Il premio che non strega

Premio Strega 2023, quattro scrittrici in finale. La prima volta della casa editrice Elliott - Il Fatto Quotidiano

Chi ama la letteratura trova straziante la farsa dei premi letterari e del conseguente codazzo di critici che sta al gioco recensendo favorevolmente i vincitori. Per cui do atto all’antipaticissimo Antonio D’Orrico per avere avuto ancora una volta il coraggio intellettuale di sparare a zero contro una giuria, in questo caso quella del Premio Strega 2023, che al pari di molte altre premia l’ammanco, lo scrivere ineloquente, il delirio parolaio:

“Come il ministro Sangiuliano (premio Fantozzi dell’Anno) non ho letto i finalisti dello Strega, che è ormai un (anti)premio. Infatti, i romanzi più belli della stagione (Gian Marco Griffi, Ferrovie del Messico; Dario Ferrari, La ricreazione è finita*; Sapo Matteucci, Per futili motivi) anche stavolta non hanno vinto. Ho dato un’occhiata agli incipit della cinquina streghesca. “Sei Daria. Sei D’Aria” (Come d’aria, la vincitrice Ada d’Adamo), voto: 3; “Il bambino camminava appiccicato alla madre, tanto che lei si fermò e disse: “Perché mi stai addosso, non vedi che inciampiamo?” (Mi limitavo ad amare te, Rossella Postorino), voto: 3. “Di mia madre, ho soltanto due foto in bianco e nero” (Dove non mi hai portata, Maria Grazia Calandrone), voto: quasi 6 (quella virgola strangola la frase). “Per costruire bisogna prima scavare, mi sembra di averlo sempre saputo. Si prepara uno scavo e si gettano le fondamenta” (La traversata notturna, Andrea Canobbio), voto 4. “Cap Juby, 27 febbraio 1928. Madre carissima, vi chiedo scusa per il ritardo, so di avervi abituata ad altri ritmi” (Rubare la notte, Romana Petri), voto: 4.”

*L’ho letto per due volte a metà, ma solo perché il protagonista mi sta antipatico. Lo consiglierei a chi fosse interessato alla scrittura contemporanea.

Valérie Perrin: 6,5 per Tre

Amicizia, amore e ricerca della propria identità in “Tre”, nuovo libro di Valérie Perrin – ilLibraio.it

A inizio articolo neppure il temibile Antonio D’Orrico sapeva risolversi ma poi, nella sua pagella, ha contrassegnato Tre di Valérie Perrin con un sei e mezzo che, leggendo tra le righe, suona più che altro come un omaggio a una scrittrice che per converso l’ha molto entusiasmato col libro precedente, quel Cambiare l’acqua ai fiori di cui, grazie a un inesausto passaparola, si continua a parlare nonostante sia uscito a luglio del 2019. Ora, a meno che D’Orrico non sia rimasto vittima di un colpo di sole, come può giustificare la piena sufficienza, portando all’attenzione dei suoi lettori un periodo come questo?

Lui si era riportato all’altezza della sua faccia, la sua bocca sapeva di sesso umido. Nina aveva desiderato scappare di corsa, tornare a essere una bambina di sette anni non più alta di una staccionata“.

E come se non bastasse, ha ritenuto degna di nota una frase che a me non sembra inedita: “La verità è volgare“; ma anche ammesso che lo sia, sarà di certo materiale di risulta perché della verità si è già detto tutto e il contrario di tutto e definire volgare la verità non mi sembra un concetto particolarmente illuminato. Per fortuna D’Orrico conclude l’articolo con un voltafaccia che lo riabilita: “Voto sei e mezzo di circostanza (lo so che suona come “Sentite condoglianze”, infatti ho il cuore scuro scuro).

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Per dimenticare tanta pochezza a cui arride però un immenso successo commerciale (questa settimana Tre è al primo posto dei libri più venduti, mentre Cambiare l’acqua ai fiori è al settimo), una pagina di Pia Pera che merita d’essere letta e riletta.

Non sono più la stessa persona. Alla diversa andatura, alla lentezza nel camminare, la circospezione con cui procedo di passo in passo, la cautela con cui considero se valga davvero la pena di muoversi o no, corrisponde una percezione nuova del mondo. Credo che adesso non proverei più lo stesso stupore misto a diffidenza di fronte alle opere di un’artista scandinava che, anni fa, venne a trovarmi nel mio podere. Mentre passeggiavamo, non faceva che chinarsi per raccattare frutti rinsecchiti, foglie appassite, baccelli anneriti dalle intemperie. Bah! avevo pensato tra me, al giorno d’oggi qualsiasi gesto passa per arte. L’avevo lasciata fare, per nulla convinta in cuor mio della qualità o anche solo del senso del suo lavoro. E del tutto indifferente alle sue «ruberie»; dopotutto, quello che raccattava era spazzatura: frutti marci, fiori sfatti, qualsiasi cosa non avesse più corso, uso di mondo.

C’è voluto tempo per cominciare a capire. Non immaginavo tuttavia che, ben presto, mi sarei percepita anch’io come quelle povere cose raccattate, al punto d’incontro tra due energie: conservazione e distruzione. Organismi in decadenza, in bilico tra essere e non essere. Chissà che un momento prima di venir meno non si manifestino, con intensità forse acuita, se non vera e propria bellezza, un pathos, un’espressività insospettati. Quasi che, rendendo l’anima a Dio, le cose sprigionassero, per un attimo e quell’attimo soltanto, una qualità che passa inosservata quando il corpo, godendo perfetta salute, è troppo turgido, troppo opaco, troppo spesso. Troppo materiale.

Adesso che mi sento come uno di quegli scarti, provo una serenità diversa, una serenità per la prima volta vera e profonda. Sprigiona adesso che il corpo ha perso un poco del suo spessore.

La leggerezza interiore nasce forse dal sentirmi libera dalla zavorra terribile del futuro, indifferente al cruccio del passato. Immersa nell’attimo presente, come prima mai era accaduto, faccio finalmente parte del giardino, di quel mondo fluttuante di trasformazioni continue“.

Pia Pera, Al giardino ancora non l’ho detto

Obama, il sopravvalutato

Barack Obama. Una terra promessa | Alter Media

A proposito di Una terra promessa di Barak Obama, il mio critico prediletto, Antonio D’Orrico, a conclusione della quasi stroncatura del libro – scaturita dall’aver letto “800 pagine di rimuginìo obamiano” -, ricorre a una frase di Christopher Hitchens “Le quattro cose più sopravvalutate nella vita sono lo champagne, l’aragosta, il sesso anale e i picnic“, e poi aggiunge: “E i presidenti degli Stati Uniti“.

Che Obama sia stato sopravvalutato è opinione piuttosto comune, e qui troviamo una disanima ben articolata in tal senso. Per parte mia sospendo il giudizio sull’Obama politico, e da lettrice doc sconsiglierei a chiunque di pubblicare un testo di 800 pagine o più. Perché in letteratura le imprese titaniche di successo sono prerogativa dei grandi scrittori.

P.S. Boccerei Obama già solo per la dedica che apre il libro:

A Michelle, mio amore e compagna di vita

e

a Malia e Sasha, la cui luce abbagliante fa scintillare ogni cosa.

Su Barak, puoi fare di più.