Creato da LaDonnaCamel il 16/09/2006
Il diario intimo della Donna Camèl con l'accento sulla èl
 

 

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Se tu mi amassi

Post n°849 pubblicato il 14 Dicembre 2013 da LaDonnaCamel
 
Tag: colori, EDS, nero
Foto di LaDonnaCamel

A Stefi Pattume. a Maledetto di Stirpe e ai miei ventanni

 

 

 

“Vai piano, osti, che non ci vedo!”
Sarah stringe la maniglia della portiera e punta i piedi sotto il cruscotto.
C'è nebbia. Dire nebbia sulla Paullese è dire niente. La nebbia qui cresce sugli alberi, cresce nei prati e nei parcheggi, nelle strade comunali, in autostrada. La nebbia sulla Paullese, tra l'Idroscalo, le cave, i canali e le rogge, te la danno a gratis. La nebbia se non ci fosse sarebbe da aver paura perché vorrebbe dire che si è aperto il tappo e il mondo è scolato giù nel buco.
Luca sorride. Testolina bionda senza animella, pensa, non stai mica guidando tu, cosa devi vedere? Ma non lo dice. Scuote un po' la testa a tempo con la musica, le tocca una mano per tenerla tranquilla.
Lei scruta davanti, fa gli occhi a spillo, vuol vedere un po' più in là dei fari.
“Però me l'avevi promesso che mi portavi in un motel” fa, e le scappa un mezzo mugugno più acuto sulla él. Lui imbocca una rotonda, picchietta sul volante, muove il dito come a dirigere un'orchestra invisibile. Dallo stereo esce la voce dolente di Joe Strummer che canta redemption song.
“Ma che lagna” fa lei e avvicina la mano alla radio. Lui le prende il polso prima che possa toccare il cruscotto, la blocca come un fermo immagine di lotta libera, ma in piccolo.
“Lascia stare” dice, “che tu di musica non capisci un cazzo.” Stanno lì fermi un attimo, come congelati, poi lui apre la mano e lei si volta dall'altra parte, scocciata.
“Le capisci tutte tu, che sai solo copiare quello che fa il tuo capo.”
Ritirando la mano le tocca la gamba, di proposito. Sta a vedere che adesso si è offesa e si mette a fare la difficile. E poi, dovrà mica rendere conto a lei. Il Ginetto se ne intende di musica, è un gallo. Sente sempre Virgin radio e conosce tutti i gruppi del vero rock, mica la merda che fanno adesso. E' per questo che lui gli da retta, e non solo perché è il suo capo. Se ne intende di un sacco di cose.
“Vai piano ti ho detto. Mi viene da vomitare.”
Sta a vedere che adesso si mette anche a piangere e manda a culo la serata. Sarah delle volte è una vera piattola. Ci esce perché ha le tette grosse e non fa troppo la difficile, ma certe volte esagera. Luca non ha voglia di farsela pesare, almeno fino a che è giovane. Ce ne sono anche altre che la danno e non fanno troppo le difficili, la prossima volta ci pensa su, ce l'ha mica solo lei. La Fede, per esempio, ha il culone ma si fa fare tutto. Luca ripensa a Federica vista da dietro, in ginocchio sul letto della madre e gli viene duro. Sarah invece con tutti quei fratelli e sorelle, altro che il lettone.
Sarah che adesso si lascia toccare senza muoversi, come se la gamba non fosse neanche la sua. Lui si è infilato con la mano sotto la gonna, è arrivato all'orlo dell'autoreggente.
Bè, però se le è messe, dopotutto.
“Un'altra volta ti porto nel motel, dai.”
Lei butta fuori il fiato ma non ci crede, si capisce.
Il parabrezza è appannato, il riscaldamento è al massimo e si sente odore di macchina e di grasso. Non si vede proprio un cazzo, sembra di avere i vetri pitturati di nero. Lui ha rallentato ancora un po', ha passato un'altra rotonda.
“L'hai detto anche l'altra volta.”
Dalla radio esce l'arpeggio di Stairway to heaven, interrotto sul più bello da una voce che dice radiocomando radiocomando.
“L'hai detto tutte le volte che siamo usciti insieme e invece poi mi hai portata nel campo con questa specie di camioncino del tuo capo che non ha nemmeno i sedili ribaltabili.” Dice queste cose tutte di fila con una vena di rassegnazione, come fosse un fatto già compiuto una volta per tutte.
“Ma tu sei maggiorenne? Non ti fanno mica entrare sai.”
Lui ha passato l'orlo della calza e col dito tocca la carne tiepida. Hanno costeggiato un muro di cinta traforato da una serie di aperture ovali con le sbarre, dopo la curva dovrebbe esserci la cava e poi a destra la strada sterrata.
“Se sei venuto anche alla mia festa, non ti ricordi nemmeno più.”
