Autostrade e concessioni: l’eterno braccio di ferro tra pubblico e privato

Ave Socii

Perché uno Stato sia forte, settore pubblico e settore privato dovrebbero pervenire, se non ad una vera e propria alleanza, perlomeno ad una collaborazione costruttiva. La vicenda delle concessioni autostradali ci dimostra che spesso non è così. Avendo interessi spesso contrastanti, pubblico e privato procedono ognuno per conto proprio. Talvolta lungo direzioni diametralmente opposte.

La sfera di interessi del pubblico è fondata sul perseguimento dei diritti costituzionalmente rilevanti. La sfera di interessi del privato si basa, invece, sul criterio della massimizzazione del profitto. Il ruolo della politica, in questa “disputa”, dovrebbe essere quello di sintetizzare tutti gli interessi in gioco. E sintetizzarli, possibilmente, in tempi ragionevoli.

I continui rinvii in tema di autostrade hanno portato alla situazione che stiamo osservando ormai da giorni. Viadotti intasati, ponti costruiti e non ancora collaudati, caos sul tema delle concessioni… Evidente che le maggiori responsabilità siano della politica o, meglio, dell’assenza di politica. Il governo, più che decidere, preferisce rinviare su qualsiasi argomento. E questi sono i risultati…

Un tempo si sarebbe potuta addurre la motivazione che la colpa dei ritardi fosse “della Lega”… Peccato che ora il governo sia costituito da Cinque Stelle e Pd. E che il Ministero delle Infrastrutture, negli ultimi due anni, sia stato nelle mani prima dei Cinque Stelle, ora del Pd. Il continuo scaricabarile delle responsabilità evidenzia ancor più, qualora ce ne fosse bisogno, la necessità di una classe dirigente in grado di “decidere”.

Alcuni pensano che “liberalizzare tutto quel che si può” sia la soluzione più adeguata ed efficiente. Altri, invece, pensano che la soluzione sia accentrare interi settori dell’economia sotto il controllo statale. In realtà la linea più condivisibile, come già ricordato, potrebbe essere la collaborazione fra pubblico e privato. Una sintesi che tenga in debito conto gli interessi, egualmente rilevanti, di entrambe le parti. Nel caso delle autostrade, ad esempio, darle in concessione a chi garantisce manutenzioni adeguate a fronte di pedaggi contenuti e penali non troppo onerose.

Certo, molte volte trovare il giusto compromesso è più facile a dirsi che a farsi. Ma proprio questo dovrebbe essere il compito della politica: sintetizzare gli interessi in gioco. Non rinviare, ma decidere. Anche a costo di prendersi delle responsabilità.

Vostro affezionatissimo PennaNera

Magistrati intercettati, democrazia mutilata

Ave Socii

“Salvini ha ragione, ma va attaccato”… Da queste poche parole, intercettate dal telefono di un magistrato, si comprende che la magistratura (o almeno, una parte di essa) non è poi così staccata dalla politica (o almeno, dalla parte sinistra di essa). E che il potere giudiziario non è poi così indipendente dagli altri poteri e viceversa. Evidentemente c’è qualcosa nel sistema che non funziona. E non da oggi, in realtà. Infatti è da più di venti anni, in Italia, che una certa parte di magistrati è solita muovere attacchi soprattutto verso il ramo destro del Parlamento.

Attaccare le politiche migratorie di Salvini e della Lega è, da diverso tempo ormai, lo sport preferito della sinistra. Prima, del Pd e dei partiti più a sinistra; ora, addirittura, pure dei Cinque Stelle (che sui migranti, almeno fino alla nascita dell’attuale governo, sembravano schierarsi con la Lega). Tuttavia il tema risulta alquanto spinoso. Chi si schiera dalla parte degli immigrati risulta piuttosto impopolare in questi tempi. Se però a schierarsi apertamente fossero dei magistrati, finora considerati “buoni, onesti e al di sopra delle parti”, allora qualche speranza di “acquisire popolarità” potrebbe pure sorgere.

Questo discorso può valere, tuttavia, solo finché i magistrati sono considerati “buoni onesti e imparziali”. Dalle recenti intercettazioni, invece, viene fuori uno spaccato della magistratura tutt’altro che positivo. Molti magistrati, dichiaratamente “di sinistra”, hanno apertamente sostenuto le idee del Pd non “secondo giustizia”, ma “secondo appartenenza politica”. Che vi fosse pericolo di una “deriva giustizialista”, di un “golpe giudiziario”, è affermazione tanto forte quanto probabile. E il fatto che nelle intercettazioni compaiano esclusivamente magistrati di idee sinistrorse e personaggi di sinistra, non fa che corroborare tale tesi.

Ultimamente, poiché sostiene idee piuttosto fuori dal mondo, la sinistra intercetta un elettorato alquanto magro. Acquisire popolarità entrerebbe di diritto fra i suoi interessi. E a quanto pare, pur di acquisire popolarità, non si badava nemmeno alla separazione dei poteri, calpestando deliberatamente i dettami della Costituzione. Non riuscendo a sconfiggere l’avversario nelle urne, la sinistra ha pensato bene di schierare dalla propria parte un manipolo di magistrati compiacenti. Sperando così di riuscire nel suo intento di governare l’Italia, stravolgendo ogni principio democratico. Questa è la cruda realtà. Realtà radicata in Italia già da diversi decenni, purtroppo. Speriamo che queste ultime vicende convincano tutte le forze politiche (specialmente quelle “con le mani in pasta”) del bisogno urgente di una seria riforma del sistema. A cominciare proprio dalla giustizia.

Vostro affezionatissimo PennaNera

Ripartenza fra tentativi di “normalità” e timori di nuovi contagi

Ave Socii

In tempi di coronavirus, persino sospendere alcuni diritti fondamentali è stato un attimo. Ovviamente in nome di un diritto al momento prevalente, come la tutela della salute. Molti si interrogano, e forse non hanno tutti i torti, se questa “privazione delle libertà” sia legittima. O se, al contrario, vi siano gli estremi per una violazione della Costituzione o, addirittura, le avvisaglie di una dittatura. E il governo accusato di prendere provvedimenti da regime, ironia della sorte, è lo stesso che diversi mesi fa nacque con l’intento di “evitare pericolose derive autoritarie”…

Detto questo, chiudere tutto è stato semplicissimo. Sarà altrettanto semplice riaprire? Certamente no. La ripartenza non è mai cosa semplice. Bisogna mantenere una visione a lungo termine del problema, evitare di procedere a tentoni, scegliere con ragionevolezza i criteri su cui basare la ripartenza stessa. In questa fase bisogna lasciare ampio margine di discrezione alle Regioni, o addirittura ai Comuni. Le decisioni prese a livello centrale, infatti, spesso non tengono conto delle esigenze dei singoli territori.

