Oggi ho sbagliato orario, son qui sul posto di lavoro con tre ore di anticipo, sono incazzato con me stesso perché, tutto il tempo che ora dovrò attendere, avrei certamente potuto trascorrerlo in maniera più proficua.
Avrei potuto prendermela con un po’ più di calma, sbrigare le mie incombenze mattutine con meno affanni e poi, mangiare in un orario più consono invece di inghiottire qualche panino prima di mezzogiorno.
Qualche panino, se va bene e se si riesce, perché la premura e l’assillo della partenza fanno perder persino l’appetito, e poi, non si può appesantire lo stomaco in una digestione problematica quando si ha in programma un pomeriggio che richiede una concentrazione totale.
Sono incazzato, per forza lo sono, perché avevo l’orario lì davanti ai miei occhi ma, manco l’ho guardato perché ero convinto che l’ora di entrata, fosse esattamente quella che adesso mi dicono errata.
E’ inspiegabile, inconcepibile, per chi mi sta intorno, capire questo mio meccanismo mentale che non è frutto né del caso né della singola situazione.
Non è la prima volta che mi capita e, certamente, non sarà nemmeno l’ultima, lo so già e accadrà ancora, magari non tra una settimana o due ma accadrà.
Ci penso, facendo la strada per andare a sedermi davanti al mare, ci penso mentre il sole è alto nel cielo di una giornata di un Ottobre semiestivo.
E’ passata l’una da poco e la gente in passeggiata è poca.
La percorro lentamente ripensando al mio errore, quest’errore che però mi consente tre ore d’aria che non avevo programmate e che ora, a cose fatte, comincio ad apprezzare.
Mi sto allenando costantemente per abituarmi a scovare il lato migliore, o anche il più piccolo lato positivo che anche una contrarietà può offrire.
E’ vero, non ho quasi mangiato, mentre avrei potuto farlo con tranquillità ma, poi?
Poi mi sarei riposato qualche ora ma, poi?
Poi sarei dovuto partire, esattamente come ho fatto mezz’ora fa, ma la giornata non sarebbe di certo cambiata, per cui, in fondo, la differenza è in queste tre ore che oggi ho a disposizione.
Non ho mangiato? E allora, cosa mi impedisce di farlo adesso?
C’è un piccolo forno, in fondo alla passeggiata, i cartelli esposti all’esterno attirano l’occhio con parole magiche tipo “focaccia”, “pizza” o prodotti gastronomici liguri, e poi gelaterie, basta entrare e scegliere ed è piacevole persino l’imbarazzo della scelta.
Vada allora per il gelato, lo prenderò in una gelateria vicino alle panchine così avrò la possibilità di mangiarlo comodamente seduto.
Mi siedo con la mia coppetta in mano e ritorno col pensiero all’orario, e analizzo l’accaduto, ora non più in maniera punitiva ma con la curiosità di trovare una spiegazione perché, son certo, una spiegazione che vada oltre la distrazione, debba esistere.
Non sono distratto, infatti, mentre lo copio, ci sto attento, proprio perché so che potrei fare un casino, non è banale distrazione la mia, è qualcosa di molto più affascinante, come affascinante è ogni cosa che riguarda il mondo inesplorato della mente.
Accertato che non sia un errore di copiatura, ciò che ritengo mi succeda sia questo:
Leggo mentre lo trascrivo ma poi non lo memorizzo, o meglio, non lo memorizzo esattamente com’è, la mia mente non è meccanica, non fotocopia, non fotografa ciò che è ma, lo elabora.
Prende vita così un secondo orario, quello rielaborato tramite ricordi di orari precedenti, sensazioni, impegni da rivedere e da tutta quella parte emozionale e irrazionale che è virtuale ma che si sostituisce al reale, diventando reale a sua volta.
Per me l’orario è quello, ne son tanto convinto che non lo ricontrollo nemmeno più, se avessi dei dubbi lo farei ma la certezza è assoluta e la buona fede pure.
Ma è proprio così tanto strano il mio comportamento o invece è molto più comune di quanto si possa pensare, se a queste cose capita mai di pensare………
Un esempio per spiegarmi meglio, se io adesso vi dico di pensare al Colosseo, un monumento che tutti hanno visto almeno in foto, quanti Colosseo esisterebbero?
Innumerevoli Colosseo, uno per ognuno di voi, a meno che, qualcuno abbia vista la stessa foto, ognuno è diverso da un altro, rielaborato dalla nostra mente.
La mente ci fa vedere senza vedere, non sappiamo com’è il Colosseo in questo momento, se ci piove sopra o se illuminato dalle stelle, è il nostro Colosseo quello che possiamo descrivere, una descrizione che non può che essere inesatta.