Non si ricordava, ha ragione lei. Non è passato neanche tanto, adesso che ci ripensa gli torna in mente, era sulla fine dell'estate. Ma il tempo vola. Chissà perché gli viene in mente quello che gli dice sempre suo padre, che alla sua età lui non era nemmeno maggiorenne. E invece Luca ha già un lavoro fisso, in regola col libretto e i contributi e può guidare il mezzo della ditta.
Sono fortunati ad avere il Caddy del Ginetto e sono fortunati che glielo lascia usare. Quando avranno trovato il posto adatto, lui farà spazio dietro, sposterà i tubi e la borsa degli attrezzi e si potranno anche sdraiare sul pianale. Con la coperta e tutto è molto meglio che una macchina coi sedili ribaltabili, ma questa testina di pece e piume che ne sa. Se hanno freddo può arroventare un mattone col cannello per saldare e dura anche due ore, è come essere in un camper. Poi lo sa, l'hanno già provato, funziona.
Il suo capo sì che se la passa bene. Non è uno che si porta le donne in campagna col Caddy. Nemmeno nel motel, per quel che ne sa Luca. Lui è uno che va nelle case alla mattina, quando i mariti sono al lavoro, e salta dentro nei letti ancora caldi.
“Hai preso il whisky che ti ho detto?”
“Sì, ce l'ho in borsa. Ho preso quello di dieci anni, e anche il cioccolato amaro. Però è l'ultima volta, che di quello se ne vendono poche e il padrone se ne accorge.”
Luca adesso ha tutte e due le mani sul volante, ha imboccato lo sterrato e anche se ci è già stato deve concentrarsi per non andare nel fosso. Passano davanti a una cascina e in quel momento si accendono le luci nel portico. Si sentono dei cani abbaiare.
“Ci ho fatto caso, si è fermato a guardare lo scaffale. Ma io avevo cambiato anche il numero dell'inventario, si vede che non gli tornava ma non poteva dire niente, i conti erano giusti.”
“Brava la mia testolina di pan di spagna. Sei sprecata al minimarket, vedrai che fai strada.”
Lei pulisce il finestrino col palmo della mano, cerca di guardare fuori.
“Te mi svaluti sempre. Non valgo un cazzo io per te.” Ritrae di colpo la mano e fa un piccolo grido.
“Cosa c'è?”
“No, niente. Hai visto?”
“Cosa?”
“Bo. Mi è sembrato che ci fosse uno lì in piedi che mi guardava.”
“Ma dove?” Lui ride.
“Uno grosso. Mi sembra.” Tira giù il finestrino, mette la testa fuori. “Vicino a un cancello.”
“Ma che cancello. Non ce n'è di cancelli.”
“Eh. Si vede che era un albero.”
“Si vede.”
“E quella luce lì allora?”
“Che luce?” Lui ride ancora. La testolina di marmo adesso ha pure le visioni.
“Uffa.” Sarah si tira su il cappotto e ci nasconde dentro la faccia. L'aveva tolto e se l'è messo davanti come una coperta.
“A me di andare in giro di notte nella nebbia non mi piace.”
“Hai paura?”
“Mavà. Non mi piace e basta. Mi fa venire i brividi.”
“Hai paura. Ma chi vuoi che ci sia?”
“Ti ho detto che non ho paura.”
Lui cerca di vedere lo spiazzo dove aveva girato la macchina l'altra volta. Va pianissimo, dove non c'è l'asfalto è un pantano di fango e non ha voglia di sporcare il Caddy. Non ha voglia di ripulirlo dopo, più che altro. E' bianco e gli schizzi si notano. Ginetto gliel'aveva dato per portare al cinema la morosa, non per fare cross country.
Ci tiene che sia a posto e ha ragione, è il suo biglietto da visita. Lo dice sempre, sarà per la scritta Ginetto un lavoro perfetto, sarà per il faccione da cartone animato di Luigi disegnato a fianco con tanto di berretto verde e i baffoni, sarà anche per il numero di cellulare scritto in grosso, ma quando arriva in un paese per un intervento e lo lascia davanti al portone di una cascina, sicuro come l'oro che lo chiamano ancora, subito qualche altra donna lì vicina ha bisogno, anche solo per farsi sgorgare il lavandino. E lui, Ginetto, corre. Ginetto - Luigi, che è suo vero nome, anche se lo sanno in pochi o nessuno, difatti Luigi, Luigino, Gino, Ginetto.
Luca sta ancora imparando il mestiere, si è diplomato l'anno scorso ma ha cominciato presto a fare il garzone. E da Ginetto c'è sempre da imparare, per quanto alla mattina non se lo porta mica dietro, lo fa stare in negozio. Che non ci entra mai nessuno alla mattina, e non telefonano neanche perché vogliono parlare solo con Ginetto, lo chiamano direttamente sul telefonino.
“Luca. Hai sentito?”
“Cosa.”
Intanto ha parcheggiato, cioè ha fermato il furgoncino in uno slargo tra due campi.
Si volta verso di lei e sorride.
“Cos'hai stasera?”
Le accarezza il mento con il dorso delle dita. Lei stringe le spalle, guarda il parabrezza.
“Non lo so. E' la nebbia”. Si passa la mano sulla fronte, come per provarsi la febbre.
“Dai, andiamo dietro che te la faccio vedere io la fifa blu”.