Ci sembra fuori dal mondo, ad esempio, costringere al blocco un Comune senza contagi da settimane, semplicemente perché la grande città capoluogo ha ancora almeno un caso di contagio. Far riprendere almeno la vita interna di quel Comune, controllando che nessuno vi entri o vi esca indiscriminatamente, ci pare un tantino più sensato. La ripartenza senza il coinvolgimento dei territori è impensabile e insostenibile, specie in un Paese vessato dalla burocrazia come il nostro.

Riaprire su base comunale, ancor prima che regionale, permetterebbe anche un più efficiente controllo dei contagi. I Comuni senza contagi da settimane non dovrebbero correre rischi se “lasciati liberi”. In caso di “imprevisti”, sarebbe comunque molto più facile circoscrivere il territorio di un piccolo Comune rispetto a quello di un’intera Regione. Per i Comuni più grandi, invece, si potrebbe riaprire sulla base di quartieri o municipalità. E’ evidente come la ripartenza sia un lavoro certosino. Non esauribile di certo con un provvedimento governativo. In realtà, già l’aver affidato al solo governo la chiusura dell’Italia (praticamente senza alcun passaggio parlamentare) si è rivelato piuttosto infelice…

In tutto ciò, dobbiamo tener conto anche dell’Europa. Non si sa, a dire il vero, se come ausilio o come intralcio. La ripartenza, secondo alcuni, non può non transitare per gli “aiuti europei”… Secondo altri, l’Europa finora ha solo perso tempo prezioso contribuendo ad aggravare la situazione… Per alcuni, bisogna attendere fiduciosi che l’Europa ci aiuti… Come se avessimo ancora del tempo da attendere, dopo circa tre mesi di emergenza… Per altri, la priorità è ridurre la burocrazia… Come se i governi, anche in passato, non avessero mai avuto questa “priorità”… Sappiamo cosa ne è stato di quelle belle parole, purtroppo…

L’auspicio è che la ripartenza venga gestita tenendo conto soprattutto delle istanze dei territori e delle categorie maggiormente in difficoltà. E che non si spacci per “prudenza” quel che spesso è solo inerzia o continuo rinvio. Nessuno pensi che si possa attendere ancora e “ripartire tutti insieme”. L’economia non aspetta. E l’Italia, con tutte le precauzioni, non vede l’ora di rimettersi in movimento.

Vostro affezionatissimo PennaNera

Tradizione e fede nella nuova Costituzione russa

Ave Socii

La riforma costituzionale avviata in Russia prevede l’introduzione dei valori della tradizione e della fede cristiana nella sua carta fondamentale. Una bella lezione per tutti quei Paesi che si professano “occidentali”. Una sfida, d’altra parte, al mondo globalizzato e al progresso laico che contraddistingue i Paesi più sviluppati.

Questo dovrebbe farci riflettere su quali siano i valori su cui una Nazione dovrebbe fondarsi. Secondo il mantra cosmopolita e globalista, esistono dei “valori universali” da applicare a tutti i popoli ugualmente e indistintamente. La globalizzazione, lungi dall’essere un sistema di pensiero applicabile alla sola sfera economica, diviene così un vero e proprio credo da applicare anche ai valori e alla tradizione.

Perché la globalizzazione può funzionare bene in economia, ma non altrettanto bene per i sistemi di valori? Perché esiste la cultura. Alcuni pensano che la cultura sia ciò che unisce gli uomini… Hanno ragione, ma dimenticano una parte della definizione. La cultura, infatti, è ciò che unisce i simili ma anche ciò che differenzia i dissimili. Se i teoremi del benessere economico possono valere per qualsiasi collettività umana, non altrettanto può dirsi per le culture. In questo caso, infatti, le collettività umane possono seguire criteri etici e valori diversissimi le une dalle altre.

Applicare valori supposti “universali” ad ogni cultura è, evidentemente, una non trascurabile forzatura. Questo è il limite della globalizzazione in senso lato. I supposti “valori universali” dovrebbero fungere da elementi costitutivi di una ipotetica “cultura universale”, cioè valida per tutti. Il che nega la definizione stessa di cultura come fattore che distingue tra loro le collettività umane. E’ bene, dunque, che il pensiero globalista rimanga confinato all’interno della sfera economica e non sfoci nell’ambito dei valori e delle culture.

La sfida russa alla voracità globalista procede proprio nella direzione di una riaffermazione dell’importanza della cultura all’interno delle collettività umane. Una Nazione non può dirsi davvero tale, se non si basa su valori condivisi dal proprio popolo e distinti rispetto ai valori di un altro popolo. La tradizione che unisce i membri di una collettività è uno straordinario collante per ogni Nazione. La fede individualista professata dal credo globalista, invece, va esattamente nel verso opposto: ossia lo smantellamento delle identità nazionali e l’indebolimento delle identità personali. Perché i valori etici, la tradizione, i principi religiosi, la fede, la cultura sono elementi che fondano e modellano le personalità di ciascuno di noi.

Di tutt’altro segno la scelta che tempo addietro prese l’Europa, di non inserire all’interno dei suoi Trattati un riferimento alle radici cristiane e di non dotarsi di una Costituzione unitaria. Risultato? Un insieme incoerente di Stati che procedono ognuno per conto proprio sulla maggior parte delle questioni da affrontare. In un mondo che solo ora inizia a scorgere i limiti della globalizzazione selvaggia, forse l’esempio della Russia potrebbe essere utile a tutti. Persino all’Europa.

Vostro affezionatissimo PennaNera

Laicità dello Stato e cultura cristiana

Ave Socii

Sovente il progresso di una società è accostato al principio di laicità dello Stato. Nella nostra cultura, un tale principio è declinato nella celebre formula “libera Chiesa in libero Stato”. Una formula che afferma l’esistenza di due realtà distinte, quella spirituale e quella temporale, aventi pari dignità di essere al mondo. Nessuna delle due, pertanto, dovrebbe piegarsi per cedere più spazio all’altra. Ciascuna delle due dovrebbe influenzare ambiti differenti e non sovrapponibili della cultura umana. Ciascuna delle due dovrebbe rappresentare un arricchimento, per ogni singolo e per la società tutta.

Quanto detto finora, tuttavia, non contrasta col fatto che uno Stato possa difendere e promuovere le tradizioni culturali e religiose del proprio popolo. Per un semplice motivo: non può esistere al mondo un solo popolo senza religione. Tempo addietro, l’Unione Sovietica provò a costruire un sistema basato sull’assenza di qualsiasi riferimento religioso… Sappiamo com’è andata a finire. La laicità è ben altra cosa dall’ateismo. La religione è un fatto culturale e pertanto non può essere negata, nemmeno dallo Stato più autoritario. Se uno Stato può essere laico, di certo un popolo non può esserlo. È pertanto auspicabile che ogni Stato, pur rimanendo fedele al principio di laicità, tuteli la religione caratteristica del proprio popolo. Come si può pretendere che una cultura rispetti la religione e i simboli altrui, quando non riesce a rispettare nemmeno la religione e i simboli propri?

