tutti i discorsi educativi e di tutte le raccomandazioni, chi si comporta così non fa male solo a se stesso ma rischia di fare seriamente male pure ad altri che con lui non c’entrano assolutamente nulla. Anzi, soprattutto a loro. Bere e drogarsi sono scelte di quelli che intendono “trascorrere una bella serata”, così come mettersi successivamente alla guida di un’auto… Incrociare un’auto guidata da un drogato o un alcolizzato, invece, non è certo una scelta per quel poveraccio che ha la sfortuna di vedersi piombare addosso quell’auto a folle velocità.

In fondo, chi beve o si droga mette in conto che una corsa per strada potrebbe anche porre fine alla sua vita… Ognuno può fare della propria vita quel che vuole, pure metterla in pericolo fino alle estreme conseguenze. Tuttavia, se uno vuol mettere la propria anima nelle mani del Signore, non può costringere che altri lo seguano per quella strada. Specie se con lui non c’entrano nulla. Dovrebbe essere il Signore a decidere il giorno della nostra chiamata verso il cielo… Non uno sconosciuto che ha assunto qualche bicchiere di troppo o qualche stupefacente… Se certi soggetti hanno avuto “una vita difficile”, evitino perlomeno di renderla difficile agli altri! Si facciano aiutare, piuttosto!

Ci sono persone che si autoledono, si tagliano, si drogano, per mettere alla prova l’altro e attirare l’attenzione. Se comportamenti del genere perdurano, arrivare a mettere in gioco la propria vita è un attimo. All’inizio è bene aiutare queste persone ad uscire da questi atteggiamenti sbagliati, coinvolgendo tutte le figure significative vicine. Che ognuno di noi voglia attirare l’attenzione è fisiologico, magari pure attraverso comportamenti a rischio… Probabilmente nessuno di noi è stato un santo durante l’adolescenza! Ma arriva un momento in cui il meccanismo, se non corretto, si inceppa e il rischio, da comportamento marginale, diviene ragione stessa della propria esistenza. Strategia da utilizzare normalmente, da riproporre ogniqualvolta si incontra una difficoltà. In questi casi patologici ogni aiuto comincia a diventare vano… E ogni nuovo fallimento dei tentativi d’aiuto rafforza sempre più quella strategia malsana… E chi ha aiutato rischia pure di sentirsi in colpa per aver fallito…

Ci chiediamo, a questo punto, se soggetti così depravati siano degni di continuare a vivere. Siamo esagerati noi? O forse sono irrecuperabili loro? E se magari non solo sono irrecuperabili, ma pure potenzialmente dannosi per il prossimo? Se dopo tante messe alla prova non c’è stato verso di cambiare i loro atteggiamenti, cosa rimane da fare? Aspettare che facciano altri danni, magari con tanto di morti e lacrime di circostanza? Se tali soggetti considerano tanto insignificante il valore della vita, mettere a rischio gli altri sarà per loro una cosa “normale”. Sarebbe più che opportuno, allora, disinnescare simili mine vaganti finché si è in tempo. Ogni giorno in più della loro vita potrebbe significare altre vite innocenti danneggiate o, peggio, spezzate del tutto.

Per questo siamo convinti che aiutare i devianti con ogni mezzo sia cosa buona e auspicabile, ma se dopo tanti tentativi si fallisce è bene non prendersela con se stessi. Soprattutto se si è fatto tutto il possibile. In fondo, se il deviante perdura nella sua strategia non è colpa di chi cerca di aiutarlo a trovare strade alternative. Semmai la colpa è del deviante stesso, che vuole ignorare l’esistenza di strade alternative. Se la sua vita non conta nulla di fronte ai suoi capricci, che vada pure incontro al suo destino! A pensarci bene, nemmeno chi fa scioperi della fame o della sete ha molto a cuore la propria vita. Alla faccia del valore universale, in casi del genere la vita viene strumentalizzata per spuntarla in battaglie di varia natura. Battaglie personali, talvolta persino battaglie politiche… “Fare la vittima” perché gli altri si turbino e abbocchino…

