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Con una madre nata, come diceva sempre mia nonna, all'ombra della Madonnina e un padre calabro-campano, in casa si è sempre parlato prevalentemente in italiano. Con tutte le eccezioni del caso: la nonna che si rivolgeva a mio padre in calabrese stretto, l'altra nonna che infarciva di espressioni meneghine le sue conversazioni, riunioni familiari nel corso delle quali - a seconda della preponderanza dell'uno o dell'altro gruppo familiare - gli adulti scivolavano senza problemi nell'uno o nell'altro dialetto. Inclusi i buffi tentativi di imitazione di uno zio, sempre redarguito da mia nonna che sanciva che nemmeno un sordo lo avrebbe mai scambiato per un milanese. |
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Eppure mi manca. Ovviamente mi manca in quei contesti in cui, di solito, si parla il dialetto. Mi manca proprio perché ci sono specifiche espressioni che non possono essere tradotte in italiano: non avrebbe senso, perderebbero di significato. Sono momenti in cui mi sento “defraudata” e trovo ingiusto che mi sia stato imposto di esprimermi solo in italiano
Ma succede anche l'inverso. Si dice per esempio che c'è qui chi parla italiano sbrumato con la cjacia forada.