Uno Stato è laico nel momento in cui aggiunge qualcosa, non quando toglie qualcosa alla sua storia. Togliere i crocifissi dalle aule scolastiche rende uno Stato più debole, non più forte. Perché toglie un simbolo che rappresenta la storia di quel popolo. Un popolo non può essere culturalmente neutro, in ambito religioso come in vari altri ambiti. La scelta del neutro non è mai neutra, è sempre una delle tante scelte che genera conseguenze. Non c’è nulla di speciale nello scegliere di adottare la neutralità culturale. Neutri non si nasce, lo si diventa: non importa raggiungere il neutro, ma la via percorsa per raggiungerlo. E se quella via è diretta a togliere invece che aggiungere, il popolo è privato dei suoi riferimenti. Quel popolo non sarà più in grado di confrontarsi alla pari coi popoli di altre culture e, ben presto, finirà per soccombere sotto la sua procurata ignoranza culturale.

L’effetto generato dal percorso tra i riferimenti precedenti e la neutralità attuale non è l’affermazione della neutralità attuale, bensì la negazione dei riferimenti precedenti. Chi diventa neutro rischia di piegarsi a chi neutro non è o non vuole diventarlo. Prima o poi ogni vuoto, anche culturale, deve essere riempito. Il non neutro, infilandosi nel neutro, rischia di determinarne la distruzione. Esistono Stati che, lungi dall’essere laici, potrebbero approfittare della situazione per sottomettere Stati culturalmente indeboliti da una finta laicità. Gli Stati islamici, nei quali la laicità non è certo un tratto qualificante, potrebbero fare della sovrapposizione fra Stato e religione un punto di forza. Qualora ci riuscissero, con che coraggio potremmo poi affermare che il mondo vada ancora nella direzione del progresso?

E non basterà aprirsi alle novità portate da famiglie arcobaleno o immigrati di altre culture, per poter affermare il progresso. Forse nemmeno la “Famiglia di Nazareth” era così perfetta come ci è stata consegnata dalla tradizione… Forse Gesù era figlio di uno stupro, più che dello Spirito Santo… Forse avrà avuto pure dei fratelli… Forse lui e i suoi genitori non saranno stati così “senza macchia” come viene descritto… Ciò toglie forse la bellezza della fede e il modello, seppur ingigantito, che quella famiglia ha rappresentato nei secoli e tuttora continua a rappresentare? Perché oggi ci si dovrebbe quasi vergognare di sposarsi in chiesa? Il matrimonio, checché se ne dica, è un fatto che la sfera civile non può che mutuare dalla sfera religiosa. Allo stesso modo qualsiasi nucleo familiare, per quanto “diverso” dalla cosiddetta “famiglia tradizionale”, non può non fare riferimento alla “famiglia tradizionale” stessa.

Oggi va di moda sostenere battaglie per affermare principi come l’uguaglianza, il rispetto del diverso, l’apertura al prossimo. Ma che questi principi siano scritti nel Vangelo non si può dire, perché professarsi “cristiani” sembra più una vergogna che un vanto. Meglio definirsi “ricchi e atei”, così si è più credibili. Anche l’accoglienza è un principio prettamente evangelico, seppur trasposto anche da altre culture antiche. Oggi si pensa che debbano essere gli Stati a realizzare simili “opere di giustizia”… Magari con tanto di violazione di ordinamenti sovrani e lezioni di moralità ai “disumani”. A chi pretende di seguire il Vangelo, magari senza mai averlo letto, ricordiamo la mirabile lezione di laicità contenuta nel Vangelo stesso: a Cesare quel che è di Cesare, a Dio quel che è di Dio. Lo Stato non dovrebbe pretendere di seguire il Vangelo, quando non è capace nemmeno di seguire le leggi e la Costituzione.

Un popolo che adotta la neutralità è in pericolo, un popolo non può perdere da un giorno all’altro i propri riferimenti senza correre rischi, per giunta all’interno di una società complessa. Pensare di adottare la neutralità è come pensare di riacquistare la verginità perduta. Uno Stato con una identità culturale forte: questo è il vero progresso, secondo noi. Uno Stato che si mantenga separato dalla religione, ma capace di proteggere la sua cultura religiosa e le sue radici. Uno Stato che non prenda a modello quelle culture dove legge e religione vanno a braccetto. Uno Stato che sia fondato non sui principi scritti su un libro sacro, ma sui principi scritti sulla carta costituzionale. Uno Stato dove Cesare segua la Costituzione e dove il Vangelo sia lasciato alla libertà di chi vuol conoscere Dio. Questo è il progresso di cui andiamo orgogliosi.

Vostro affezionatissimo PennaNera

Autonomie locali, una questione di efficienza

Ave Socii

Chi fa da sé, fa per tre. Ogni realtà tende per natura all’autoregolazione, pur continuando a mantenere relazioni con l’esterno. Non perché una realtà si autoregola è costretta a rimanere isolata dal resto del mondo. E’ la teoria dei sistemi, a nostro parere applicabile persino alla questione delle autonomie locali. Promuovendo le autonomie non si vuole dividere l’Italia. Forse a volerla dividere saranno dei cretini sedicenti “anarchici” che si divertono a bloccare la circolazione ferroviaria… Non certo chi è a favore delle autonomie. In certi casi, anzi, l’autonomia è in grado di velocizzare i processi e rendere le singole realtà ancora più unite tra loro.

Chi paventa lo spettro di eventuali divisioni dell’Italia, magari ha in mente le antiche battaglie della Lega per “l’indipendenza della Padania”… Alcuni potrebbero addirittura percepire una sorta di “rigurgito secessionista” nella richiesta di autonomia da parte di alcune Regioni, guarda caso amministrate proprio da governatori vicini alla Lega… Ma l’autonomia non è l’indipendenza: si possono dare più poteri alle amministrazioni locali, senza per questo andare contro la Costituzione e contro “l’unità e indivisibilità” della Repubblica. Non è questione di Lega o non Lega, è una questione di buon senso.

