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Juliet Berto: "Bisogna tenere a mente il colore della propria ferita per farlo risplendere al sole"

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Marai

Post n°2025 pubblicato il 14 Marzo 2015 da ossimora
 




«Il dolore è passato.

 La vita lo ha trasformato in qualcos’altro; dopo averlo provato, dopo aver singhiozzato, lo si nasconde agli occhi del mondo come una mummia da custodire nel padiglione funerario dei ricordi. 

Passa anche il dolore provocato dall’amore, non credere. 

Rimane il lutto, una specie di cerimonia ufficiale della memoria.

 Il dolore era altro: era urlo animalesco, anche quando stava in
silenzio.

 È così che urlano le bestie selvatiche quando non comprendono qualcosa nel mondo – la luce delle stelle o gli odori estranei – e cominciano ad avere paura e ululare. 

Il lutto è già un dare senso, una ragione e una pratica.

 Ma il dolore un giorno si trasforma, la vanità e il risentimento insiti nella mancanza si prosciugano al fuoco purgatoriale della sofferenza, e rimane il ricordo, che può essere maneggiato, addomesticato, riposto da qualche parte.

 È quel che accade ad ogni idea e passione umana».

 Sándor Marái, “Il gabbiano”, Adelphi, Milano

 
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ossimora
ossimora il 14/03/15 alle 12:46 via WEB
È facile amare qualcun altro, ma amare ciò che sei, quella cosa che coincide con te, è esattamente come stringere a sé un ferro incandescente: ti brucia dentro, ed è un vero supplizio. Perciò amare in primo luogo qualcun altro è immancabilmente una fuga da tutti noi sperata, e goduta, quando ne siamo capaci. Ma alla fine i nodi verranno al pettine: non puoi fuggire da te stesso per sempre, devi fare ritorno, ripresentarti per quell’esperimento, sapere se sei realmente in grado d’amare. È questa la domanda – sei capace d’amare te stesso? – e sarà questa la prova. […] » (C.G.Jung, Lo Zarathustra di Nietzsche,
 
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