Simili “strategie della tensione” dovrebbero essere assecondate solo per breve periodo. Se perdurano, tuttavia, andrebbero stroncate. Certo, all’atto pratico è tutt’altro che semplice definire una linea di comportamenti da tenere. Stabilire se una strategia è intenzionalmente orientata a mettere in difficoltà l’altro, tenerlo “sotto scacco”, o è invece solo l’effetto di una patologia mentale cronicizzata, è certamente complesso. Secondo noi, la strategia di intervento andrebbe ponderata in riferimento al luogo che ha in carico i soggetti in questione. Se una struttura è “socio-educativa” dovrebbe agire in certi modi, se è “sanitaria” in modi diversi. E’ chiaro che ogni struttura dovrebbe avere ben precisi requisiti, tali da renderla classificabile in maniera non equivoca e tali da poter permetterle di accogliere ben determinate categorie di utenza. Solo successivamente sarà chiaro in quali modi poter agire, in base al tipo di struttura e all’utenza ospitata.

Ad esempio, in strutture non prettamente sanitarie (carceri, comunità per tossicodipendenti ecc.) gli operatori non dovrebbero essere obbligati a intervenire, in caso di reiterazione frequente di “atteggiamenti autolesivi” da parte degli utenti. Finché capita sporadicamente si può cercare di venire incontro alla “vittima”. Ma chi persevera ha ben chiare le conseguenze cui va incontro, perché le ha già affrontate. Quindi, implicitamente, è come se le accettasse. Anche perdere la vita è una possibile conseguenza di certi comportamenti. E un operatore non può essere messo continuamente alla prova da queste “vittime” recidive. Se il comportamento lesivo coinvolgesse anche altri utenti, l’obbligo di intervento dovrebbe essere garantito esclusivamente ai “terzi lesi” e non agli autori della lesione (se recidivi). Per simili soggetti “irrecuperabili” potrebbero prospettarsi due possibilità: isolamento o fine vita. L’obbligo di intervento dovrebbe sempre valere, invece, verso chi è ospitato in strutture sanitarie come ospedali o case di cura.

Interrogarsi su aborto, eutanasia, testamento biologico, fine vita… Tutte questioni lecite e interessanti, per l’amor del cielo… Ma se uno Stato ha così tanto tempo per interrogarsi su come far morire un innocente, non vediamo il motivo per cui non debba avere tempo pure per interrogarsi su come far morire un colpevole. Scusate se le nostre opinioni non sono perfettamente allineate al “retto pensiero”… Però secondo noi l’inalienabilità della vita passa attraverso i comportamenti dei singoli, non attraverso le opinioni di qualche “paladino dei diritti umani” che pretende di dare pagelle di moralità a tutti. Firmare la condanna a morte per chi, in maniera reiterata, ha costituito un pericolo per la vita degli altri… Questo dovrebbe fare uno Stato serio che vuole tutelare la vita dei suoi cittadini onesti e perbene. Perché la vita di un singolo dipende dalle scelte che fa, nel bene come nel male.

Vostro affezionatissimo PennaNera

Interessi e conflitti: risorse, non problemi

Ave Socii

Abbiamo scoperto l’acqua calda: l’onestà non è di casa nemmeno nella magistratura. Anche lì ognuno coltiva i propri interessi. E non succede da ieri, a dire il vero. Anche negli organi teoricamente più imparziali potrebbero in realtà avvenire manovre non propriamente disinteressate. Bisogna avere fiducia nella magistratura… Certo, bisogna avere fiducia, ma non più e non meno che in altri organi dello Stato. La magistratura, a nostro avviso, non ha nulla di così speciale da meritare tutta questa smisurata fiducia. Specie alla luce degli ultimi accadimenti.

Ormai, per recuperare un po’ di credibilità, i magistrati inizieranno a picchiare duro pure contro quei “campioni d’onestà” dei Cinque Stelle… Lo stanno già facendo contro il sindaco di Torino, ma non solo. Se colpisce anche la magistratura, allora è proprio vero che la disonestà è la cosa più democratica che esista. E pensare che un tempo sembravano così uniti, Cinque Stelle e magistratura, sotto la comune bandiera dell’onestà! Ma da quando il popolo, dopo le recenti elezioni, ha voltato le spalle al più credibile baluardo d’onestà nel nostro panorama politico, ai giudici è stata al momento preclusa ogni possibilità di eliminare giudiziariamente gli avversari politicamente ineliminabili. Anche i Cinque Stelle “hanno fallito”… Perciò, d’ora in poi, pure loro potranno essere indagati liberamente. Anche se forse proprio i Cinque Stelle, in tutta la loro storia, hanno collezionato più avvisi di garanzia in proporzione ad altri partiti. Ma questi sono dettagli…

