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Il sole di Ottobre. 2° parte.
Post n°218 pubblicato il 18 Febbraio 2013 da lontano.lontano
Così l’essere intimidito dalla situazione diventava timidezza conclamata per poi evolversi in insicurezza, che sarebbe potuto sfociare in disagio esistenziale. Una persona è timida perché più sensibile di altre, perché più vulnerabile all’emozione, perché convinta di essere la vittima sacrificale per sorte e per destino. A scuola, quindi, sarebbe stato meglio dire chiaramente, con la tranquillità di chi è nel giusto, che la spiegazione non era esauriente, che non avevo capito, che qualcosa sarebbe stato da rispiegare. Si ribalterebbe pertanto la situazione, chi chiede mostra interesse, chi non dice nulla, facendo così presumere un pronto intendimento, potrebbe altresì far intravedere un modo veloce per esaurire la spiegazione. Io sono di una generazione ammaestrata a non nutrire dei dubbi sulle istituzioni, sulla scuola, la religione, la politica, l’ordinamento giuridico e sociale, su coloro che ci hanno fatto credere essere a noi superiori, per cui in quel tempo tacevo. E’ una disgrazia esser stati educati così, un’educazione alla subalternità che ha radici profonde e lontane. Ai nostri genitori è stato tramandato dai loro che, sottostare ad una gerarchia, fosse cosa normale, nonché logica, se non addirittura giusta. Un feudatario medievale, un re o un imperatore, un duce, un governo, son sempre stati ritenuti una casta di eletti degni di un’indiscussa superiorità. E se questa subalternità fosse il ricordo atavico di qualcosa sofferto in un passato remoto che potremmo definire schiavitù? Se davvero fosse questo, ci troveremmo di fronte ad un’ulteriore tesi sulla genesi umana. Forse, è proprio partendo dai caratteri psicologici e comportamentali che potremmo trovare le risposte che da sempre cerchiamo: Qual è la vera storia dell’uomo, che origini ha, da chi è stato creato ed in quale modo? E’ fuori dubbio che la schiavitù che noi umani percepiamo quale nostro destino, quasi sempre senza la forza per ribellarci è parte del nostro DNA ma, nel nostro DNA come ci è arrivata? Semplice, noi siamo stati creati schiavi. Supponiamo, che una civiltà progredita, avesse avuto bisogno di manodopera per svolgere lavori così faticosi che i componenti della stessa non volessero fare e, per questo, stessero cercando chi, al di fuori della loro razza, potesse occuparsene. Supponiamo che, questa civiltà fosse abitatrice di un pianeta non meglio identificato, supponiamo inoltre che nel loro girovagare cosmico, tali esseri, avessero visto nella terra, un posto su cui reperire elementi quali l’acqua, minerali o altro ancora da utilizzare ma, anche, la possibilità di reperire manovalanza. Non sarà certo sfuggito loro che tra la fauna terrestre esistevano dei mammiferi che, per le loro caratteristiche morfologiche, se opportunamente riprogettati, avrebbero potuto essere perfetti per i loro fini: Le scimmie. Ci son teorie che asseriscono che l’uomo discenda dalla scimmia ma qualche lato oscuro si cela nelle stesse, mancherebbe un passaggio fondamentale, l’anello mancante della catena evolutiva. A mio parere, l’anello mancante è ben conosciuto ma, evidentemente, non è scoperta da rendersi pubblica. E’ per me difficile credere che la razza umana sia l’evoluzione di una specie che tuttora esiste, e mi spiego meglio. Se si prende per buona la teoria che gli uccelli discendano dai dinosauri, così come se accettiamo la tesi che gli elefanti discendano dai mammut, perché, sia i dinosauri che i mammut non esistono più mentre le scimmie ci sono ancora? Semplice, perché non è avvenuta alcuna evoluzione naturale ma una manipolazione genetica, da parte di una civiltà, che aveva le conoscenze, nonché la tecnica per dar vita a tale progetto. Ne deriva che l’uomo è una specie creata in laboratorio per un solo scopo, esser utile ad una razza padrona, venuta da chissà dove. Questo destino lo percepiamo in noi, fa parte del nostro bagaglio cromosomico che ci porta a sottostare a leggi di comportamento ancestrali. Chi ha la fortuna di avere in casa un coniglietto, potrà esser buon testimone di ciò che asserisco. Il vostro animaletto è da voi accudito amorevolmente, è protetto, coccolato, viziato, non ha nulla da temere ma, nonostante questo è sempre in allerta. Basta il suono del campanello della porta, una voce sconosciuta, un rumore improvviso e si spaventa immediatamente, pronto a fuggire verso un luogo