Probabilmente qualcuno è ossessionato dalla Lega e dal consenso di cui al momento gode. Tant’è che non perde occasione per additarla come “nemica degli interessi dell’Italia”… O perché vorrebbe dividerla con le autonomie, o piuttosto perché riceverebbe “presunti finanziamenti” da un Paese straniero… Fra l’altro lo stesso Paese, ricordiamolo, che un tempo finanziava quel medesimo partito (o, se preferiamo, il suo più diretto erede) che ora più di ogni altro grida allo scandalo… Lo stesso partito che attualmente annovera pure uno dei suoi esponenti tra i membri del governo francese… Ma in questo caso non c’è scandalo, vero? Nessun tradimento degli interessi dell’Italia…

Le autonomie regionali sono un aiuto allo sviluppo dell’Italia. Un incentivo all’efficienza. Finché la ricchezza prodotta da alcune Regioni finisce nel calderone generale, le Regioni meno produttive sono ben poco motivate a fare di meglio… Tanto alla fine qualcosa rimedieranno comunque! Se invece ognuna facesse per conto proprio, con le risorse a propria disposizione, forse crescerebbe la motivazione a produrre in maniera più efficiente. Più autonomia, meno assistenzialismo.

La ricchezza prodotta da una Regione dovrebbe rimanere in quella stessa Regione. In questo modo, ciascuna Regione sarebbe motivata a ridurre gli sprechi e utilizzare efficientemente le proprie risorse. Al limite, solo una minima parte di quella ricchezza potrebbe essere versata in un “fondo comune di solidarietà”. In caso di necessità, le Regioni “più bisognose” potrebbero sempre attingervi, senza tuttavia rischiare di dipendere totalmente dagli aiuti altrui. Obbligare le Regioni a “condividere” tutta la ricchezza prodotta, fra l’altro, disincentiverebbe l’efficienza abbassando il livello di servizi offerti alla cittadinanza.

A livello europeo, possiamo individuare una questione di autonomie anche sul tema degli immigrati. In teoria, tutti gli Stati dicono che accogliere è un dovere morale che spetta a tutti quanti. All’atto pratico, invece, sembra che siano sempre alcuni a fare più degli altri. Gli Stati europei hanno avuto (e continuano ad avere) molteplici opportunità per dimostrare che “accogliere è un dovere morale”… Peccato che, a ridosso di ogni nuovo sbarco, quel dovere rimanga valido solo per l’Italia e pochi altri Stati. Allora, se in pratica ogni Stato fa da solo, tanto vale inviare meno soldi in Europa e reclamare più soldi per noi. Se davvero le autonomie sono un problema, forse lo sono nel contesto europeo assai più che in quello italiano. La differenza tra Stato e Stato, in Europa, è assai più ampia che quella tra Regione e Regione, in Italia.

La politica fiscale, in Europa, è demandata ai singoli Stati. Anche questo può essere visto come un esempio di autonomia. Esistono delle regole comuni cui ognuno deve attenersi, ma poi ogni singolo Stato deve fare i conti con la propria economia. L’Unione Europea è un crogiolo di Paesi tra loro diversissimi, con bisogni e risorse differenti. Ci sono Paesi che avrebbero maggiore bisogno di manovre espansive, ma spesso l’unico modo per finanziarle è attraverso nuovo debito. E chi ha già un debito elevato si trova in gabbia. L’autonomia, in questo caso, andrebbe forse ridimensionata. I debiti dei singoli Stati dovrebbero essere accomunati, almeno parzialmente. Ogni Paese dovrebbe condividere una parte del proprio debito con il resto dell’Europa, così da armonizzare i sistemi economici dell’Unione e permettere anche agli Stati più deboli di crescere.

La gestione comune, vediamo, prevede che tutti quanti contribuiscano. Così tuttavia c’è il rischio che a rimetterci siano, in realtà, quelli che si impegnano di più. Allora tanto vale impegnarsi il meno possibile, no? Crediamo che pagare per le mancanze altrui non faccia piacere a nessuno… Specie se quelle mancanze possono essere evitate. Ma tali mancanze debbono essere trattate in riferimento ai loro contesti. In Europa esistono differenze strutturali tra Stato e Stato, molto più che in Italia tra Regione e Regione. Un “fondo di solidarietà europeo”, o in alternativa un “debito comune europeo”, è persino auspicabile per mitigare le disparità generate dalle autonomie fiscali. Nel contesto dell’economia italiana, dove la differenza tra le Regioni è contenuta se confrontata con le disparità tra i Paesi dell’Eurozona, eventuali “fondi comuni” hanno invece un’importanza relativamente ridotta.

In conclusione, se nei grandi contesti si dovrebbe favorire la condivisione, per le realtà più piccole bisognerebbe invece dare spazio all’efficienza. Le piccole realtà sono il terreno fertile per sperimentare le autonomie. Un po’ come la divisione del lavoro e la concorrenza sono il terreno fertile per far crescere la ricchezza del popoli. Promuovere le autonomie vorrebbe anche dire favorire l’economia circolare: produrre ridimensionando gli scarti. Reimmettendoli nel processo produttivo, si utilizzerebbero efficientemente le risorse proprie evitando il ricorso alle risorse degli altri. Consentendo a tutti di produrre utilizzando a pieno regime le risorse proprie, la produzione totale viene massimizzata. Un governo delle risorse centralizzato, d’altro canto, tende a favorire gli sprechi a livello locale e risulta assolutamente inefficiente. Se la Costituzione stessa consente le autonomie, nel contesto di una Repubblica unica e indivisibile, forse qualche buona ragione c’è.

Vostro affezionatissimo PennaNera

Interessi e conflitti: risorse, non problemi

Ave Socii

Abbiamo scoperto l’acqua calda: l’onestà non è di casa nemmeno nella magistratura. Anche lì ognuno coltiva i propri interessi. E non succede da ieri, a dire il vero. Anche negli organi teoricamente più imparziali potrebbero in realtà avvenire manovre non propriamente disinteressate. Bisogna avere fiducia nella magistratura… Certo, bisogna avere fiducia, ma non più e non meno che in altri organi dello Stato. La magistratura, a nostro avviso, non ha nulla di così speciale da meritare tutta questa smisurata fiducia. Specie alla luce degli ultimi accadimenti.

