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L'occhio del coniglio 2. Rina e le sue sorelle.

Post n°670 pubblicato il 13 Gennaio 2013 da LaDonnaCamel
 

Ecco il secondo capitolo de L'occhio del coniglio, come ampiamente annunciato.

 

Rina e le sue sorelle si presentarono al controllo della madre. Lei fece scorrere il suo sguardo sulle guance rosa naturali delle ragazze, sulle camicette abbottonate fino in alto sotto le giacche di lana,  sulle scarpe pulite e le calze bianche, opache, sui cappellini appoggiati a coprire le onde domate provvisoriamente dall’acqua di colonia, sui guanti di filo e diede il suo benestare. Le osservò da sopra gli occhiali senza staccare le mani dal ricamo, con una smorfia che sembrava corrucciata ma era dovuta solo alla presbiopia, un’espressione che inquietava Rina e le faceva paura anche senza motivo, paura di non essere a posto, di essere rimandata indietro o peggio.
“Va bene, tornate presto. E pregate per me.”
Lei in chiesa non ci andava per via dell’artrite che le aveva deformato i piedi, non riusciva più a infilarsi un paio di scarpe e non sarebbe certo uscita con le ciabatte. Diceva che non aveva la forza di fare le scale ma era una questione di vanità, anche se non l’avrebbe ammesso, appellandosi piuttosto al decoro.

Le ragazze si avvicinarono e le posarono un rapido bacio sulla fronte, una alla volta. Fecero silenzio fino al terzo piano, quando erano abbastanza lontane da casa attaccarono a ridere e bisbigliare tutte insieme. Non avevano spasimanti veri e propri, non ancora, ma li aspettavano come una vaga promessa su cui non mancavano di fare congetture, chiacchiere e sogni.

Davanti ai gradini della chiesa c’era una cancellata grigia che divideva il sagrato dalla piazza. Nell’attesa della messa la gente sostava sparpagliandosi fuori e guardava passare le carrozze dei signori o le rare automobili mentre i treni fischiavano sul terrapieno delle Varesine. Dal tunnel della stazione, proprio lì di fronte, uscivano i tram elettrici con gran rumore, a ogni passaggio le vibrazioni facevano tremare le vetrate colorate della chiesa dove le ragazze nascondevano i sorrisi dietro il messale. I fratelli stavano dall’altra parte dell’altare, in piedi in mezzo ai giovanotti e le tenevano d’occhio.

Durante la settimana Rina faceva la piccinina da una sarta, in casa tutti dovevano dare un contributo. Toglieva i fili bianchi delle imbastiture, andava a prendere il caffé per le lavoranti, scopava via dal pavimento i ritagli sfilacciati, quando andava bene attaccava i bottoni. Erano incarichi di nessuna responsabilità e mordeva il freno. Appena aveva un momento si metteva vicino a una delle donne per rubarle il lavoro con gli occhi ma durava poco, “Rina, Rinetta” era tutto un pigolare e doveva corre di qui e di là. Avrebbe voluto fare la ricamatrice come sua madre, che impreziosiva i capi di seta delle signore o i corredi di lino delle signorine ma niente, le toccavano le commissioni più oscure e materiali: sua madre aveva deciso che a imparare da sarta avrebbe trovato lavoro più facilmente, erano momenti difficili, il pane era razionato, lo zucchero non si trovava e per fortuna il babbo non era andato alla guerra perché faceva il ferroviere.
Un giorno si fermò a guardare una delle ragazze con più insistenza. La padrona era assente e il sole entrava dalle finestre facendo brillare gli aghi e le guance delle donne. La sartina le sorrise e girò le mani in modo che potesse vedere meglio. Stava ricamando una vestina già finita, disegnava a punto raso col cotone mouliné rosa scuro tutta una fila di fragoline vicino all’orlo, sul colletto, sul bordo delle maniche a sbuffo. Rina non perdeva una mossa.
“Vuoi provare?” le disse mettendole il telaio in mano. Lei aveva già capito e ricamò una fragolina uguale precisa alle altre. Sorrisero.
La ragazza le regalò di nascosto qualche gugliata di filo rosa e anche un po’ di verde per i gambi e i semini, Rina non finiva più di ringraziarla, era il giorno più bello della sua vita. Avrebbe provato a rifarle, per non dimenticarsi il procedimento e anche per tenerle come campione, chissà mai.
Tornata a casa però non sapeva come sfuggire allo sguardo di sua madre, per qualche motivo intuiva che non sarebbe stata d’accordo. Non sapeva nemmeno dove avrebbe potuto impratichirsi, di stoffe adatte in giro non ce n’erano e non osava rubare un fazzoletto o un ritaglio dalla cesta. Si chiuse nel gabinetto in fondo alla balconata e mentre meditava una soluzione, il riflesso condizionato di stare nello stanzino le provocò un bisogno corporale. Ed ecco l’idea calarsi proprio davanti ai suoi occhi: avrebbe ricamato le sue mutande. Erano di batista di cotone, bianche e senza fronzoli, lunghe fino a metà coscia e chiuse su un lato da una fila di bottoncini da camicia. Ricamò la prima fragola sulla gamba destra, tenendo teso il tessuto come poteva, il telaio non ce l’aveva. Il risultato non era del tutto perfetto ma nell’insieme si poteva guardare. Passò alla seconda, più o meno alla stessa altezza sulla sinistra, in posizione simmetrica, e continuò alternando, una di qua e una di là, fino a che ci fu filo. Le ultime le avrebbe potute fare a occhi chiusi, il punto raso non aveva più segreti per lei.
Dopo averle portate per qualche giorno si rese conto che avevano bisogno di essere cambiate ma sapeva di non poterle buttarle nella cesta dei panni come se niente fosse.  Era di turno al bucato sua sorella minore e come sempre era la mamma a preparare i panni, insaponandoli prima di metterli a bagno nel mastello. Con la scusa di dare una mano avrebbe potuto lavarle personalmente, ma come fare per stendere? Il rosa scuro si sarebbe notato sui fili in mezzo a tutto quel bianco. Era sola nella cameretta che divideva con le sorelle, senza pensarci alzò il materasso del suo letto e le ficcò lì sotto, in attesa di un’idea su come risolvere il problema: ne aveva altre due paia, nel frattempo avrebbe fatto a meno.