sicuro. E’ quella paura, quel timore del pericolo incombente che ha permesso alla sua specie di sopravvivere in natura, quell’istinto di sopravvivenza che ora è del tutto inutile quanto inutili sono le speranze che l’animale possa liberarsene. Lui schiavo inconscio dell’istinto di conservazione, inconsciamente schiavi noi oggi, in questa disgraziata condizione, voluti e mantenuti, non più da una civiltà non umana ma da una “inumana”: L’uomo stesso. Moderni schiavi, succubi di gerarchie e sistemi economico-politico-religiosi che si intersecano tra di loro combinandosi in una perfida miscela. Si dice che l’uomo sia nato libero e come dimostrato è falso, al massimo, si è talvolta liberato quando è riuscito a dominare il retaggio della schiavitù, quando ha avuta la forza di elevare il proprio pensiero al di là della realtà e persino dei sogni. Nella storia è successo raramente e non a tutti, solo alcuni hanno avuto questo privilegio che però spesso è stato da loro pagato con la vita, una vita sacrificata per l’umanità intera. Il primo articolo della nostra Costituzione recita: “L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro”, leggendolo ci illudiamo che sia un inno alla libertà e alla democrazia, ma vi invito a rifletterci in maniera più approfondita. Belle parole, parole sante, penserete; il lavoro ci dà la dignità, l’autonomia economica, ci permette una prospettiva di futuro, ci dà un posto nella comunità, tutto vero, tutto perfetto, se non fosse che il lavoro ci rende schiavi! Ci dicono che è un nostro diritto ma, è chiaro, che si sottintenda, invece, che il lavoro sia inteso come un nostro preciso dovere. Sto dicendo un’eresia, una bestialità, delle belinate senza alcun senso? Allora proviamo a pensare ad un tizio che si alza alle dieci del mattino e vuole fare colazione col latte freschissimo, con dei prodotti dolciari appena sfornati e la focaccia calda. Secondo voi, tutto ciò sarebbe possibile se decine di lavoratori non si fossero alzati otto ore prima di lui per consentirgli di trovarli sul tavolo? Quando prendete un autobus o un treno per spostarvi, avete mai pensato che se non ve la fate a piedi è solo grazie a chi, quei mezzi ha costruiti o conduce, a chi ha perforate montagne per fare delle gallerie, a chi ha stesi chilometri infiniti di binari affinché dei vagoni poi ci corressero sopra? Certo, ma son pagati, mi direte. Certo che son pagati ma un compenso non cambia la sostanza, il fatto è che, il bisogno del lavoro resta, obbligatoriamente qualcuno deve lavorare e sottolineo, deve lavorare, affinché la società sopravviva, almeno nei termini in cui la viviamo. Nulla esisterebbe senza il lavoro, ci vuol poco, quindi, a capire che dove c’è un obbligo non ci possa essere libertà, per cui, fondare una Repubblica sul lavoro significa fondarla non su un diritto ma su una coercizione. Il lavoro ci dà la dignità, rende la persona degna di rispetto e, in qualche modo, ne certifica l’onestà ed il buon comportamento sociale. E’ un lavoratore! Si dice, e la parola “lavoratore” ha una valenza diversa, più alta, cambia il senso intrinseco della stessa, prescinde dal lavoro, non si parla di lavoro ma è un attributo migliorativo della persona. E’ l’azione manuale o intellettiva che fa la differenza? No, non è questo, se una persona non è una persona a modo, non lo diventerà di certo andando a lavorare, così come una persona buona non diventerà cattiva quando dovesse abbandonare il lavoro. La differenza non la fa il lavoro ma la volontà di cercarlo e di svolgerlo nella maniera migliore anche quando questo richiede sacrificio e sofferenza. Però non raccontiamoci balle e abbandoniamo l’ipocrisia, facciamolo, se non altro, per non offendere chi svolge lavori al limite, e non accostiamo la parola "libertà" alla parola lavoro. Andiamo a disquisire sulla bellezza del lavoro con un operaio alla catena di montaggio, magari ad un turnista notturno, in lotta con una macchina ed il sonno che lo assale di continuo. Andiamo a dirlo ad un cameriere che il sabato sera serve da bere a gente che ride e scherza beatamente, diciamogli che il lavoro nobilita, mentre mangiamo e poi rimaniamo lì a ciarlare, proviamo a capire il suo stato d’animo, mentre attende che alziamo il sedere dalla sedia per finire il lavoro che mai finisce. Per questo motivo, mi sento tremendamente a disagio quando sono in un ristorante, non ho quasi il coraggio di guardare in faccia la persona che mi sta servendo, così come proverei imbarazzo qualora