Poi è esploso lo “scandalo magistratura” e abbiamo scoperto che la corruzione serpeggia pure fra i giudici… Eppure, secondo noi, non c’è ragione alcuna per sentirsi così scandalizzati. Siamo tutti esseri umani e, come tali, siamo tutti interessati. L’interesse e la motivazione spingono ogni nostra azione. Chi ha interessi comuni, poi, si riconosce sotto una medesima bandiera e tifa per la categoria rappresentata da quella bandiera. Vale per lo sport come per la politica, passando per i poteri di uno Stato democratico. La democrazia stessa promuove il perseguimento di interessi a partire da una pluralità di categorie, le quali si confrontano (ad esempio, attraverso libere elezioni) deliberando quali siano gli interessi al momento meritevoli di maggior tutela (quelli proposti, ad esempio, dal partito o dalla lista che ha ottenuto più voti).

I poteri statali, il giudiziario nello specifico, dovrebbero essere esercitati all’interno di ogni categoria sociale. Non dovrebbe esistere una categoria che da sola detenga lo scettro di un potere intero: risulterebbe eccessivamente potente nei confronti delle altre. Occorre depotenziarla, dunque. Dividere i poteri non basta, per annullare l’effetto delle correnti ed assicurarsi il raggiungimento dell’indipendenza e dell’imparzialità. I poteri vanno anche suddivisi fra le categorie esistenti: non mediante una “divisione dei poteri” tout court, ma attraverso una sorta di “diffusione dei poteri”. Nella realtà non possono esistere poteri “al di sopra delle parti”. Tutti i poteri presentano comunque le loro suddivisioni in categorie, siano esse correnti o partiti. Ed è bene che queste categorizzazioni vengano fuori, invece di alimentare loschi sotterfugi celati sotto la maschera dell’imparzialità. A nostro parere è inutile, persino dannoso, alimentare l’ipocrisia che alcuni poteri siano immuni dall’influenza delle categorie.

La questione non dovrebbe essere se le categorie possano o meno influenzare i poteri, ma piuttosto stabilire quali categorie possono influenzare i poteri e quali no. Detto in maniera diversa ma equivalente, quali interessi sono meritevoli di tutela e quali no. In questo senso, la Costituzione potrebbe fornire delle linee guida, impedendo da subito la nascita di determinate correnti. Se certe correnti sono anticostituzionali diciamolo dall’inizio. Impediamo che nascano dal principio. Non aspettiamo, per esempio, che avvengano certi episodi a Roma per poi etichettarli come “aggressioni squadriste”. Così sembra quasi che si abbia interesse a che determinate correnti vengano alla luce, per trasformarle in capro espiatorio in determinate situazioni. E’ indubbio che episodi del genere vadano condannati. Ma certe correnti non dovrebbero nascere per niente, se veramente promuovono interessi contrari alla Costituzione… Che pure qui ci siano sotto degli interessi, magari proprio la costruzione di un capro espiatorio?

Passare dal paradigma dell’imparzialità a quello del perseguimento di interessi. E’ questo il punto. Non scansiamo il problema, affrontiamolo. Gli interessi esistono, non si possono evitare. Sfruttiamo questa situazione, invece di biasimarla. Invece di alimentare le false speranze di una magistratura indipendente, proviamo a sfruttare le potenzialità di una magistratura interessata.

La società tutta è divisa in categorie, o correnti. Ciascuna di esse dovrebbe accogliere magistrati propri, motivati a promuovere gli interessi di quella determinata categoria. Ogni categoria è costituita da rappresentanti e rappresentati. I primi dovrebbero ottenere benefici in base ai risultati positivi che conseguono per la loro categoria. Migliori sono i risultati, maggiori sono le possibilità di salire al vertice (che, nel caso del potere giudiziario, dovrebbe essere costituito da un magistrato per ciascuna categoria, così da garantire l’equilibrio fra i vari interessi coinvolti). Si presume, infatti, che i migliori siano quelli in grado di difendere meglio gli interessi di categoria. Ma i rappresentanti si possono anche cambiare. Un numero qualificato di rappresentati può sostituire i rappresentanti “non graditi”, come accade per le elezioni politiche. Tale metodo democratico dovrebbe essere applicato anche ai magistrati.

