E so benissimo che non ci sarai.
Non ci sarai per strada, nel mormorio che sgorga di notte
dai pali della luce, neppure nel gesto
di scegliere dal menù, neppure nel sorriso
che allevia i vagoni pieni della metro,
neppure nei libri prestati neppure negli a domani.
Non ci sarai nei miei sogni,
nella meta originaria delle mie parole,
neppure in un numero di telefono ci sarai
o nel colore di un paio di guanti o di una camicetta.
Mi arrabbierò, amore mio, e non sarà per colpa tua,
e comprerò cioccolatini ma non per te,
aspetterò all’angolo al quale non verrai,
e dirò le parole che si dicono
e mangerò le cose che si mangiano
e sognerò i sogni che si sognano
e so benissimo che tu non ci sarai,
neppure qui dentro, la prigione dove ancora ti trattengo,
neppure là fuori, questo fiume di strade e di ponti.
Non ci sarai affatto, non sarai nemmeno ricordo,
e quando penserò a te penserò un pensiero
che oscuramente cercherà di ricordarti.
Julio Cortázar, Il futuro
traduzione di Marco Cassini
Cantare dell’amor perduto come si faceva un tempo, prima dell’avvento di iPad e smartphone, quando si affidava l’epifania di un momento a un pezzo di carta di fortuna. Così m’appare questa poesia di Julio Cortázar (in realtà più scrittore che poeta), della cui malinconica essenzialità, in un soprassalto di superbia, sarei portata a dire che dopotutto non è nulla di trascendentale. Ma ho letto troppo, e troppo approfonditamente, per non sapere che quello che appare come un accidente della casualità è opera della stessa perizia di un’opera in musica, il cui arrangiamento magistrale non può che poggiare su una solida grammatica delle partiture. C’è che il poeta è come un alchimista, con la differenza che nel suo caso a trasformarsi in oro sono le parole. Le stesse a tutti note, ma che in mani inesperte restano pietre.