Trevi vince il Premio Strega e il giardino di Pia torna a fiorire

Neri Pozza Editore | Emanuele Trevi

Emanuele Trevi ha vinto il Premio Strega con un libro che teoricamente potrebbe finire tra le mani del non-lettore non solo come conseguenza del riconoscimento prestigioso, ma anche perché ha dimensioni contenute e solo 128 pagine. Detto ciò, se è vero che nella botte piccola c’è il vino buono, questo è il caso di ribadirlo: Due vite racconta senza fronzoli, ma forse proprio per questo in modo magistrale, la parabola esistenziale di due amici di Trevi, anch’essi scrittori: Rocco Carbone e Pia Pera. Già da ore vengono versati, come si diceva un tempo, fiumi di inchiostro in lode di Trevi. Ma uno scrittore lo celebri leggendolo. A seguire un estratto.

Non ce ne accorgiamo nemmeno, eppure, quando ci sentiamo stanchi, non dovremmo pensare solo a ciò che abbiamo fatto, ma all’oscuro lavoro di sottrazione e rinuncia che ci costa la nostra consistenza, nella veglia e nel sonno. Credo che avessero ragione gli antichi filosofi che supponevano uno strato della nostra anima in comune con altre specie di esistenza, una dimensione “vegetativa” del nostro essere che tende a sfuggire alla coscienza come l’attività di un organo involontario. L’individuo che recupera alla sua consapevolezza questa forza negatrice, questo potere cieco di pura persistenza, questo ritmo stagionale di espansione e contrazione, riconoscendosi per questa via intuitiva in ogni fenomeno della vita cosmica, non considerandosi molto diverso da un cane randagio, da una venatura del marmo, da un cespuglio di rosmarino, ha ottenuto qualcosa di molto simile alla salvezza. Invece di rinunciare all’egoismo (come se fosse possibile!) lo ha attraversato fino in fondo, ed è sbucato nella libertà senza bisogno di abiurare nessuna maschera indossata in precedenza. Questa è stata la strada di Pia, e questa strada conduce a qualcosa che è insieme metafisico e fisico al grado supremo: un giardino. È un’idea che si può calpestare, che lascia tracce sulle scarpe. In un giardino, ciò che pulsava nel buio, la forza oscura e caparbia che si consuma resistendo alla morte, affiora alla luce. La freccia e il circolo trovano il loro punto di identità. Quando immagino Pia nel suo giardino, una cesta di vimini in una mano e una piccola zappa nell’altra, non mi viene in mente solo un essere umano che rende vivibile o addirittura bello uno spazio estraneo. Quella che mi si fa incontro è un’immagine della totalità della vita, un’immagine che racchiude in sé ciò che è possibile sapere e ciò che non si può sapere, il giorno e quella parte della notte che, come nelle sonate di Chopin, non diventa mai la luce dell’alba, non passa, permane“.

Emanuele Trevi, Due vite

Colgo l’occasione per far rifiorire anche il mio giardino. Circa un anno fa proposi in un altro blog alcune pagine del libro in oggetto; Arienpassant, che ha il dono di scrivere anche di ciò che non ha visto, si cimentò con una versione del mio giardino. Non nascondo che ho lasciato passare molto tempo prima di andare a rileggere quelle righe, e quando l’ho fatto per la terza o quarta volta l’altro ieri, confidavo che il dolore che avrei provato leggendo del mio buen retiro irrimediabilmente perso, avrebbe fatto meno male. Non è andata così. Ma a volte si piange anche per la bellezza di un ricordo. E viene facile rinserrare il rimpianto.

“Il giardino, fra l’altro, pur senza gli occhi e senza spiegarsela, non avverte solo l’assenza e l’abbandono che lo riporta all’anarchia selvaggia delle erbe infestanti per tagli e potature che appartengono solo ad antichi ricordi. Quel privilegio concesso agli artisti perché ‘scapigliati’ e non concesso agli altri che, invece, vengono liquidati con ‘disordinati’. Oltre all’assenza, però, credo che il giardino avverta anche la diversità quando passa da una mano all’altra.

“Avete sentito?”, disse Gelsomino.
“Cosa?”, gli chiesero le rose.
“Non ha più la erre moscia”
“Sarà andata dal logopedista”, disse Tea facendo ridere le altre.
“Ma no, anche la voce non è la stessa”, rispose Gelsomino.
“E’ vero… anche le mani… io dico che non è la stessa”, disse Ulivo.
“Ricordate quella volta, inizio ottobre, che si arrabbiò e disse “non si dice moscia, ma arrotata” e Gelsomino, imitandola rispose “anche quella di arrotata però è moscia”, e Ulivo cominciò a ridere agitando i rami fino al punto che le olive caddero da sole. “Ve lo ricordate?”, chiese Tea.
“Sìììììììì”, dissero in coro e Gelsomino aggiunse: “e lei se ne andò dicendo: “Spiritose! Peggio per voi, niente acqua per due giorni”, e dopo due ore cominciò a piovere e piovve proprio per due giorni”
“Non ve l’ho mai detto”, intervenne Edera, “dopo un po’, lei si affacciò dietro ai vetri e scuotendo dolcemente la testa guardò verso il cielo e sorrise, e sono sicura che fosse contenta di quella pioggia”
“Mannaggia, mi manca”, disse Gelsomino.
“Anche a me…” disse Ulivo con le foglie umide di rugiada per le risate o, forse, non per quelle. [Arienpassant – Il giardino ancora non me l’aveva detto]