Ormai, per recuperare un po’ di credibilità, i magistrati inizieranno a picchiare duro pure contro quei “campioni d’onestà” dei Cinque Stelle… Lo stanno già facendo contro il sindaco di Torino, ma non solo. Se colpisce anche la magistratura, allora è proprio vero che la disonestà è la cosa più democratica che esista. E pensare che un tempo sembravano così uniti, Cinque Stelle e magistratura, sotto la comune bandiera dell’onestà! Ma da quando il popolo, dopo le recenti elezioni, ha voltato le spalle al più credibile baluardo d’onestà nel nostro panorama politico, ai giudici è stata al momento preclusa ogni possibilità di eliminare giudiziariamente gli avversari politicamente ineliminabili. Anche i Cinque Stelle “hanno fallito”… Perciò, d’ora in poi, pure loro potranno essere indagati liberamente. Anche se forse proprio i Cinque Stelle, in tutta la loro storia, hanno collezionato più avvisi di garanzia in proporzione ad altri partiti. Ma questi sono dettagli…

Poi è esploso lo “scandalo magistratura” e abbiamo scoperto che la corruzione serpeggia pure fra i giudici… Eppure, secondo noi, non c’è ragione alcuna per sentirsi così scandalizzati. Siamo tutti esseri umani e, come tali, siamo tutti interessati. L’interesse e la motivazione spingono ogni nostra azione. Chi ha interessi comuni, poi, si riconosce sotto una medesima bandiera e tifa per la categoria rappresentata da quella bandiera. Vale per lo sport come per la politica, passando per i poteri di uno Stato democratico. La democrazia stessa promuove il perseguimento di interessi a partire da una pluralità di categorie, le quali si confrontano (ad esempio, attraverso libere elezioni) deliberando quali siano gli interessi al momento meritevoli di maggior tutela (quelli proposti, ad esempio, dal partito o dalla lista che ha ottenuto più voti).

I poteri statali, il giudiziario nello specifico, dovrebbero essere esercitati all’interno di ogni categoria sociale. Non dovrebbe esistere una categoria che da sola detenga lo scettro di un potere intero: risulterebbe eccessivamente potente nei confronti delle altre. Occorre depotenziarla, dunque. Dividere i poteri non basta, per annullare l’effetto delle correnti ed assicurarsi il raggiungimento dell’indipendenza e dell’imparzialità. I poteri vanno anche suddivisi fra le categorie esistenti: non mediante una “divisione dei poteri” tout court, ma attraverso una sorta di “diffusione dei poteri”. Nella realtà non possono esistere poteri “al di sopra delle parti”. Tutti i poteri presentano comunque le loro suddivisioni in categorie, siano esse correnti o partiti. Ed è bene che queste categorizzazioni vengano fuori, invece di alimentare loschi sotterfugi celati sotto la maschera dell’imparzialità. A nostro parere è inutile, persino dannoso, alimentare l’ipocrisia che alcuni poteri siano immuni dall’influenza delle categorie.

La questione non dovrebbe essere se le categorie possano o meno influenzare i poteri, ma piuttosto stabilire quali categorie possono influenzare i poteri e quali no. Detto in maniera diversa ma equivalente, quali interessi sono meritevoli di tutela e quali no. In questo senso, la Costituzione potrebbe fornire delle linee guida, impedendo da subito la nascita di determinate correnti. Se certe correnti sono anticostituzionali diciamolo dall’inizio. Impediamo che nascano dal principio. Non aspettiamo, per esempio, che avvengano certi episodi a Roma per poi etichettarli come “aggressioni squadriste”. Così sembra quasi che si abbia interesse a che determinate correnti vengano alla luce, per trasformarle in capro espiatorio in determinate situazioni. E’ indubbio che episodi del genere vadano condannati. Ma certe correnti non dovrebbero nascere per niente, se veramente promuovono interessi contrari alla Costituzione… Che pure qui ci siano sotto degli interessi, magari proprio la costruzione di un capro espiatorio?

Passare dal paradigma dell’imparzialità a quello del perseguimento di interessi. E’ questo il punto. Non scansiamo il problema, affrontiamolo. Gli interessi esistono, non si possono evitare. Sfruttiamo questa situazione, invece di biasimarla. Invece di alimentare le false speranze di una magistratura indipendente, proviamo a sfruttare le potenzialità di una magistratura interessata.

La società tutta è divisa in categorie, o correnti. Ciascuna di esse dovrebbe accogliere magistrati propri, motivati a promuovere gli interessi di quella determinata categoria. Ogni categoria è costituita da rappresentanti e rappresentati. I primi dovrebbero ottenere benefici in base ai risultati positivi che conseguono per la loro categoria. Migliori sono i risultati, maggiori sono le possibilità di salire al vertice (che, nel caso del potere giudiziario, dovrebbe essere costituito da un magistrato per ciascuna categoria, così da garantire l’equilibrio fra i vari interessi coinvolti). Si presume, infatti, che i migliori siano quelli in grado di difendere meglio gli interessi di categoria. Ma i rappresentanti si possono anche cambiare. Un numero qualificato di rappresentati può sostituire i rappresentanti “non graditi”, come accade per le elezioni politiche. Tale metodo democratico dovrebbe essere applicato anche ai magistrati.

Ognuno di noi sarebbe contento se prevalessero sempre le idee che condivide maggiormente. Noi stessi saremmo contenti qualora prevalessero sempre certe categorie e certe linee di pensiero. Tipo la linea “sovranista”, la linea del “prima gli italiani”. O la linea del contrasto alla criminalità, all’immigrazione incontrollata e al traffico di droga… Ma sappiamo che purtroppo non sarà per sempre così. Perché nel tempo gli interessi di una società cambiano. La scala dei bisogni di una Nazione può variare. La popolarità di una categoria non dura per sempre. Si chiama democrazia. E pure i magistrati, secondo noi, dovrebbero riflettere le aspettative e le richieste di un popolo, se ci troviamo all’interno di una democrazia. Nei limiti, ovviamente, delle possibilità accordate dalla Costituzione.

Come risolvere eventuali contenziosi tra le diverse categorie? Ad esempio, si potrebbe costituire un organo composto da tre giudici, due di parte e uno imparziale (estratto a sorte tra i non contendenti). In caso di irregolarità, pagherebbero i tre giudici. Se le irregolarità coinvolgessero il vertice, pagherebbero in solido le categorie rappresentate dai tre giudici nel collegio giudiziario. In caso i rappresentanti siano suddivisi in più organi, purché di pari livello, è opportuno che tali organi non legiferino per se stessi. Specie se sono due, è bene che l’uno disponga le regole per l’altro e viceversa. Come nel caso di Camera e Senato: ciascuno dei due rami del Parlamento dovrebbe stabilire le norme non già per sé medesimo, bensì per l’altro. Specie per quel che concerne i compensi dei suoi membri.

La riforma della giustizia è sicuramente materia difficoltosa per chiunque, soprattutto in Italia. Magari proprio a causa degli interessi che qualcheduno vorrebbe salvaguardare. Ma comunque venga impostata la riforma, crediamo che la stella polare da seguire debba essere questa: depotenziare determinate categorie, al momento strapotenti, per raggiungere un certo equilibrio fra gli interessi in gioco. Finché una sola categoria sarà al comando di un potere, i suoi interessi prevarranno senza possibilità di replica. Solo quando tutte le categorie saranno in grado di esprimere rappresentanti propri per ciascun potere, compreso quello giudiziario, potremo finalmente dire addio alla subdola tirannia di una casta.