dovessi passare davanti alla cucina. “Mi sta servendo” che frase orrenda, io non voglio che qualcuno mi serva, non voglio nessuno che debba lavorare mentre io non lavoro, non voglio che nessuno faccia qualcosa per me se io non faccio nulla per lui, è contro la mia natura e contro le mie idee. E me ne frego se pago per questo servizio, i soldi non sono sufficienti, non rimettono le cose in pari, non possono essere la paga per un sacrificio. Il lavoro lo si cerca e lo si svolge per bisogno, perché è l’unico modo onesto per riuscire a sopravvivere e, sottolineo sopravvivere, non a vivere. La schiavitù generazionale codificata persino nell’articolo della Costituzione, che vorrebbe essere l’essenza stessa della libertà, geneticamente schiavi, illusi di esser liberi solo grazie a dei rettangolini di carta con delle cifre stampate sopra. E così si giunge al paradosso; gli uomini liberati dalla schiavitù proprio da ciò che più li rende schiavi…. Il denaro. I nostri progenitori avranno lavorato sotto il ricatto della paura, per avere del cibo, o magari per non essere uccisi, noi dobbiamo farlo col ricatto delle tasse, lavoriamo non più incatenati ma “volontariamente” per reperire il denaro per poterle pagare. Una trovata geniale per chi non aveva nessuna volontà di rimboccarsi le maniche, a costo zero, anzi a guadagnandoci persino sul lavoro altrui. Uno schiavo doveva essere sfamato in qualche modo, mantenuto sano per poter svolgere il proprio ruolo, col tempo hanno capito che bastava invece, solamente dire: Mi devi questa somma, se vuoi ti do io il lavoro per reperirla, altrimenti cercatelo dove vuoi, basta che paghi! E poiché non c’è limite al peggio, ora siamo al punto che le tasse dobbiamo pagarle, non avendo nemmeno più la possibilità di reperire il denaro per farlo, ma dobbiamo farlo lo stesso, fino a quando il cerchio non si chiuderà e ritorneremo in catene. La vita non è quella che comunemente crediamo sia, quella è solo sopravvivenza. E noi ci crediamo e ci uniformiamo a questo, perché mai, abbiamo pensato che un altro fosse immaginabile e men che mai attuabile. Se abbiamo a disposizione una palla e vogliamo divertirci con essa, pensiamo che la cosa indispensabile sia la palla o le regole utili per giocarci? Le regole, altrimenti a cosa giochiamo, ……. Penserete. Ed è qui l’errore, le regole a che servono senza la palla? E’ la palla il soggetto principale, le regole hanno importanza solamente se si indica il tipo di gioco a cui vogliamo giocare o solo quando tutti d’accordo vogliamo scriverle ma, tutto ciò, viene successivamente. Noi siamo portati a dare la prima risposta perché ci hanno “ammaestrati” ad un unico pensiero e ad un unico gioco, questa è la palla e queste sono le regole per giocarci, e andate a giocare! La palla è la metafora della nostra vita; la intendiamo come ce la fanno intendere, ci dicono sia nostra ma le regole per viverla non le abbiamo fatte noi, le troviamo preconfezionate. Noi goffamente, stupidamente, ciecamente cadiamo nel tranello e viviamo una vita che vita non è, mugugnamo, ci stressiamo, ci ammaliamo e ne moriamo persino, senza capire che non è la vita insopportabile, lo sono le regole, che ci obbligano a viverla in questa triste maniera. Il tempo cambia le cose, ogni cosa, perché non evolvere il pensiero verso nuove concezioni del modo di vivere? Penso spesso a due preposizioni che mettiamo in relazione al soggetto “vita”. La nostra, è la vita “di” o la vita “per”? Ve la sentite di affermare che la vostra vita sia effettivamente quella di…… aggiungete il vostro nome e riflettete. Siete assoluti padroni di essa e la potete gestire a vostro piacimento? Domani, riuscirete a fare qualcosa di concreto, o anche di irreale, se preferite, per giustificare quel “di” che certifica la vostra proprietà? Potrete pensare a chi veramente siete e a cosa veramente volete? Potrete non fare la funzione di una macchina, potrete “non viver come bruti, ma seguir virtute e canoscenza”? E per conoscenza non intendo la conoscenza di luoghi geografici ma quella dei luoghi dell’anima, quelli in cui possiamo trovare noi stessi, quei posti ancora inesplorati che ci possono dare la misura di chi siamo e di cosa stiamo a fare in questo mondo manipolato. No, domattina vi alzerete per correre una corsa ad ostacoli, per spendere ogni vostra energia per trovare i mezzi necessari per far fronte ad impegni che, se fosse stato per voi, mai avreste presi.
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