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Anna Achmatova, voce di un popolo
di Mariacristina Nasi - 12 febbraio 2005
Anna Andréevna Gorènko, nota come Achmatova, nacque nel 1889 a Odessa. Nel 1910, sposò il poeta N. Gumilëv, con il quale si impegnò nella vita letteraria di Pietroburgo. La prima raccolta di liriche, Sera (1912), fu accolta con favore dalla critica; seguirono Rosario (1914), Lo stormo bianco (1917), Piantaggine (1921), Anno Domini MCMXXI (1922).
Lo scoppio della prima Guerra mondiale segnò l'inizio di un periodo travagliato: nel 1918, fallito il primo matrimonio, sposò l'assiriologo e poeta V. Šiléiko, ma anche questa unione finì; nel 1921, Gumilëv venne accusato di aver partecipato a una cospirazione monarchica e fucilato senza processo; nel 1922, sulla Pravda, Trockij definì "irrilevante per l'Ottobre" la poesia della Achmatova, non pubblicata fino al 1940; nel 1925, si unì al critico d'arte N. Púnin, colpito, nel 1935, dalle repressioni staliniane, assieme al suo unico figlio, Lev Gumilëv. Tra il 1936 e il 1942, l'attività poetica riprese: oltre alle liriche, i poemetti Requiem, Lungo tutta la terra, parte delle Elegie del Nord e Poema senza eroe, a lungo inediti per motivi censori. Nel 1941, Achmatova ed altri intellettuali vennero evacuati da Leningrado, assediata dai tedeschi, e trasferiti in Uzbekistan. Tornata nel 1944, nel 1946 il Partito comunista la mise al bando dall'Unione degli scrittori; esclusa da ogni collaborazione letteraria; il figlio nuovamente arrestato; morì a Mosca il 5 maggio 1966.
Achmatova dovette confrontarsi con una realtà che cercò in ogni modo di soffocare i suoi slanci poetici. La sua evoluzione letteraria corrispose ad una maturazione personale e ad una consapevolezza sempre maggiore di quanta forza la sua poesia, così essenziale, ma per questo così vibrante, potesse trasmettere ad un popolo, annullato da un'ideologia disumanizzante. La lirica giovanile è dominata da una dimensione intima e familiare, dalla quale è esclusa la realtà esterna, che irrompe quando Achmatova si confronta con la persecuzione staliniana. Inizialmente ha successo, poiché rappresenta valori accettati; rifacendosi ai principi di chiarezza e concisione dell'acmeismo, riporta la poesia alla quotidianità, alla concretezza, senza sacrificare la musicalità del verso:
«La porta è socchiusa,
dolce respiro dei tigli...
Sul tavolo dimenticati
Un frustino ed un guanto.»
(Da La porta è socchiusa,1911)
Comunica profonde sensazioni attraverso un linguaggio che non abusa della parola, ma la esalta, grazie alle allusioni e ai rimandi. La capacità di descrivere la complessità del sentire umano, con un verso ed una parola essenziali, si ripresenta nell'opera della Achmatova matura, contraddistinta da una profonda riflessività, che analizza i fatti che sconvolgono la Russia, a partire dalla guerra:
«Invecchiammo di cent'anni, e accadde
Nel corso di un'ora sola:
la breve estate volgeva alla fine,
fumava il corpo delle piante arate.
«Di colpo la quieta vita si animò,
volò un pianto, col suo suono argenteo...
coprendo il volto, io supplicavo Dio
di annientarmi prima del primo scontro.
«Dalla memoria, come un peso vano,
dileguò l'ombra di canti e passioni.
Già deserta, l'Altissimo le impose
Di farsi libro orrendo che annuncia l'uragano.»
(Da In memoria del 19 luglio 1914, 1916)
Con l'avvento del comunismo, sente di appartenere ad un mondo scomparso, che la rivoluzione ha abbattuto:
«Una spossatezza crudele travolge
Il giorno e la notte in un cerchio di sangue...»