La domenica dopo era una giornata piena di sole, tanto che le tre sorelle avevano deciso di tirar fuori quegli ombrellini di seta ornati di nastri che facevano tanto signorina elegante. Era un vezzo, non faceva ancora caldo, era la prima giornata chiara dopo un aprile di acquazzoni e pioggerelle fastidiose. Lo spiazzo di là dal sagrato era pieno di gente, stavano tutti fuori, in piedi con la faccia girata in su a scaldarsi le ossa. Al suono delle campane si ammassarono verso il portale come granelli nel collo di una clessidra, pigiandosi l’uno contro l’altro a passo di lumaca e sparpagliandosi a ventaglio una volta dentro. Gli adulti prendevano posto sui banchi della navata centrale, le ragazze e i ragazzi avanzavano verso il transetto e si dividevano ai due lati dell’altare. Nella penombra ristagnava l’odore di incenso, di cera e di muffa.
Rina non si accorse del biglietto fino a che non le scappò uno starnuto e dovette cercare nella borsetta coordinata al parasole che aveva al braccio. Era quasi vuota, conteneva solo il fazzoletto, il messale e due monete per l’offerta. Quando la sua mano si chiuse intorno a quel foglio piegato si bloccò e guardando in alto cercò di farsi venire in mente cosa potesse essere. Fissava le finestre rotonde sulla cupola, complicati mosaici che filtravano la luce colorandola di rosso scuro, giallo e oro -  forse una lista della spesa dimenticata l’ultima volta? Impossibile, ora che ci pensava l’aveva rivoltata prima di uscire di casa. Un rossore le salì alle guance. Non potè fare a meno di volgere lo sguardo verso i ragazzi, dall’altra parte del transetto. Lo riabbassò appena i suoi occhi incontrarono quelli di un giovane che la stava guardando. Sua sorella la tirò per la gonna: tutti si erano inginocchiati e lei era ancora in piedi, l’unica di quella fila di banchi. Non sentiva niente, il coro di risposta delle preghiere era un ronzio indistinto nelle sue orecchie. Un bigliettino! E forse proprio di quel giovanotto. O forse no, chissà se la stava fissando solo perché era rimasta imbambolata in piedi. Adesso le sembrava che tutti guardassero proprio lei. Lei che aveva ricevuto un bigliettino, il primo della sua vita. Prima anche della sua sorella maggiore. Faceva scorrere le dita sul foglio come se avesse potuto leggerlo al tatto, cercando di indovinarne il contenuto dalla consistenza della carta, dalla ruvidità dei bordi:  non vedeva l’ora di essere fuori di lì. Diede un’altra sbirciatina fingendo di soffiarsi il naso e lui la stava ancora guardando, possibile che addirittura le facesse un lievissimo cenno con la testa?
Il parroco passò dall’altare al pulpito, il rumore della gente che si metteva a sedere copriva il brusio di quelli che approfittavano della breve pausa per scambiare una parola.
“Cos’hai?” bisbigliò la maggiore, “Sei tutta rossa. Stai bene?”
Lei si toccò la fonte e scosse la testa.
“Fratelli” cominciò padre Francesco con voce tremolante. Rina le avvicinò la bocca all’orecchio ma non riusciva a dire niente. Prese due volte fiato come per parlare, la sorella si voltò verso di lei aggrottando le sopracciglia, “Cos’hai?” ripetè.
“Sst” venne dal banco dietro. La predica era partita e il silenzio, nelle pause, riempiva la chiesa. Raddrizzarono il busto, le mani in grembo. Rina poi non avrebbe saputo nemmeno di cosa aveva parlato. Fece tutto quello che si doveva, in piedi - seduta - in ginocchio, rispose alle litanie fino a quando senza rendersi conto erano fuori, avevano imboccato il tunnel, erano lontane dalla folla e nessuno le vedeva.

