Il #MeToo, 5 anni dopo e un errore di troppo

Il 5 ottobre 2017 un reportage del New York Times dava il via a quel movimento, il #MeToo, che avrebbe portato all’attenzione mondiale la “consuetudine” di abusare del corpo delle donne in virtù di dinamiche di potere maschio-femmina di chiaro stampo patriarcale. Sono passati cinque anni, il sovvertimento delle regole ignobili non c’è stato, e i risultati sono stati superficiali. A volerne analizzare la cause il discorso si farebbe lungo, ma le conclusioni si possono trarre grazie ad alcune dichiarazioni di Susan Faludi, giornalista e femminista. Cito, a cominciare dall’errore di troppo:

Hollywood si è impossessata di una battaglia che inizialmente riguardava le donne più emarginate, più povere: raccoglitrici di fragole costrette a concedersi ai “caporali” per poter lavorare, madri single costrette a fare lo stesso per vedersi assegnare la casa che gli spettava di diritto. Per carità, la denuncia delle attrici era sacrosanta. Ma ha focalizzato l’attenzione su di loro levando spazio alle altre battaglie e frenando l’impegno su diritti basilari. E invece il rischio di perdere diritti acquisiti è costante“.

E ancora, ma questa volta in merito al politicamente corretto:

Un linguaggio appropriato è meglio, ma attenzione a non concentrarci troppo sulla forma. Usare il linguaggio giusto non vuol dire essersi veramente evoluti. I cambiamenti profondi sono il frutto di mobilitazioni di massa“.

Ora, la nostra è una società sessuata e dunque dal sesso non si prescinde. Basterebbe, tuttavia, che alla sua base vi fosse il rispetto, ad esempio il no della donna inteso come uno stop che non ammette fraintendimenti. Riusciremo mai a riveder le stelle?

Fempowerment on Twitter: "#MeToo fortsätter! Låt oss också komma ihåg att Tarana Burke startade rörelsen redan 2006! <3 https://t.co/spCk7EKGrz" / Twitter

Tarana Burke, ideatrice del movimento

Il sesso ai tempi del consenso

Men should avoid having sex with women who have drunk any amount of alcohol, says barrister | The Independent | The Independent

Il libro di Katherine Angel, Il sesso che verrà, prova a far luce sulla cosiddetta cultura del consenso in base alla quale la donna, durante un amplesso, dovrebbe dichiarare in maniera incontrovertibile che quello che l’uomo sta facendo le piace, e che non si sente in alcun modo violata.

Sono note a tutti le vicende che hanno dato vita al movimento #MeToo e diciamo pure che hanno reso un buon servizio alle donne che non vanno con un uomo per interesse (le mercenarie fanno giurisprudenza a sé). Ma in base al principio del consenso, come deve comportarsi un uomo? Dovrebbe chiedere: posso baciarti qui? ti dispiace se passo per di qua? mi useresti la cortesia di farmi questo? Capite bene che dinamiche del genere congelerebbero la focosità di un toro, e comunque nessuna donna morirebbe dalla voglia di rispondere a un questionario di tal fatta (sono altre le pseudo domande che la stuzzicano). Ora, fermo restando il sacrosanto diritto di lei di sottrarsi in qualsiasi momento al rapporto sessuale in atto – e sotto questo aspetto è solo lui che può permetterlo dal momento che difficilmente una donna può avere ragione della forza di un uomo – qualora questi fosse preso dalla foga, e osasse una mossa azzardata, dobbiamo subito pensare allo stupro che tra l’altro è una delle fantasie femminili ricorrenti? Nel momento in cui le donne decidono di fidarsi di un uomo, e ovviamente dio non voglia che si tratti uno stupratore seriale, devono lasciarsi andare e lo stesso deve poter fare il partner. Diversamente, un bel voto di castità collettivo e la chiudiamo qui.

P.S. Alcuni versi di una canzone di Gianni Bella che, nell’ottica di cui sopra, risulterebbero scorretti. (Solo per sorridere)

È sempre un’avventura
Rimettersi con te
Ma io non ho paura
Del porno sono il re
Un re senza corona
Quante nevrosi ho
Un re che te le suona
Se mi dirai di no

Ghislaine Maxwell: complice o vittima di Epstein?

Newly Seen Photos Show Jeffrey Epstein and Ghislaine Maxwell as 'Best of Friends'

Ghislaine Maxwell, ex compagna e assistente del finanziere pedofilo Jeffrey Epstein, morto suicida in carcere, è sotto processo per traffico sessuale di minorenni; rischia una condanna a 80 anni, ma sa di avere dalla sua un ottimo collegio difensivo che ha già provveduto a presentarla come agnello sacrificale facendo leva sul fatto che, morto il vero colpevole, all’accusa non rimane altro che far ricadere le colpe di lui sulla donna alla quale è stato legato per vent’anni. Ed è proprio in quest’ottica che l’avvocata femminista Bobbi Sternheim ha voluto essere netta: “Da quando a Eva è stata data la colpa di avere tentato Adamo con una mela, le donne sono state accusate per i crimini degli uomini, e le donne sono spesso denigrate e punite più degli uomini“. All’altra donna della difesa, Laura Menninger, il compito di fare a pezzi le testimoni d’accusa, ed è apparsa così compresa nel ruolo che, durante un’udienza, una delle sventurate ha ripetuto più di venti volte “non ricordo” nell’arco di dieci minuti.

Accusa e difesa sono rappresentate da donne, e donna è la giudice Alison J. Nathan. Per combattere lo spettro del #MeTo, la difesa sembra contare sul fatto che se un’avvocata mette in dubbio la credibilità delle testimoni, anche la giuria potrebbe risolversi in tal senso. Inoltre il movente dell’imputata non è di quelli da far tremare i polsi, giacché la si accusa di aver soddisfatto i desideri sessuali di Epstein per mantenere il tenore di vita a cui lo stesso l’aveva abituata, arrivando a versarle 30 milioni di dollari dal 1999 al 2007.

In alto una delle 15 foto ritrovate dall’FBI nel 2019 a casa Epstein.