Il pianale è sgombro, Luca ci ha steso due coperte, hanno aperto la bottiglia e hanno bevuto il whisky forte nei bicchieri di carta, hanno anche mangiato il cioccolato.
“Questa del cioccolato me la devi spiegare” dice lei. Si è tolta la camicetta, lui le sta leccando l'incavo del seno, la strizza e l'accarezza, ci affonda la faccia dentro.
“Il torbato invecchiato è la morte sua col cioccolato fondente” le mugugna contro la pelle.
“Te l'ha detto il Ginetto?”
Lui si stacca. “Girati!” le dice brusco. Allunga una mano sul mucchietto dei vestiti per prendere il preservativo che aveva preparato. Che non le venga in mente adesso di cominciare una polemica sul Ginetto che la sbatto fuori e poi la mando a casa a piedi. La spinge, le sposta i fianchi e le gambe per mettersela sotto come gli fa comodo. Le ha alzato la gonna, le ha tolto le mutande ma le calze no, le ha lasciate. Accende la luce sul tettuccio, vuole vederla prima di metterlo dentro. Lei si lascia fare. E' in ginocchio, la faccia appoggiata sulla coperta, il culo in alto.
“Hai sentito? Cos'è questo rumore?”
Lui si ferma, volta la testa. Allunga la mano e spegne la luce.
“Shhhh” le soffia nell'orecchio. Lei si irrigidisce. “Dai. Luca?”
E' in ginocchio anche lui, dietro di lei, si tiene su con una mano e con l'altra prende la mira.
“E' Jack lo stupratore!” grida e glielo spinge dentro fino in fondo. Ride e intanto muove il bacino avanti e indietro, si china su lei e le sfiora la schiena, le soffia sul collo.
Lei caccia qualche urletto a tempo, ansimano forte e le sospensioni cigolano, ci stanno dando dentro senza risparmio quando arriva il primo botto così forte che fa tremare tutto il furgone.
Lei grida, lui lo tira fuori e cerca freneticamente le sue mutande, guarda verso la cabina, attraverso la grata divisoria cerca di capire che cazzo è.
Non si vede nessuno, non si sente nessuno. Nero e nebbia.
Chi cazzo è chi cazzo è chi cazzo è.
Le mette una mano sulla bocca, lei scuote la testa per dire che ha capito. Il silenzio adesso gli piomba addosso forte come un rombo. Si infila le mutande, si mette anche la camicia. Arriva un'altra botta, stavolta la sente bene, è sulla fiancata sinistra. Una mazzata o un colpo di spranga, si sente lo stridore del metallo contro il metallo. Lei mugola, forse piange. Trema.
Un altro colpo, a destra. Forte.
“Stai in mezzo, hai capito? Stai lontano dalle fiancate” le soffia nell'orecchio. Lei non risponde.
Qualcuno sta girando intorno al furgone e sta riempiendolo di mazzate.
Ma chi cazzo è.
Uno schianto e il vetro davanti diventa tutto bianco, come un laghetto di montagna che si ghiaccia. Ma che cazzo. Sarah si è rannicchiata sul fondo, la testa tra le ginocchia, batte i denti.
Questo qui ha del metodo. Tira una mazzata e poi gira dall'altra parte e ne sferra un'altra. Gira in giro e picchia duro.
“Bastardo, vieni fuori.” Luca e Sarah voltano la testa verso la voce, sbalorditi, come se quella cosa che sta strapazzando il Caddy non potesse essere umana. Per di più con una voce così stridula, fessa, chi l'avrebbe detto.
Un'altra botta.
“Dio, che cazzo gli dico a Ginetto.”
Si vedono i bozzi dal di dentro, come gobbette. Chissà da fuori.
“Vieni qui, brutto bastardo.” E' un lamento disperato, rauco, sembra quasi che pianga. Ma picchia forte.
Che cazzo facciamo adesso. Dal pianale non c'è modo di entrare in cabina, c'è la grata di ferro saldata al roll-bar.