Ognuno di noi sarebbe contento se prevalessero sempre le idee che condivide maggiormente. Noi stessi saremmo contenti qualora prevalessero sempre certe categorie e certe linee di pensiero. Tipo la linea “sovranista”, la linea del “prima gli italiani”. O la linea del contrasto alla criminalità, all’immigrazione incontrollata e al traffico di droga… Ma sappiamo che purtroppo non sarà per sempre così. Perché nel tempo gli interessi di una società cambiano. La scala dei bisogni di una Nazione può variare. La popolarità di una categoria non dura per sempre. Si chiama democrazia. E pure i magistrati, secondo noi, dovrebbero riflettere le aspettative e le richieste di un popolo, se ci troviamo all’interno di una democrazia. Nei limiti, ovviamente, delle possibilità accordate dalla Costituzione.

Come risolvere eventuali contenziosi tra le diverse categorie? Ad esempio, si potrebbe costituire un organo composto da tre giudici, due di parte e uno imparziale (estratto a sorte tra i non contendenti). In caso di irregolarità, pagherebbero i tre giudici. Se le irregolarità coinvolgessero il vertice, pagherebbero in solido le categorie rappresentate dai tre giudici nel collegio giudiziario. In caso i rappresentanti siano suddivisi in più organi, purché di pari livello, è opportuno che tali organi non legiferino per se stessi. Specie se sono due, è bene che l’uno disponga le regole per l’altro e viceversa. Come nel caso di Camera e Senato: ciascuno dei due rami del Parlamento dovrebbe stabilire le norme non già per sé medesimo, bensì per l’altro. Specie per quel che concerne i compensi dei suoi membri.

La riforma della giustizia è sicuramente materia difficoltosa per chiunque, soprattutto in Italia. Magari proprio a causa degli interessi che qualcheduno vorrebbe salvaguardare. Ma comunque venga impostata la riforma, crediamo che la stella polare da seguire debba essere questa: depotenziare determinate categorie, al momento strapotenti, per raggiungere un certo equilibrio fra gli interessi in gioco. Finché una sola categoria sarà al comando di un potere, i suoi interessi prevarranno senza possibilità di replica. Solo quando tutte le categorie saranno in grado di esprimere rappresentanti propri per ciascun potere, compreso quello giudiziario, potremo finalmente dire addio alla subdola tirannia di una casta.

Vostro affezionatissimo PennaNera

Morte e vita. Il diritto e la pena

Ave Socii

La vicenda della ragazzina olandese che ha deciso di darsi la morte, perché provata dal male di vivere, ha riacceso il dibattito sull’eutanasia. Chi si professa “progressista” crede che il progresso passi anche per la “buona morte”. Certo, consentirla a delle ragazzine minorenni forse non è il massimo. Anche l’Olanda, in realtà, ha norme piuttosto stringenti su questo tema.

Decidere di morire, perché si è stanchi di vivere… Se la “buona morte” ha un qualche senso, crediamo debba limitarsi ai soli casi di malattie terminali e malattie per le quali non esiste alternativa diversa dall’accanimento terapeutico. Di certo non dovrebbe servire per curare casi di depressione. Così l’aborto, se ha un qualche senso, dovrebbe limitarsi ai soli casi di rapporti sessuali non consenzienti. E ai casi di malattie gravi dell’embrione. E dovrebbe essere praticato, comunque, entro tempi non troppo lunghi dalla fecondazione.

Forse stiamo perdendo il “senso della vita”, presi come siamo dal “senso della morte”. Preferiamo tutelare chi sceglie di morire, invece di supportare chi vorrebbe scegliere di vivere. I fascio-buonisti, dall’alto del loro senso di progresso, premono per una regolamentazione delle “pratiche di morte”. Se per loro il concetto di vita è così relativo, allora per quale motivo non sono altrettanto pressanti in tema di pena di morte per i criminali? Va bene battersi per il diritto a una vita dignitosa. Però, a questo punto, non dimentichiamoci della dignità di vivere. E di chi, forse, per quel che ha combinato non merita una tale dignità.