Vostro affezionatissimo PennaNera

Tasse basse = lotta all’evasione + lotta alla corruzione

Ave Socii

Lo sappiamo fin troppo bene: siamo uno dei Paesi con la più elevata pressione fiscale al mondo. Sappiamo anche che le tasse dovrebbero servire per pagare i servizi offerti dallo Stato. E’ allora ragionevole aspettarsi, in uno Stato dove si tassano anche le ombre, un livello di servizi pubblici almeno decente. Nonostante ciò, molti di questi servizi languono. Ma di essi il cittadino ha pur sempre bisogno. Poi non lamentiamoci se, per ottenerli, qualcuno ricorre anche a pratiche non proprio “cristalline”. E non lamentiamoci se, di conseguenza, gli unici a fare affari nel nostro Paese sono quelli che sguazzano nell’illegalità.

Forse bisognerebbe semplificare il nostro apparato burocratico e fiscale. Complicare le cose non garantisce sempre i migliori risultati contro l’illegalità e la corruzione. Ridurre le tasse potrebbe portare un po’ di respiro al sistema. Ed applicare un’unica aliquota, forse, semplificherebbe non poco la vita a famiglie e imprese. Secondo noi, tassa piatta e lotta alla corruzione viaggiano sullo stesso binario. Se la criminalità continua ad avvolgerci coi suoi tentacoli, forse il “merito” è pure dell’elevato livello di tasse che bisogna pagare. E che molti magari non pagano neppure, privando lo Stato di importanti risorse. Bisognerebbe attuare un vero e proprio “shock fiscale”, come ha fatto Trump negli Stati Uniti. Nello stesso tempo, ridurre il numero di aliquote porterebbe ad una semplificazione dell’intero sistema. Semplificazione massima, nel caso l’aliquota fosse unica.

Secondo alcuni, il modello della “flat tax” contrasterebbe con la Costituzione in quanto non informato a “criteri di proporzionalità”. Noi, tuttavia, non vediamo tutta questa incompatibilità con i dettami della Carta. Prevedere una “no tax area” (in pratica, aliquota 0%) per i redditi più bassi e uno scaglione unico (20% ad esempio) per tutti gli altri, non è forse un caso particolare di tassazione informata a criteri di proporzionalità? Se così non va bene, si potrebbe perlomeno ridurre il numero di scaglioni di reddito. E, contemporaneamente, mantenere una “no tax area” comunque meno ampia rispetto agli altri scaglioni. In questo modo si disincentiverebbero persone e imprese a dichiarare redditi minori, o addirittura inferiori al minimo tassabile.

La lotta all’evasione, fra l’altro, oltre che incentivando famiglie e imprese a pagare, si attua anche disincentivandole a non pagare. Ad esempio, tramite un inasprimento delle pene per evasori ed elusori. Così ognuno, facendosi due conti, in generale sarebbe portato a pagare il dovuto senza nascondere nulla al fisco. Gran parte del nero e del sommerso emergerebbe, colpendo più o meno indirettamente anche chi si arricchisce con gli affari illeciti. Forse colpirebbe perfino la criminalità organizzata. E lo Stato diventerebbe più forte, avendo più risorse a disposizione per implementare maggiori servizi ai cittadini e di miglior qualità. Guardate gli Stati Uniti di Trump… Ci hanno forse rimesso qualcosa dalla riduzione fiscale? L’economia americana non è mai andata così bene negli ultimi 50 anni… Questi sono i fatti. Il resto è chiacchiera.

Diminuendo le tasse e consentendo a tutti di pagare in base alla propria capacità contributiva, forse si ridurrebbero anche i casi di corruzione. In quanto sarebbe più facile ottenere legalmente quello che oggi alcuni cercano di ottenere illegalmente, sotto banco, corrompendo. Mantenendo tasse elevate, infatti, lo Stato riceve meno risorse di quelle che pensa di ricevere. E offre meno servizi di quelli che pensa di offrire. E dove non arriva lo Stato, arriva l’illegalità. L’illegalità conquista aree sempre più vaste, poiché lo Stato riesce a tutelarle sempre meno. E la criminalità organizzata continua ad arricchirsi, a fronte di uno Stato sempre più povero e debole. Per questo diminuire le tasse e semplificare il sistema della tassazione sarebbe un bene. E sarebbe un bene per tutti.

La riforma fiscale proposta dalla Lega (o meglio, da tutto il centrodestra) dovrebbe essere presa in considerazione da ciascun esponente dell’arco parlamentare. Significherebbe non solo dare respiro alla nostra economia, ma anche mandare un segnale forte contro la criminalità organizzata. Lo Stato dovrebbe essere l’unico a realizzare servizi pubblici. Ricorrere a pratiche illegali, o persino criminali, non dovrebbe essere la norma. Chi ricorre a tali pratiche dovrebbe essere punito con la massima severità. Ma ciò può esser fatto solo da uno Stato forte, cioè in grado di incentivare al massimo i suoi cittadini alla legalità. E la legalità si raggiunge anche attraverso un’ottimizzazione del sistema fiscale. Non in modo meramente moralistico, ma con provvedimenti reali e concreti. Non incrementando le tasse fingendo di sperare che tutti le paghino, piuttosto incentivando tutti a pagare anche riducendo le tasse. Perché i servizi e i diritti valgono per tutti i cittadini. E costano.

Da molte parti, proprio nei confronti della Lega, piovono critiche per presunti contatti con alcuni esponenti legati alla criminalità. In realtà più dal Pd che dai Cinque Stelle, ultimamente: forse i pentastellati, soprattutto dopo le ultime elezioni, hanno capito che maneggiare la spada dell’onestà non è poi così agevole. Specie se prima appoggi la candidatura al Ministero dell’Economia di un soggetto che ha patteggiato una condanna per bancarotta… E dopo, in campagna elettorale, fai lo scandalizzato perché proprio su di lui sono uscite delle intercettazioni “compromettenti”. Specie se poi nelle tue stesse fila risultano persone indagate per reati vari. Ovviamente anche il Pd dovrebbe pensare ai suoi indagati. A quelli legati alle vicende della Sanità in Umbria, per esempio… A quelli coinvolti nel “caso magistratura”… Certi ancora insistono a ricordare i 50 milioni di fondi non rimborsati dalla Lega… Però dei vecchi 150 milioni del Pd non parla più nessuno!