Quindi vediamo una cosa virtuale, un qualcosa di soggettivo e personale, in definitiva un qualcosa che è diverso dalla realtà.
E il mio nuovo orario è diverso da quello reale ma, reale lo è per me, il guaio è che i due non combaciano mai.
Noi vediamo solo se la nostra mente ci permette di farlo, vediamo se ci vengono fornite le coordinate per farlo, se l’informazione su ciò che dobbiamo vedere è precisa.
Un altro esempio: Vi è mai capitato di cercare un prodotto in un supermercato?
Un qualsiasi prodotto che non avete mai acquistato ma che volete provare per la prima volta, ve lo hanno segnalato o ne avete sentito parlare senza però mai averlo visto.
Ebbene, vi fate tre volte su e giù il corridoio del reparto ma non lo vedete perché non sapete cosa cercare, la mente non sa associare la forma o il colore del flacone o del barattolo al prodotto cercato, dell’etichetta, poi, manco a parlarne.
Per caso, passa di lì un addetto e gli chiedete aiuto, e lui, con la massima semplicità, allunga il braccio e vi dice eccolo qui!
Era lì davanti e non lo avete visto e vi chiedete se siete diventati orbi, ma gli occhi non c’entrano nulla, è il cervello che non aveva fornite loro informazioni atte a trovarlo.
In questo caso, l’immagine fa un percorso inverso, il cervello identifica la forma dell’oggetto e gli occhi lo cercano, mentre quando si guarda normalmente, prima si vede l’oggetto e successivamente il cervello ci dice cosa esso sia.
I miei genitori mi hanno sempre detto: “Tu non trovi manco l’acqua in mare” ed avevano ragione, alla luce di ciò che oggi sono, la mia mente vive una realtà fusa in una forte percentuale d'irrealtà per cui faccio fatica a vedere in maniera statica.
Sono più contento dopo questa analisi, la distrazione può esser scambiata facilmente con la superficialità ed io son certo di non essere superficiale, soprattutto se si parla di lavoro e non lo sono mai, visto che amo approfondire ed analizzare.
A questo punto sono persino contento di esser arrivato prima, è comoda persino questa panchina in legno, di fronte ad un mare calmo che calma trasmette pure a me.
Mi alzo per buttare via la coppetta vuota e, tornando a sedermi, sciacquo le mani nella fontana che è proprio lì davanti, non occorre nemmeno asciugarle visto che il sole inonda la zona, risparmiando solo la mia porzione di spazio protetta dalla chioma di un piccolo albero.
Mi siedo, girandomi di lato, appoggiando il braccio allo schienale della panca e, confuso in questa razionale confusione, guardo e non vedo la parte del mio golfo che mi sta di fronte, quei monti verdi che da qui si cambiano in azzurro.
Ci sono dei bambini che giocano tra gli zampilli delle nuove fontane, fuggono dall’acqua che sale improvvisa e si riavvicinano quando crolla di nuovo.
Li guardo giocare, con l’occhio fermo, sulla posizione di stallo, senza concentrarmi su quello che vedo, come succede talvolta, alla guida dell’auto, quando si guarda la strada, si guida sicuri ma non con quella vivacità visiva di altri momenti.
Capita questa situazione di guida automatica, si tengono, ad esempio, le giuste distanze dal veicolo che ci precede ma, di questi, non si percepisce la targa, il modello, neppure il colore, il cervello guida autonomamente e le parti del nostro corpo hanno solo una funzione meccanica.
Giocano, quei bambini, strillano, cadono e si rialzano, fanno di tutto per farsi sgridare dalle proprie madri che poco distante li controllano.
I rimproveri mi destano dal mio pensante torpore, e guardando verso quelle voci incrocio lo sguardo di una delle due donne che intanto si avvicina a loro.
Mi chiedo se, una madre, avverta come minaccia una persona che segue con lo sguardo il proprio figlioletto.
In un mondo “non malato”, certo che no, ma in questo, così tanto contaminato ho l’impressione che non gradirebbe se un adulto si mettesse a parlare con un bambino.
E, a proposito di guardare con la mente, perché una tale immagine si associa a qualcosa di spregevole?
Perché di due versioni, una delle quali positiva, non viene colta mentre quella negativa è messa in risalto?
Non sarebbe più bello pensare che regalare la propria esperienza alle nuove generazioni, sia un aiuto fondamentale per la loro crescita interiore?
Son sempre esistiti i maestri ed i discepoli; in ogni cultura, presso ogni popolo e ogni tribù, gli anziani trasmettevano ai più giovani quel sapere che, a loro volta, è stato loro trasmesso, è così che la civiltà è progredita.
Ma tutto ciò non è più valido, il valore non fa più notizia quasi fosse cosa scontata, attira di più e fa più sensazione il male, il negativo, l’illogico.