Speriamo che mai nessuno debba morire per mano d’uomo, ci mancherebbe. Però, se proprio qualcuno deve perdere la vita in questo modo, preferiamo siano i colpevoli e non gli innocenti. Pensate che strani che siamo! I “politicamente corretti” cosa dicono, invece? Pena di morte per i criminali no, aborto e eutanasia sì… Saremo noi fuori dal mondo, ma questo ci pare un po’ un controsenso. Perché se un privato sceglie di morire va tutto bene… e se invece è lo Stato a decidere che uno deve morire, perché ha violato determinate leggi, ripiombiamo nel buio Medioevo?

E così, in nome del progresso, dobbiamo liberalizzare anche la morte… Così comanda la “retta dottrina” dei fascio-buonisti. Noi abbiamo un’idea di progresso diversa. Per noi una società è progredita se ognuno dei suoi membri si assume le responsabilità di ciò che fa. Chi nega il diritto alla vita di una persona, dovrebbe sapere che di quel medesimo diritto può anche essere privato. Non da un altro individuo, sia chiaro, ma dallo Stato. Anche gli aborti e i suicidi assistiti sono negazioni della vita. Per “giusti motivi”, ci mancherebbe… ma anche lo Stato può avere “giusti motivi” per privare qualcuno della vita, non solo i singoli. L’intervento dello Stato, anzi, potrebbe pure distogliere gli individui dal desiderio di farsi giustizia da sé, prevenendo il sorgere di eventuali faide e contribuendo ad abbassare il livello di tensione sociale. Lo Stato dovrebbe essere l’unico legittimato a compiere simili atti “di giustizia straordinaria”.

Noi vorremmo uno Stato in cui le pene siano certe e servano alla “rieducazione del condannato”, come raccomanda anche la Costituzione. Rieducazione finalizzata al reinserimento del reo nel tessuto sociale. In questo senso, l’ergastolo è forse la pena più inutile che esista… Fine pena mai, nessuna possibilità di ritorno alla vita sociale, quindi nessuna finalità rieducativa… Un posto in galera occupato a vita da un tizio che, nella maggioranza dei casi, trascorre i suoi giorni a meditare una strategia di fuga oppure il suicidio (che poi non è altro che una particolare strategia di fuga)… Ergastolo spesso commutato in altra misura perché magari il condannato ha dato di matto, oppure per “buona condotta”… Alla faccia della certezza della pena… E il tutto a spese dello Stato.

La Costituzione stessa, nella sua prima formulazione, prevedeva la pena di morte in casi eccezionali. Un tempo perfino la Chiesa condannava a morte i suoi colpevoli. Formalmente, lo Stato Pontificio ha abolito la pena di morte solo nel 2001. In realtà, tuttavia, le ultime condanne risalgono a circa due secoli fa. Ora la Chiesa, coerentemente, condanna espressamente qualsiasi forma di “negazione della vita”, che sia aborto o pena di morte o eutanasia. D’altro canto, uno Stato che ha tempo di interrogarsi sull’introduzione della “buona morte”, secondo noi, dovrebbe interrogarsi anche sull’introduzione della “pena di morte”. Sembrano ora riecheggiare a nostro sfavore le parole dell’illuminista Beccaria: perché lo Stato dovrebbe prevedere la morte come pena, quando la condanna come reato?

Eppure il nostro ordinamento non può non prevedere fattispecie di reati riguardanti, in un modo o nell’altro, il concetto di “morte”. Tutti noi saremmo contenti se non vi fossero omicidi, ma evidentemente la realtà dei fatti è un po’ diversa. Qualcuno potrebbe dunque obiettare a Beccaria: perché la morte può comunque esistere come reato, all’interno di uno Stato che la aborrisce addirittura come pena? Le considerazioni di Beccaria sulla pena di morte, perciò, dovrebbero essere ribaltate: se è sbagliato aborrire la morte solo come reato e prevederla comunque come pena, perché dovrebbe essere giusto aborrirla solo come pena e prevederla comunque come reato?