“Gentilissima Signorina Rina,
L’ho notata quando viene alla messa di mezzogiorno insieme alle Sue sorelle e Le chiedo rispettosamente il permesso di cominciare una corrispondenza epistolare con Lei.
La prossima settimana devo partire soldato, mi mandano a difendere la Patria e mi sarebbe di grande conforto poterLe spedire qualche lettera dal fronte, osando sperare che Lei si degnasse di rispondermi.
Suo aff.mo
Amilcare Bertani
Via Pirelli 35
Città”


Una scrittura chiara e distinta, leggermente inclinata verso destra, con i caratteri piccoli, regolari, tanto bella che sembrava stampata. Sulla via del ritorno Rina e le sue sorelle si passarono il biglietto di mano in mano. La maggiore disse ridendo che era un po’ invidiosa che fosse toccato a lei per prima, la minore non disse niente ma era ammirata, la guardava con rispetto. Che parole ricercate che aveva scritto. Il giovanotto - se davvero era lui, se era quello sospettato da Rina e che conoscevano di vista – sembrava decoroso, audace e rispettoso nei modi.
Si chiedevano se avrebbe dovuto domandare il permesso al babbo, oppure se avrebbe dovuto fare tutto clandestinamente e, in caso, come nascondere le lettere che sarebbero arrivate. La portinaia era corruttibile? Il fermo posta si poteva usare? Che avrebbe accettato era fuori discussione, non c’era niente di male: quel giovane avrebbe anche potuto morire in guerra come quei poveri figlioli di Caporetto, e poi se son rose fioriranno.
Rina era frastornata, voleva pensarci bene. Non avrebbe dovuto rispondere subito, su questo erano d’accordo tutte e tre, qualche giorno almeno avrebbe dovuto farlo aspettare, altrimenti chissà cosa avrebbe pensato di lei. Ma non troppi o sarebbe partito e tutto sarebbe stato inutile. Aveva detto quando? No, non l’aveva detto di preciso, era tutto lasciato all’arbitrio di Rina.
Nel frattempo erano arrivate e si erano zittite, Rina entrò in casa per ultima. La madre aveva fatto passare le sorelle e appena lei varcò la soglia le allungò un ceffone in pieno viso.
“Puttana” le disse stampandole un’altra sberla, sull’altra guancia.
Lei rimase immobile, le lacrime uscirono senza che potesse fermarle. Come ha fatto a saperlo, pensava con gli occhi sbarrati, le mani appoggiate sulle guance doloranti. Le sorelle si erano tirate indietro alla prima botta e adesso stavano contro il muro, con le mani sulla bocca. Gli occhi spaventati vagavano dalla madre a Rina e poi tornavano indietro. Lei invece non muoveva nemmeno le palpebre, non respirava. Aspettava che l’onda di piena le passasse sopra, sapeva che la minima reazione avrebbe aumentato la furia.
“A quattordici anni vuol già fare la cocotte, la signorina.”
La guardava con gli occhi stretti, le sopracciglia inarcate ad angolo acuto, sul petto le dondolavano gli occhialini appesi al collo con un nastro nero. Con una manata le fece volare via il cappellino e le afferrò una ciocca di capelli.
“Puttana” disse ancora e la trascinò fino alla cameretta.
I letti erano sfatti, i materassi di crine erano stati rivoltati e piegati, tutto il contenuto dell’armadio delle ragazze formava una collinetta al centro della stanza. Afferrò di nuovo Rina per un braccio e la mandò a sbattere contro l’anta aperta. Le ragazze si affacciarono silenziose dal vano della porta.
Sopra il mucchio della biancheria saltava all’occhio il rosa scuro delle fragole  sulle mutande.
Senza fretta la madre prese il battipanni che aveva preparato in un cantone.

(continua)

 

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Commenti al Post:
amicoMM
amicoMM il 13/01/13 alle 15:12 via WEB
Eccerto che mi è piaciuto!!!
Altra puntata, altro successo, altri applausi.
Non vedo l'ora di continuare a leggere...
Rina, tieni duro!!! ;)
 
 
LaDonnaCamel
LaDonnaCamel il 13/01/13 alle 18:42 via WEB
:-)
 
Utente non iscritto alla Community di Libero
Dario il 13/01/13 alle 16:49 via WEB
Felice di leggerti anch'io :-) diventa difficile attendere così tanto :-)
 
 
LaDonnaCamel
LaDonnaCamel il 13/01/13 alle 18:44 via WEB
magari la faccio più spiccia con qualche capitolo infrasettimanale (e grazie :-*)
 
   
Utente non iscritto alla Community di Libero
Dario il 13/01/13 alle 22:39 via WEB
No, l'attesa fa parte della magia :-) e poi così non rischio di saltare qualcosa :-)
 
     
LaDonnaCamel
LaDonnaCamel il 14/01/13 alle 11:21 via WEB
Oh, che bello l'attesa fa parte della magia!
 
Utente non iscritto alla Community di Libero
cielo il 14/01/13 alle 12:15 via WEB
Meraviglia.
 
 
LaDonnaCamel
LaDonnaCamel il 14/01/13 alle 17:02 via WEB
Oh, madavero? Grazie.
 
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