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Il diario intimo della Donna Camèl con l'accento sulla èl
 

 

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L'occhio del coniglio 01. La bussola segnava centoottanta

Post n°667 pubblicato il 06 Gennaio 2013 da LaDonnaCamel
 
Foto di LaDonnaCamel

Come avevo anticipato e argomentato qui, oggi inizio la pubblicazione di un progetto più ampio che ho scritto negli ultimi anni. Questo progetto qualcuno lo chiama romanzo. I capitoli avranno cadenza settimanale ma anche no, a seconda di come mi gira.

Se vuoi leggere e commentare sono contenta.


L’OCCHIO DEL CONIGLIO

 

Tenga duro, signorina.
R. Queneau

 

01. La bussola segnava centoottanta

La bussola segnava centoottanta. Anita guardava l’orizzonte e ogni tanto dietro al genova leggero. Il mare era calmo e scuro. Non c’era una nuvola, il vento era buono, il pilota automatico cigolava piano le poche correzioni sulla rotta. La luna illuminava la barca e si vedeva tutto come di giorno.
“Mamma.” Giulio stava rannicchiato sulla panca del pozzetto, le braccia intorno alle ginocchia piegate.
“Che c’è? Credevo dormissi” disse lei. Andò a sedersi vicino e prese a massaggiargli i piedi nudi che spuntavano fuori dal sacco a pelo.
“Hai freddo?”
Lui guardò le scintille che brillavano nel bianco della scia.
“Pensavo.”
“A cosa pensavi?”
“Non smettere. Mamma.” Le spinse i piedi contro le cosce.
“Vuoi che vada giù a prenderti le calze?”
“Ma il nonno, mamma, pescava tutti i pesci?”
“Il nonno?”
“Il nonno Mino.”
Si sporse per controllare dietro la vela. Si sentiva solo lo sciacquettìo ritmico sotto la prua, leggero come se fosse lontano.
“I pesci sono tantissimi e il nonno ne ha pescati molti. Ma tutti non credo.” Disse dopo un po’.
“E tu come fai a saperlo? Magari li ha pescati tutti.”
“Ma molti gli sono anche scappati, sai? Di solito i più belli e più grandi. Ti vado a prendere le calze?”
“Ho caldo” scalciò via il sacco a pelo e si inginocchiò sulla panca per guardare l’acqua.
“Ha pescato anche i delfini?” disse poi ridacchiando.
“Eggià, e gli orsi polari e le mucche svizzere” rise lei strizzandogli i piedi.
“So che ha pescato le anguille” continuò seria, “che sono come dei serpenti, delle bisce.”
“Velenose?”
“No. Però mordono. Hanno i denti aguzzi. Il nonno me l’ha raccontato. Le pescava con l’ombrello.”
“Cosa?” Viola sporse la testa dal portello aperto.
“Che ci fai alzata? Non tocca ancora a voi” disse Anita.
“Vi ho sentito. Stavi raccontando una storia senza di me?”
Anita guardò l’orologio sul quadro degli strumenti. “Va bene, vieni fuori se vuoi. Però mettiti la felpa. Racconto fino a che non si sveglia papà, manca poco.”
Viola si infilò di fianco al fratello e si tirò addosso il sacco a pelo che li avvolgeva tutti e due come un grosso fagotto.
“Le anguille sono pesci furbissimi e possono stare per un po’ anche fuori dall’acqua. Sembra che non muoiano mai. Si dimenano e scappano anche dopo che le hanno tagliate a pezzi e infarinate.”
“Ma no” rise Viola. Giulio le tirò una gomitata.
“Taci tu che credevi che i delfini erano squali.”
“Ma ero piccola, era tantissimo tempo fa!”
“Non è vero, eri grande, me lo ricordo.”
Il sacco a pelo si gonfiò in morbide protuberanze vive per le spinte e i pizzicotti.
“Non ero grande. E poi erano vicinissimi, non era questa barca qui. Non te li puoi ricordare, eri piccolo anche tu.”
“Allora la volete la storia o no? Ora finisce il turno e io me ne vado a letto.”
I bambini incrociarono le dita sulla bocca facendo sì con la testa. Anita diede mezzo giro di manovella alla scotta del genova e si riappoggiò allo schienale.
“Eppure è così, le anguille scappano via anche dalla borsa della spesa mentre stai andando a casa e allora il nonno le metteva nell’ombrello. Andava a pescarle di notte insieme a mio zio Giorgio, il fratello della nonna Luisa, con la pila. In certi periodi dell’anno sono così affamate che puoi buttare in acqua qualsiasi cosa e loro si attaccano, diceva il nonno.”
“Ma poi lo sputano come i cefali?” disse Giulio.
“Poi lo sputano come i cefali, credo. Però lui era svelto a tirarle fuori dall’acqua e lo zio Giorgio a metterci sotto l’ombrello aperto, zac!”