Siamo dell’idea che uno Stato davvero progredito debba prevedere la pena di morte per reati particolarmente efferati, che violano gravemente specifici diritti di rilevanza costituzionale. Vogliamo incominciare a ristabilire un po’ di certezza della pena? Ebbene, pena più certa di questa non esiste davvero. Chi nega la vita altrui dovrebbe sapere che può incorrere nel medesimo trattamento. Però non vogliamo la legge del taglione. Crediamo sia comunque opportuno dare un “tempo di recupero” al reo, per consentire la sua responsabilizzazione e “rieducazione”. Qualora poi il reo non sfruttasse adeguatamente questa possibilità, lo Stato potrebbe sempre prendere i dovuti provvedimenti. Fossimo noi lo Stato, arrivati a questo punto preferiremmo senza dubbio giustiziare il colpevole piuttosto che rischiare, per causa sua, di piangere altri innocenti.

Probabilmente non tutti condivideranno le nostre posizioni, i temi qui affrontati sono particolarmente delicati. Ma noi siamo per la cultura libera e per la libera espressione del pensiero. Neanche noi condividiamo le posizioni di alcuni, in merito a questi argomenti. Tuttavia le rispettiamo e auspichiamo un confronto costruttivo nel rispetto reciproco. Speriamo che pure il dibattito politico trovi al più presto una sintesi positiva e coerente fra le varie istanze.

Vostro affezionatissimo PennaNera

Giustizia italiana. Un mondo tutto da riformare

Ave Socii

Controllare i controllori. Quando si è in presenza di un organo deputato al controllo, c’è forse motivo di dubitare della serietà e imparzialità dei suoi componenti? Tutti noi vorremmo che la risposta fosse no… Ma alla luce anche dei recenti “scandali” che stanno colpendo la magistratura italiana, forse ci domandiamo se chi controlla necessiti a sua volta di essere controllato.

Da più parti, e da molti anni, si parla di “riforma della giustizia”. Secondo noi, sarebbe necessario rivedere più in generale il ruolo di ogni organo di controllo. Compito non certo facile, visto che già nei tempi antichi qualcuno si domandava “chi controlla i controllori?”… Chi riveste ruoli di controllo e non è a propria volta controllato da nessuno, potrebbe abusare indiscriminatamente del potere conferitogli dalla carica che riveste. Inventare organi di controllo superiori complica il problema, invece di risolverlo. I controllori superiori controllano gli inferiori, ma chi controlla i superiori? Un nuovo organo di controllori collocato ancora più in alto? Ma poi chi controllerà questi ultimi? E così via, all’infinito.

E’ evidente che il “metodo gerarchico” fin qui descritto non è il massimo. E’ dunque necessario riflettere sulla possibilità di introdurre altre modalità di controllo. Magari di controllo “fra pari”. Se si motivasse adeguatamente le parti a controllarsi a vicenda, forse, si eviterebbero eclatanti abusi di potere. Nella Roma repubblicana, i consoli erano due proprio perché l’uno controllasse l’operato dell’altro e viceversa. Tornando ai giorni nostri, il sistema parlamentare italiano prevede che vi siano due Camere aventi i medesimi ruoli e poteri. Ognuna delle due Camere si autogoverna e stabilisce il proprio regolamento interno (cosiddetta “autodichia”). Non sarebbe più opportuno, invece, che l’una stabilisse le regole dell’altra e viceversa?

Si parla tanto di conflitto di interessi. Quello citato sopra potrebbe essere un esempio. Ma se esiste un conflitto di interessi davvero grave, forse è quello per cui l’organo dei controllori, la magistratura, si autogoverna. Quello per cui un giudice viene giudicato da un altro giudice. Un suo “simile”, diciamo così. E per gli amici, ovvero i simili, le regole spesso si interpretano nel senso più favorevole possibile. Alla faccia dell’imparzialità. E spesso l’incompetenza del Legislatore moderno contribuisce ad allargare in misura indeterminata le possibilità di interpretazione delle leggi da parte del potere giudiziario.

Fare in modo che esistano organi di controllo “alla pari”, che insistono cioè sui medesimi interessi, potrebbe essere una soluzione al problema. Il conflitto d’interessi dovrebbe essere esternalizzato, cioè ricondotto ad organi differenti, invece che rimanere internalizzato nel medesimo organo. Creare organi superiori, per l’appunto, è inutile poiché ripropone al proprio interno le medesime tipologie di conflitti. Se proprio deve esistere un “organo superiore”, questo dovrebbe accogliere al suo interno rappresentanti delle varie istanze di un sistema. Ognuna delle parti, rappresentative delle varie istanze, propone le condizioni cui le altre parti dovrebbero attenersi per salvaguardare al meglio i loro interessi. In sede congiunta, poi, si effettua una sintesi delle posizioni. Questo ci pare il metodo più corretto per trattare il problema del controllo. Una sorta di applicazione della teoria dei giochi.