Strano che, soprattutto da sinistra, la “flat tax” sia osteggiata perché “fa pagare meno ai ricchi e più ai poveri”… Quando ultimamente, in Italia, proprio i governi di sinistra hanno favorito i ceti medio-alti più di quanto abbiano favorito quelli bassi. Ridurre le tasse, in questo momento, vorrebbe dire promuovere anche un minimo di giustizia sociale. Soprattutto a favore dei più bisognosi. Il marcio sta dappertutto, non esiste un partito dell’onestà e mai esisterà. Le politiche a favore dei poveri invece… quelle sì che ci aspetteremmo di trovarle da una certa parte! Storicamente la sinistra nasce come espressione dei bisogni delle classi meno agiate. Da tempo, tuttavia, pare che abbia preso l’abitudine di strizzare l’occhio al grande capitale. Poi non stupiamoci se oggi i grandi centri e i “quartieri bene” votano a sinistra, mentre le periferie votano a destra.

Quando votavano a sinistra, i ceti bassi erano considerati “poveri”. Ora che invece votano a destra, li si considera “primitivi” perché voltano le spalle al “progresso”. Ma i loro voti di certo non puzzano. E per riconquistarli si è disposti perfino a cambiare di nuovo maschera. Dicendo, ad esempio, che la tassa piatta favorirà i più ricchi… Son tutti bravi a pontificare, finché si sta all’opposizione del sistema!

Vostro affezionatissimo PennaNera

 

Morte e vita. Il diritto e la pena

Ave Socii

La vicenda della ragazzina olandese che ha deciso di darsi la morte, perché provata dal male di vivere, ha riacceso il dibattito sull’eutanasia. Chi si professa “progressista” crede che il progresso passi anche per la “buona morte”. Certo, consentirla a delle ragazzine minorenni forse non è il massimo. Anche l’Olanda, in realtà, ha norme piuttosto stringenti su questo tema.

Decidere di morire, perché si è stanchi di vivere… Se la “buona morte” ha un qualche senso, crediamo debba limitarsi ai soli casi di malattie terminali e malattie per le quali non esiste alternativa diversa dall’accanimento terapeutico. Di certo non dovrebbe servire per curare casi di depressione. Così l’aborto, se ha un qualche senso, dovrebbe limitarsi ai soli casi di rapporti sessuali non consenzienti. E ai casi di malattie gravi dell’embrione. E dovrebbe essere praticato, comunque, entro tempi non troppo lunghi dalla fecondazione.

Forse stiamo perdendo il “senso della vita”, presi come siamo dal “senso della morte”. Preferiamo tutelare chi sceglie di morire, invece di supportare chi vorrebbe scegliere di vivere. I fascio-buonisti, dall’alto del loro senso di progresso, premono per una regolamentazione delle “pratiche di morte”. Se per loro il concetto di vita è così relativo, allora per quale motivo non sono altrettanto pressanti in tema di pena di morte per i criminali? Va bene battersi per il diritto a una vita dignitosa. Però, a questo punto, non dimentichiamoci della dignità di vivere. E di chi, forse, per quel che ha combinato non merita una tale dignità.

Speriamo che mai nessuno debba morire per mano d’uomo, ci mancherebbe. Però, se proprio qualcuno deve perdere la vita in questo modo, preferiamo siano i colpevoli e non gli innocenti. Pensate che strani che siamo! I “politicamente corretti” cosa dicono, invece? Pena di morte per i criminali no, aborto e eutanasia sì… Saremo noi fuori dal mondo, ma questo ci pare un po’ un controsenso. Perché se un privato sceglie di morire va tutto bene… e se invece è lo Stato a decidere che uno deve morire, perché ha violato determinate leggi, ripiombiamo nel buio Medioevo?

E così, in nome del progresso, dobbiamo liberalizzare anche la morte… Così comanda la “retta dottrina” dei fascio-buonisti. Noi abbiamo un’idea di progresso diversa. Per noi una società è progredita se ognuno dei suoi membri si assume le responsabilità di ciò che fa. Chi nega il diritto alla vita di una persona, dovrebbe sapere che di quel medesimo diritto può anche essere privato. Non da un altro individuo, sia chiaro, ma dallo Stato. Anche gli aborti e i suicidi assistiti sono negazioni della vita. Per “giusti motivi”, ci mancherebbe… ma anche lo Stato può avere “giusti motivi” per privare qualcuno della vita, non solo i singoli. L’intervento dello Stato, anzi, potrebbe pure distogliere gli individui dal desiderio di farsi giustizia da sé, prevenendo il sorgere di eventuali faide e contribuendo ad abbassare il livello di tensione sociale. Lo Stato dovrebbe essere l’unico legittimato a compiere simili atti “di giustizia straordinaria”.

Noi vorremmo uno Stato in cui le pene siano certe e servano alla “rieducazione del condannato”, come raccomanda anche la Costituzione. Rieducazione finalizzata al reinserimento del reo nel tessuto sociale. In questo senso, l’ergastolo è forse la pena più inutile che esista… Fine pena mai, nessuna possibilità di ritorno alla vita sociale, quindi nessuna finalità rieducativa… Un posto in galera occupato a vita da un tizio che, nella maggioranza dei casi, trascorre i suoi giorni a meditare una strategia di fuga oppure il suicidio (che poi non è altro che una particolare strategia di fuga)… Ergastolo spesso commutato in altra misura perché magari il condannato ha dato di matto, oppure per “buona condotta”… Alla faccia della certezza della pena… E il tutto a spese dello Stato.

La Costituzione stessa, nella sua prima formulazione, prevedeva la pena di morte in casi eccezionali. Un tempo perfino la Chiesa condannava a morte i suoi colpevoli. Formalmente, lo Stato Pontificio ha abolito la pena di morte solo nel 2001. In realtà, tuttavia, le ultime condanne risalgono a circa due secoli fa. Ora la Chiesa, coerentemente, condanna espressamente qualsiasi forma di “negazione della vita”, che sia aborto o pena di morte o eutanasia. D’altro canto, uno Stato che ha tempo di interrogarsi sull’introduzione della “buona morte”, secondo noi, dovrebbe interrogarsi anche sull’introduzione della “pena di morte”. Sembrano ora riecheggiare a nostro sfavore le parole dell’illuminista Beccaria: perché lo Stato dovrebbe prevedere la morte come pena, quando la condanna come reato?

Eppure il nostro ordinamento non può non prevedere fattispecie di reati riguardanti, in un modo o nell’altro, il concetto di “morte”. Tutti noi saremmo contenti se non vi fossero omicidi, ma evidentemente la realtà dei fatti è un po’ diversa. Qualcuno potrebbe dunque obiettare a Beccaria: perché la morte può comunque esistere come reato, all’interno di uno Stato che la aborrisce addirittura come pena? Le considerazioni di Beccaria sulla pena di morte, perciò, dovrebbero essere ribaltate: se è sbagliato aborrire la morte solo come reato e prevederla comunque come pena, perché dovrebbe essere giusto aborrirla solo come pena e prevederla comunque come reato?

