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Giusta infelicità.

Post n°311 pubblicato il 17 Gennaio 2017 da lontano.lontano
 
Foto di lontano.lontano

Ci sono persone che sono convinte che il loro destino sia una condanna, e che lo stesso, sia una sorta di maledizione che le obbliga ad un'esistenza infelice.
Sono in guerra perenne con i fantasmi di una dannazione virtuale che, riescono a far diventare reale, nel momento stesso in cui ne proclamano l'esistenza.
Non esistono le maledizioni della vita, esistono invece, atteggiamenti personali che, certamente, sono la causa di situazione negative che vanno ben oltre un ipotetico anatema lanciato dalle forze del male.
Pur capendo il meccanismo mentale di cui sono vittime, non riesco a vederle solamente, ed unicamente, come tali.
Pertanto, penso che sia giusta la loro infelicità perché noto che il loro vittimismo è un comodo alibi dietro il quale ripararsi ed adagiarsi.
Non tollero la posizione assunta da chi si sgrava delle proprie responsabilità per addossarle immancabilmente, a qualcun altro, umano o divinità, cambia poco.
Troppo facile asserire che il marchio della disgrazia sia talmente impresso che non ci sia alcun modo per affrancarsi da esso, troppo semplicistico non fare nulla per l'inutilità provata del fare, troppo ipocrita il pensiero che porta sempre e comunque ad un'auto assoluzione.
Per queste persone, è sacrosanta la pena all'infelicità, il loro vittimismo deve causare gli effetti per il quale è nato, deve personificarsi e realizzarsi nella condizione auto designatasi.
E' giusta l'infelicità di coloro che rifiutano la felicità perché sembra sempre poca, anzi, così poca da non vederla neppure, così poca da risultare assente.
Potrebbe esser moderatamente felici, se si accorgessero di ciò che hanno; potrebbero esser molto felici se si rendessero conto che ciò che hanno oggi, domani potrebbero non averlo più.
Ma non arriveranno mai a questo perché vogliono sempre di più, non hanno la misura nel chiedere, esigono la perfezione, non godono del “momento” perché tal “momento” è vissuto come quel minimo sindacale che non soddisfa e non si lascia godere.
Ho avuto modo di scriverlo centinaia di volte, non bisogna mai usare il verbo “accontentarsi”; non posso suggerire a nessuno di accontentarsi di ciò che si ha, ma di “apprezzare”, ciò che si ha.
Coloro che si accontentano, sminuiscono e svalorizzano il bene materiale o immateriale posseduto, coloro, invece, che si rendono conto di ciò che hanno, o vivono, lo apprezzano e gli donano dignità.
Non capire dove è situata la zona limite è da irresponsabili, continuare ad oltrepassarlo, consapevolmente, è un gioco al massacro del quale si dovranno poi assumere le proprie responsabilità.
Non merita la felicità chi fa di tutto per perderla.
Non comprendo la corsa affannosa e assillante a quel “di più” che, anche se raggiunto, non sarà sufficiente, tanto da chiedere ancora, e poi ancora, fermandosi soltanto quando non si avrà più nulla.
Per fortuna, sono esente da questa “patologia”, la vivo soltanto in un unico caso: Col mio computer.
Ho una macchina che funziona bene ma, spesso, perdo ore per cercare soluzioni e programmi per migliorarla ulteriormente.
Cerco sempre un qualcosa di nuovo e di “magico” per aumentarne le prestazioni; quando mi pare di trovarlo, scarico i programmi indicati e sperimento.
Di solito le operazione avvengono senza traumi, l'elaboratore rimane pressapoco nelle condizioni originarie ma va bene così.
Capita, invece, la volta che faccio dei casini, traffico troppo, e vado a cancellare elementi vitali per il suo funzionamento.
In quel momento, mi rendo conto di quanto imbecille sia stato, nel credere nel ”effetto miracolo”, superficiale nel non rendermi conto che la macchina mi sta già dando il massimo delle sue possibilità e della fortuna che ho nel poterne ancora usufruire.
Dopo i primi minuti di panico e pentimento, mi impegno a trovare le soluzioni del caso ma, la complessità del danno mi induce poi a rinunciare.
Me la cavo sempre ricorrendo al ripristino della configurazione di sistema che riporta il pc allo stato precedente alle mie presunte cure.
Ma è stata una scelta razionale la mia?
Ho rischiato di guastare irrimediabilmente la macchina, non ho certamente migliorato il suo utilizzo, ho perso del tempo che avrei potuto utilizzare in maniera più proficua, mi sono stressato e arrabbiato con me stesso, il tutto per aver chiesto di più, per il gusto di chiedere di più, ne è valsa la pena?
Solo un pazzo di direbbe di si e solo un pazzo non realizzerebbe che la condizione umana è del tutto opposta a quella di una macchina.
Una persona non può usare il “ripristino”, non può tornare indietro nel tempo alla ricerca di una situazione da cui ripartire.
Una persona quando ha compromessa la situazione, difficilmente riesce a recuperarla, una persona può solo darsi del ”imbecille”, pentirsi, stressarsi, arrabbiarsi con se stessa, chiedersi se ne sia valsa la pena, esattamente come faccio io con il mio pc, ma quel “no” che le urla dentro non cambierà la situazione.
Chi potrebbe esser felice e ci rinuncia perché gli sembra insufficiente è giusto che non debba esserlo.
Chi, quel poco ha, ma per lui è troppo poco, e vuole di più, sempre di più, un giorno, quando avrà perso tutto, si renderà conto che quel “poco” non era poi così “poco” ma era “tutto” quel “tutto” che, adesso, è diventato niente.

 
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