Spesso anche i membri di diversi organi vengono scelti in rappresentanza dei poteri di un sistema. Si pensi ai componenti della Corte Costituzionale, scelti in egual numero dai tre poteri dello Stato (legislativo, esecutivo, giudiziario). In presenza di conflitti fra questi poteri, ogni organo deputato alla risoluzione di tali conflitti dovrebbe accogliere rappresentanti di tutti i poteri coinvolti. Il Consiglio Superiore della Magistratura accoglie membri togati e laici, ma forse non basta. Perché ogni membro sia egualmente motivato a perseguire gli interessi della propria parte, dovrebbe essere ricompensato a partire dai risultati positivi conseguiti dalla parte che rappresenta. E, al contrario, penalizzato in base ai risultati negativi.

Il tema della “responsabilità civile dei magistrati” è collegato a quanto detto prima. L’innocente che abbia subito un processo lungo e ingiusto, dovrebbe essere risarcito direttamente dai rappresentanti del potere giudiziario. Costoro dovrebbero rispondere delle loro mancanze. Ciò potrebbe ridurre il ricorso al loro strapotere di interpretazione. Se un magistrato pagasse per le sue omissioni, potrebbero anche ridursi i tempi della giustizia. Se i compensi dei giudici fossero inversamente proporzionali al tempo dei processi, forse si uscirebbe da una situazione che definire “farraginosa” è un’offesa agli eufemismi.

Evitare la presenza di organi di controllo superiori, magari, farebbe pure risparmiare dei bei soldini. Così come decidere i compensi in base ai risultati conseguiti e non perché “si ha diritto a quei compensi”. Ma dei bei soldi pubblici si risparmierebbero anche liberando parzialmente le casse statali dall’onere di stipendiare indistintamente tutti i rappresentanti della giustizia. In questa direzione potrebbe andare un provvedimento incentrato sulla liberalizzazione della giustizia civile. In particolare, tutto ciò che concerne i contenziosi fra privati dovrebbe essere gestito da mediatori giuridici, non necessariamente facenti parte dell’apparato statale. Sia chiaro, anche lo Stato potrebbe decidere in merito alla disputa fra privati. Ma forse, liberalizzando la giustizia civile, si eviterebbe l’attuale ingolfamento dei Tribunali.

Lo Stato dovrebbe avere rappresentanza, mediante magistrati propri, solo in sede amministrativa (nei contenziosi fra pubblico e privato) e in sede penale (al momento della violazione delle relative norme). In entrambi questi casi, la sfera pubblica persegue interessi diretti ed è motivata a farlo. Ma nei contenziosi fra privati, dove l’interesse pubblico spesso non è in gioco, il pubblico interviene senza alcuna motivazione. Ed ecco che i processi possono durare un’eternità. Ecco che le udienze possono essere rinviate di mesi. Ecco che i giudici possono godere di ferie spropositate rispetto ad altri funzionari pubblici.

A nostro avviso, per far sì che uno Stato divenga più efficiente, c’è bisogno di cambiare paradigma. Passare, cioè, dalla “ricerca di imparzialità” (che sovente coincide con “inerzia”) alla “ricerca di motivazione e interesse”. Fare in modo che ogni parte coinvolta si metta nei panni delle altre, scrivendo le regole necessarie al perseguimento degli interessi altrui e non dei propri. Perché nessuno può essere imparziale, mentre scrive le regole per se stesso. Solo rendendo interessati i suoi membri, lo Stato può sperare di funzionare meglio. Agganciare i benefici dei funzionari pubblici ai risultati da loro conseguiti, per esempio, potrebbe spronare i funzionari stessi ad impegnarsi di più. E la macchina dello Stato a muoversi più velocemente. Ma finché i controllori non pagheranno, finché continueranno a suonarsela e cantarsela a modo loro, dimentichiamoci pure una legge uguale per tutti.

Vostro affezionatissimo PennaNera