Siamo dell’idea che uno Stato davvero progredito debba prevedere la pena di morte per reati particolarmente efferati, che violano gravemente specifici diritti di rilevanza costituzionale. Vogliamo incominciare a ristabilire un po’ di certezza della pena? Ebbene, pena più certa di questa non esiste davvero. Chi nega la vita altrui dovrebbe sapere che può incorrere nel medesimo trattamento. Però non vogliamo la legge del taglione. Crediamo sia comunque opportuno dare un “tempo di recupero” al reo, per consentire la sua responsabilizzazione e “rieducazione”. Qualora poi il reo non sfruttasse adeguatamente questa possibilità, lo Stato potrebbe sempre prendere i dovuti provvedimenti. Fossimo noi lo Stato, arrivati a questo punto preferiremmo senza dubbio giustiziare il colpevole piuttosto che rischiare, per causa sua, di piangere altri innocenti.

Probabilmente non tutti condivideranno le nostre posizioni, i temi qui affrontati sono particolarmente delicati. Ma noi siamo per la cultura libera e per la libera espressione del pensiero. Neanche noi condividiamo le posizioni di alcuni, in merito a questi argomenti. Tuttavia le rispettiamo e auspichiamo un confronto costruttivo nel rispetto reciproco. Speriamo che pure il dibattito politico trovi al più presto una sintesi positiva e coerente fra le varie istanze.

Vostro affezionatissimo PennaNera

I figli sono sempre di chi li accudisce

Ave Socii

Per fare in modo che si realizzi quella che alcuni denominano “libertà”, assistiamo a un continuo tentativo di separazione fra sfera naturale e sfera culturale. Invece di armonizzarle, alcuni vorrebbero cercare di farle venire in contrasto. In nome dell’abbattimento di quelli che loro chiamano “pregiudizi”. Come nel caso della genitorialità e dell’affidamento dei figli. Siamo tutti d’accordo sul fatto che i bambini siano sempre figli di chi li accudisce. Ma a volte e bene ricordarsi anche di chi li fa. L’accudimento dei figli è, in prima battuta, un dovere che spetta alla famiglia biologica che li ha procreati. La legge, in verità, dovrebbe perfino premiare chi si dedica in via esclusiva all’accudimento dei figli, rinunciando ad altri lavori.

Osserviamo il rapporto esistente tra procreazione e accudimento in una qualsiasi famiglia. Nella realtà di tutti i giorni, normalmente genitore biologico e genitore legittimo coincidono. E così dovrebbe presumere anche la legge. Però a volte il genitore legittimo può trovarsi fuori dalla cerchia dei genitori biologici. La legge, quindi, dovrebbe prevedere questa eventualità come eccezione alla regola generale (la corrispondenza fra genitorialità biologica e legittima). Per noi è così che dovrebbe esprimersi il concetto di “famiglia naturale” scritto in Costituzione. In generale, si presume valido l’ordine predisposto dalla natura: accudisce chi procrea. In via eccezionale, se ciò non è possibile, si guarda all’intorno sociale in modo da ricostituire un ordine il più possibile vicino a quello naturale.

In caso di affidamento, i nuclei con all’interno almeno un componente dell’originaria famiglia biologica dovrebbero essere preferiti agli altri. In mancanza, si dovrebbe passare ai nuclei con all’interno almeno un parente o affine di un genitore biologico (entro, ovviamente, un certo grado di parentela). In mancanza anche di questa possibilità, ci si può rivolgere agli altri nuclei familiari. Dato che una famiglia biologica è sempre composta da due genitori, dal punto di vista della “dimensione familiare” la priorità andrebbe data ai nuclei composti da due persone. Solo in via residuale si potrebbe optare per le famiglie “unipersonali”. Il tutto dovrebbe avvenire in ossequio al principio di conservazione della corrispondenza fra genitorialità biologica e legittima.

Tale ricerca di continuità fra natura e diritto risponde in realtà ad un principio ancor più alto, quello dell’interesse superiore del bambino. Principio che, come è facile intuire, va tutelato prioritariamente e non può essere scavalcato dall’interesse di un nucleo familiare qualsiasi. In base all’interesse del bambino, è dunque opportuno e auspicabile che si attui una vera e propria discriminazione tra le famiglie, prediligendo quelle biologicamente più vicine al neonato. Questa ci sembra la migliore sintesi, operabile dalla legge, in grado di tenere adeguatamente in conto sia gli aspetti naturali che quelli socio-educativi del rapporto fra genitori e figli.

Nessuno vieta che possano subentrare anche nuclei familiari costituiti da persone omosessuali. Specie se uno dei componenti di tali nuclei è genitore biologico del bambino. Tuttavia un tale nucleo dovrebbe essere posposto nel diritto all’affidamento, nel caso in cui l’altro genitore biologico faccia parte di un nucleo familiare eterosessuale. In tal caso, sarebbe quest’ultimo nucleo ad essere preferito nell’affidamento. Perché non si può non tener conto del modello della “famiglia naturale”, che molti vorrebbero circondare di interpretazioni che, a nostro parere, rasentano quasi lo stravolgimento. Che piaccia o no, le famiglie non sono tutte uguali, in particolare se viste dal punto di vista dei figli.

La natura prevede che ognuno di noi nasca dall’incontro fra un maschio e una femmina della specie umana. E’ probabile che anche il nascituro abbia sviluppato un metodo innato di riconoscimento dei due diversi genitori. Chissà cosa succede a quei figli affidati a genitori dello stesso sesso. Crescono senza problemi, oppure sviluppano complessi psicologici dovuti alla incoerenza fra natura e cultura? Al momento nessuno può dirlo, magari ancora non esistono studi in merito. Forse però l’uomo non nasce come tabula rasa, come vorrebbero alcuni. Forse l’uomo ha in sé anche un’innata tendenza ad affidarsi a una famiglia “naturale”. Se questo significa avere pregiudizi, allora tutti noi nasciamo con carne ossa e pregiudizi. E allora pure nella Costituzione c’è spazio per i pregiudizi.

Ognuno, chi più chi meno, può limare quanto vuole tutti i pregiudizi che vuole. Che riesca a liberarsene completamente, come vorrebbero i fascio-buonisti, è cosa ben più difficile se non impossibile. Forse costoro intendono, ben più realisticamente, far sentire in colpa quelli che hanno i pregiudizi che a loro danno fastidio. Perché anche i fascio-buonisti, sotto sotto, qualche pregiudizio verso chi la pensa diversamente ce l’hanno. Tuttavia una cosa è certa: chi sostiene l’approvazione di leggi che equiparino tutte le unioni alla “famiglia naturale”, o che riconoscano un “genitore 1” e un “genitore 2” al posto del “padre” e della “madre”, potrà forse ottenere il beneplacito di mille e uno Parlamenti… ma non otterrà mai il beneplacito della natura.

Vostro affezionatissimo PennaNera