Risero tutti e tre. Anita si sporse di nuovo per controllare dietro la vela. Si vedevano tre puntini luminosi, forse una nave, forse un pescatore che gettava le reti. Ma erano lontani, nessuna manovra da fare, per ora.
“È già finita?” protestò Viola.
“Bè, non è che ne so molto di più. Non sono nemmeno sicura che sia andata proprio così. Io racconto come mi ricordo, come mi sembra di aver sentito dai grandi. Magari era una barzelletta o uno scherzo, magari ho capito male io che ero troppo piccola. Racconto come mi immagino che fosse. Mi immagino mio zio che era un ragazzino coi calzoni corti, la pila da una parte e l’ombrello dall’altra, che saltella sulla riva. Mi immagino mio papà, anche lui ragazzo, ma più grande, che gli dice sei pronto? Uno, due tre! E lo zio che delle volte magari sbaglia, magari non è abbastanza veloce e l’anguilla invece che nell’ombrello ricasca in acqua e il nonno che dice una parolaccia.”
“Non fa ridere!” Giulio guardò male Viola che sghignazzava battendo le mani.
“Cos’è questo casino?” La sagoma di Carlo spuntò per metà dal portello aperto, come un busto di quelli che si vedono al parco. Ma non era arrabbiato, sorrideva.
“Come andiamo?” disse guardando la vela da sotto in su fino alla testa d’albero.
“A meraviglia” rispose Anita.
“Ho fame” rispose Giulio.
“Ho sete” rispose Viola.
“Cosa ne dite se papà ci fa una tazza di latte prima del cambio?”
Lui sparì alla loro vista e dentro si accese una luce fioca.
“Siamo a metà strada,” disse poco dopo da sotto. “Mancano 45 miglia a Macinaggio.”
Uscirono i due gatti, stiracchiandosi come fanno loro, con la gobba sulla schiena e le zampe davanti tese, la coda dritta in alto. Annusavano l’aria alzando la testa a scatti, si leccavano una spalla e poi si sdraiavano sui piedi di qualcuno.
Si accese la luce grande in quadrato e Anita voltò la testa per non farsi abbagliare.
Carlo mise fuori un cartoccio di biscotti e una tavoletta di cioccolato. I bambini gli si avventarono sopra. Poi passò le tazze di plastica colorate.
“Io quella gialla” disse Giulio.
“C’è già lo zucchero?” chiese Anita.
“Già girato” rispose lui uscendo in pozzetto.
Finito il cambio della guardia, dopo aver messo a letto Giulio e controllato che Viola fosse coperta abbastanza, Anita si infilò nella cuccetta matrimoniale. Con i piedi nudi cercava un residuo del calore di Carlo, la forma che aveva lasciato nel sacco a pelo o almeno il suo odore. E mentre si faceva cullare dal movimento della prua che assecondava le onde morbide, pensava a loro come un puntino a matita sulla carta nautica, lontani da terra e tutto intorno solo acqua. La luna piena entrava dall’oblò proprio sopra la sua faccia e lei, che aveva già tolto gli occhiali, la vedeva grande come una frittata, una frittata di cipolle nella padella nera che sua nonna puliva col giornale e il sale grosso perché era di ferro e non si poteva lavare con l’acqua. Per niente al mondo sua nonna avrebbe fatto una frittura senza la sua pentola nera. Anche le patate, le patate fritte della nonna Rina, le chiamavano ancora così quando andavano a mangiare da sua mamma, più che una ricetta era uno stile che si erano tramandate. Lei no, non le faceva in quel modo, anche se ne ricordava con precisione il sapore d’aglio e rosmarino, la consistenza croccante fuori e morbida dentro e il profumo che si sentiva già sul pianerottolo. Perché poi?, pensò girandosi su un fianco, piacciono a tutti. Quelle surgelate sono più comode, si sbattono nella friggitrice e si fa presto. Però anche quelle di nonna Rina. Magari quando torniamo a Milano, la pentola nera è nello sgabuzzino. O in cantina. O me la faccio prestare.
Mentre il sonno si avvicinava e sfumava i contorni delle sue meditazioni, chiuse gli occhi e pensò alla fortuna che avevano avuto di trovare una notte così bella per la traversata, pensò che avrebbe fermato il tempo e lo spazio per restare sempre così, lontani da tutti. Loro quattro dentro la barca come la materia viva dentro una conchiglia.
Loro quattro e i gatti, naturalmente.

 

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