(Da Pietrogrado 1919)
Nel 1920, non potendo pubblicare le sue poesie, trova lavoro come bibliotecaria; nel 1921, il suo ex marito viene arrestato e fucilato. Da questa esperienza nascono le poesie di Anno Domini MCMXXI:
«L'autunno macchiato di lacrime, come una vedova
In nere gramaglie, oscura ogni cuore...
Ricordando la voce del marito,
singhiozza disperata.
E così sarà, finché la quietissima neve
Non avrà pietà della sofferente ed esausta...
Oblio del dolore e oblio della felicità:
rinunciare per questo alla vita non è piccola cosa.
(Da 15 settembre 1921)
Achmatova attribuisce allo scrittore il compito di essere voce e coscienza della Nazione:
«Io sono la vostra voce, il calore del vostro fiato,
il riflesso del vostro volto,
i vani palpiti di vane ali...
fa lo stesso, sino alla fine io sto con voi.»
(Da A Molti, 1922)
Interpreta la rivoluzione come castigo per il peccato e offre la sua poesia come preghiera di espiazione:
«Dammi amari anni di pianto,
la malattia, l'insonnia, l'affanno.
Portami via il figlio e l'amante
E il misterioso dono del canto.
Così prego durante la tua messa
Dopo tanti giorni penosi,
affinché la nebbia sulla Russia oscurata
sia fugata da una raggiera brillante di luce.»
(Da Preghiera, maggio 1915, Pentecoste)
Nel 1938, il figlio è rinchiuso e torturato nelle prigioni di Leningrado; assieme alle altre vittime della repressione staliniana, Achmatova si reca al carcere, per avere sue notizie:
«[...] ho passato diciassette mesi in fila davanti alle carceri di Leningrado. Una volta qualcuno "mi riconobbe". Allora una donna dalle labbra livide che stava dietro di me e che, sicuramente, non aveva mai sentito il mio nome, si riscosse dal torpore che era caratteristico di noi tutti e mi domandò in un orecchio (lì tutti parlavano sussurrando):
- Ma questo lei può descriverlo?
E io dissi: - Posso.
Allora una sorta di sorriso scivolò lungo quello che un tempo era stato il suo volto.»
(Prefazione a Requiem, 1957)
Diviene "la bocca straziata con cui un popolo di cento milioni grida": la nostalgia del passato lascia posto alla descrizione degli orrori, vissuti da un popolo, e da lei condivisi:
«No, non sotto un cielo straniero,
non al riparo di ali straniere,
io ero allora col mio popolo
là dove, per sventura, il mio popolo era.»
(Epigrafe per Requiem, 1961)
Durante la seconda Guerra mondiale, prende parte alla difesa di Leningrado:
«Sappiamo ciò che sta oggi sulla bilancia,
ciò che oggi si compie.
Sul nostro orologio suonò l'ora del coraggio,
e il coraggio non ci abbandonerà.»
(Da Il coraggio, 1942)
Nel 1945, riceve il segretario dell'ambasciata britannica, rendendosi ancora più invisa a Stalin. Nel 1946, è espulsa dall'Unione degli scrittori, poiché "residuato della vecchia cultura aristocratica... ora monaca, ora sgualdrina o, piuttosto, insieme monaca e sgualdrina in cui la dissolutezza si mescola alla preghiera" (Pravda, 21 settembre 1946). Privata della tessera alimentare; costretta a vivere del cibo che gli amici le passano; il figlio non può laurearsi e, nel 1949, è nuovamente arrestato, torturato, poi condannato a dieci anni di internamento in un campo di lavoro. Disperata, compone una poesia per Stalin (in seguito, vuole sia tolta dalle sue opere), sperando di ottenerne la liberazione, avvenuta solo tre anni dopo la morte di Stalin. La sua indipendenza spirituale mal si combina con il servilismo e l'acquiescenza, richiesti dal regime:
«Da che rovine parlo,
da che baratro grido?
Vivo nella calce non spenta,
sotto volte di fetide cantine.
Chiamino pure muto l'inverno,
sbattano in eterno le eterne porte:
udranno sempre la mia voce,
sempre ancora le daranno ascolto.»
(Da Leningrado, 1959)
Achmatova fuse la sua drammatica storia personale con quella del popolo russo, che amava, divenendo la voce cosciente di una tragedia inaudita.
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