Ho sostenuto che gli occhi ci facciano vedere ciò che la mente conosce, ciò che essa può tradurre in un nome, mi viene da pensare che la nostra mente conosca ormai solo il male e faccia fatica ad individuare la presenza del bene.
Non sono una persona che si faccia condizionare dalle ciarle della gente ma se questa situazione fosse riferita a me, non potrei negare di sentirmi in difficoltà.
Difficoltà che invece non sussisterebbe se al posto di un bimbo ci fosse un cane; vi siete mai chiesti cosa faccia ritenere il possessore di un cane persona altamente affidabile?
Provate a passeggiare con un cane al guinzaglio, vedrete il sorriso sulla bocca delle persone che incrociate, provate ad entrare con lui in uno di quei centri commerciali che non ne vietano l’ingresso, vedrete che nessuno vi controllerà più a distanza, persino l’addetto alla sorveglianza sposterà lo sguardo indagatore su altri bersagli.
Non dirò di quando si è assieme ad un cucciolo, in quel caso è difficoltoso persino camminare per strada, visto che ogni tre passi veniamo fermati da mani carezzanti e frasi di ormai dimenticata cordialità.
Eppure si può esser cattivi anche con gli animali, si può far loro del male, e purtroppo avviene ma, mai tutto ciò è ricondotto a noi.
Cosa rende così radicalmente diversi un uomo assieme ad un bambino non suo e un uomo assieme ad un cane?
La solitudine. E allora si può sintetizzare che una persona sola sia una persona cattiva o perversa?
Ovviamente no, solo, non è sinonimo di cattivo ma, la persona solitaria è sempre vista con molti sospetti.
E’ curioso che in un mondo che di solitudine è fatto, tale situazione sia vista con tanta diffidenza.
Traffico con le mie congetture ed i miei pensieri su questa lunga panchina assolata, sotto l’accenno di ombra degli esili rami di un albero piantato da poco.
Mi appare ad un tratto, l’immagine di quando io ero bambino, di quando anch’io giocavo nei giardinetti; ci passavo i pomeriggi, cadevo sull’asfalto rincorrendo un pallone e medicavo la ferita bendandola con un fazzoletto bagnato.
Poi continuavo a giocare come se nulla fosse, altre volte scivolavo sulle alghe bagnate degli scogli finendo in mare vestito.
Sono qui davanti a me, mi vedo come un ologramma, sono io più giovane di quasi cinquant’anni, sono io, ma non mi vedo più vecchio di quasi cinquant’anni.
Io posso vedere lui ma lui non può vedere me, perché io per lui non esisto, al massimo potrebbe immaginarmi o meglio, immaginarsi, alla mia età, ma non vedermi.
Chissà che effetto gli farei, a me pare di non essere cambiato un granché, ma esprimere un giudizio dalla mia posizione è semplice, lui forse sarebbe meno benevolo.
Forse non direbbe nulla perché di poche parole o perché, lo stupore e l’incredulità avrebbero portate via anche quelle poche rimaste.
Mi fa tenerezza incontrarlo in questa giornata ancora scaldata dal sole, sotto questa luce che vorrei entrasse in lui per rischiarargli un cammino, che so, non privo di ombre pesanti.
Sento forte il desiderio di proteggerlo, di avvisarlo e metterlo al riparo da tutte le insidie che io ormai conosco ma che lui dovrà affrontare senza alcuna preventiva difesa.
Gli direi di credere in se stesso, di non temere il giudizio negativo degli altri ma, soprattutto del proprio perché sempre troppo severo, mai equo, per cui sempre troppo difforme dalla realtà.
Mi sovviene il ricordo di quando dovevo, e lui dovrà, competere con dei modelli ai quali avrei dovuto assomigliare, se non addirittura superare.
Non ero certo il primo della classe e, a stento, riuscivo a passare indenne l’anno scolastico, ma un primo della classe c’era, come c’erano altri compagni che non avevano le mie stesse difficoltà, e allora?
Allora la colpa era mia, solo mia, non poteva che esser così, visto che non facevo parte di quella schiera.
Ma qualcuno mai ha pensato che se io non avevo delle basi solide per alcune materie, forse, ciò dipendeva dal fatto che le stesse, non mi fossero state fornite in maniera appropriata?
Certo che no, questa eventualità era sempre scartata, visti i presupposti ma, la cosa peggiore, è che io per primo fossi portato a pensarla così.
Per cui ero intimidito da questo, e mai, alla fine di una spiegazione, avrei detto che la stessa non mi era affatto chiara, la colpa era solo mia che non apprendevo ed, in effetti, una colpa l’avevo; quella di attribuirmi delle colpe.
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