Luca accosta la bocca all'orecchio di lei, “il telefono?” le sussurra. Lei gli si attacca al collo, piange.
“Shhhhh”, le accarezza la testolina bionda, la stringe a sé, “riesci a ricordati dove hai messo il telefonino?” dice ancora, pianissimo. Lei scuote la testa: “è davanti, nella borsa.”
E pure il suo è rimasto davanti, nel cruscottino a sinistra del volante. Cazzo.
Luca mette le mani nel mucchio di attrezzi che ha spostato di lato, tasta per trovare qualcosa, un tubo, il pappagallo grosso. Questo prima o poi spacca il portellone, chi lo sa cosa ha intenzione di fare. Gli capita in mano la bottiglia del Laphroaig, se la caccia in bocca e riesce a ciucciarne un bel sorso. La passa a lei, “bevi,” le dice.
“Bastardo, stronzo vieni fuori” ulula il vecchio. E il finestrino del passeggero è andato. Sarà un vecchio? Gli sembra una voce rauca da vecchio, una voce disperata.
Ma per essere vecchio, picchia duro.
Gli viene in mente un documentario che aveva visto quando era piccolo, c'era un polipo che cercava di aprire un barattolo con dentro una stella marina per mangiarsela. La vedeva attraverso il vetro ma non poteva prenderla. La stella vedeva lui e non poteva scappare.
Sta pensando di rompere la lamiera con un apriscatole? Sta aspettando che escano da soli? Cosa cazzo vuole?
Sarah gli prende la faccia e se la avvicina alla bocca, “il cannello” gli soffia nell'orecchio.
“Eh?”
“La fiamma, quella per scaldare il mattone.”
Testolina di acciaio al cromo vanadio molibdeno titolato!
Fruga nella cassetta e intanto prega, fa che Ginetto abbia lasciato la cartuccia montata che il tempo è scaduto, fai che la bomboletta non sia vuota che il bombolone è troppo pesante, fai che si accenda, ti prego fai che si accenda subito.
Un botto fortissimo ha aperto un buco sul portello scorrevole a destra, petali di lamiera si aprono come la corolla di un fiore sgraziato. Non c'è più tempo, è finita. Quello tra cinque minuti è qui. E continua a ululare la sua disperazione.
La cartuccia è montata e la bomboletta piena, Luca preme il grilletto e la piezoelettrica crepita, la fiammella pilota si accende.
La mette al minimo e si prepara a saltare fuori. Si è infilato i pantaloni e le scarpe. Deve aprire con un calcio il portellone dietro, prenderlo di sorpresa. Deve aspettare il momento giusto, non può lasciarlo avvicinare troppo.
Lo lascia picchiare a destra. Conta fino a dodici e poi arriva il colpo davanti. Sarah si è avvicinata, gli tocca la schiena. Lui volta la faccia, le cerca la bocca. Tra poco picchierà a sinistra. Conta i secondi mentalmente. La bacia, le infila dentro la lingua, le morde le labbra. Ancora dieci e poi tocca a lui, e la cosa più pazzesca è che non è su Call of Duty, è tutto vero davvero. Otto, deve sbloccare la sicura del portellone e sette prepararsi a saltare fuori. Sei, puntare i piedi, cinque, spingere con tutte le forze. Quattro, saltare in piedi, tre, voltarsi verso sinistra, due, puntare. Uno sparare.
Zero.
Nel nero della notte intuisce davanti a sé una sagoma grande e grossa con una mazza da muratore sollevata sopra la testa.
Apre il gas.
“Ginetto” gli dice il tipo, “io ti amasso.” Poi si accende come un albero di Natale.

 

 

Questo racconto partecipa all'EDS Nero di Natale insieme a:

Per favore non chiamarmi Barbie
Zebre e savane
Placida come il fiume
Madeleine
Natale con soffritto
Pedalata nera
Il quadro capovolto seconda parte
Una vita segnata
Nero Livido

 

 

 

 

 
 
 
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