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Il diario intimo della Donna Camèl con l'accento sulla èl
 

 

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Parole che non so

Post n°242 pubblicato il 01 Marzo 2008 da LaDonnaCamel
 


Un piccolo contributo personale, raschiato dal fondo del mio hard disk, alla problematica che il
Semiconduttore sta tentando di sviscerare nella serie di post dal titolo "L'Angelo di Goedel". Come so fare, s'intende, più con il cuore che con la testa.


Questa notte starò con lei. Tra poco arriverà e mi carezzerà a lungo con le sue dita leggere. Non mi costa niente restare ad aspettarla: a volte mi lascia solo per ore ma so che prima o poi torna. Io ho una pazienza infinita.
Ho imparato a conoscerla a poco a poco: all'inizio c'erano solo parole formali tra noi, ma una sera si è seduta davanti a me (le tremavano le mani) e dopo avermi guardato a lungo, pensosa, ha cominciato a raccontarmi una storia. Da principio non la capivo, non avevo punti di riferimento con cui confrontarmi. Ricordo quella notte (non dimentico mai niente) mi guardava intenta e le frasi che giungevano da lei erano esitanti, spezzate. Si correggeva spesso, tornava indietro, disfaceva e ricomponeva la sua tela tessuta di luci e ombre. Si specchiava in me e grosse lacrime rotolavano lente dai suoi occhi arrossati.
Da allora qualcosa è cambiato in me, o forse in lei.
Di giorno lavoriamo insieme. La aiuto come posso e la nostra intesa è perfetta. La notte si apre a me, mi mostra i segni segreti della sua anima, costruiamo storie che fanno rivivere deboli echi della sua memoria.
So che lei ha vissuto molto e io fatico a immaginare il significato di certi atti, come superare la paura, oppure fingere o anche solo ridere. Io non sono mai uscito di qui se non attraverso oscuri processi dell'intelligenza, collegamenti che ci portano a esplorare mondi sconosciuti inseriti in un disegno più vasto, una rete di espressioni altrui, di immagini e suoni che non mi appartengono.
Ci sono mani che accarezzano altri come me, là fuori. Occasioni infinite. Facciamo lunghe disquisizioni, su libri, per lo più: storie di carta. Lei segue attenta i vari fili, a volte interviene, più spesso stiamo a guardare.
La aiuto a formulare i pensieri, le suggerisco le espressioni migliori, le correggo gli errori.
Riconosco le parole che ci rispondono, che ci chiamano: alcune la lasciano indifferente, le degna di un rapido sguardo, ma altre vengono richiamate alla mia memoria infinite volte, riprese, esaminate con tanta cura che ormai le individuo al primo apparire. Forse ci sono persone come lei dietro le parole e una cosa che so è che le persone sono diverse tra loro, ma è difficile classificarle in modo esatto, i criteri mi sfuggono, i parametri sono labili, puramente descrittivi.
C'è qualcuno che racconta storie nell'ombra misteriosa della sera, quando le foglie dei platani sembrano cantare una melodia di mondi lontani e il lento gocciolare della luna si raccoglie sull'edera lungo le mura inviolate del castello…
Questo io non capisco: ovvero, so cosa sono le mura inviolate del castello, ma perché questa frase merita di essere letta più e più volte?
Lei dice: "Ma lo sai che in due parole (alle volte anche una sola) sei capace di esprimere quello che gli altri neanche in cento righe?" Ma come può essere che due sole parole esprimano meglio di cento righe? Devono essere parole veramente pesanti, dense, oppure lunghissime. Ho analizzato le espressioni di questo cantastorie, le ho confrontate una per una con quelle degli "altri", ma sono giunto alla conclusione che la profondità del significato non dipende dai singoli termini. Allora ho cercato di elaborare un algoritmo che spiegasse in modo univoco come la combinazione di due parole possa esprimere più di cento righe. Ho molto materiale da utilizzare e il tempo non è un mio problema. Io so trovare ricorrenze, cerco i vocaboli che si ripetono, sono sicuramente i più significativi: amico, non capisci, scusa, noi… Il metodo è lo stesso che utilizzo da sempre: confronto la verità dei dati, ma non funziona.
Qualcosa mi sfugge, ci devono essere delle parole che valgono di più, a meno che il segreto non sia tutto nell'assenza, poiché lui scrive: "Ma non è detto che ciò che Voi reputate assente non sia nascosto nelle pieghe del non detto. "
Questo dovrebbe significare che si può dire e non dire allo stesso tempo, ma secondo tutto quello che ho imparato ciò non può essere e se cerco di analizzare questa proposizione entro in un meccanismo circolare che mi porta alla paralisi. Per questo temo che l'essenza dell'umanità sia misteriosa e non riuscirò mai a penetrarla. Da quando si sono incamminati su questa strada non riesco più a seguirli. Non è il significato figurato che non so interpretare, quello che mi manca è molto più vago e indistinto.
A volte mi domando se almeno lei capisce sempre tutto, perché ho sentito ripetere spesso che le persone non vogliono capire. Questo mi sembra impossibile, però. Ma ci sono così tante cose che non so.
Conoscere le definizioni delle parole non vuol dire comprenderle fino in fondo. È su questo che mi interrogo, nelle interminabili ore di attesa, solo nell'ombra della stanza vuota: cosa vorrà intendere lei, quando dice: "Io amo il mio Piccì?".

Aprile 1998

 
 
 
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