LUX IN FABULA: IL RECUPERO DEL PATRIMONIO NATURALISTICO E ARCHEOLOGICO DELLA CONCA DI AGNANO

Prima o poi l’impegno e la pazienza ripagano, portando i frutti sperati.

È così che, dopo più di due anni dalla prima proposta datata febbraio 2017, giovedì 30 maggio, presso il plesso scolastico alberghiero G. Rossini sito ad Agnano, l’Associazione Lux In Fabula, presieduta da Claudio Correale, con la collaborazione del Comitato Civico Pendio Agnano, presenterà un progetto per il recupero dei siti archeologici e del patrimonio naturalistico dell’intera Conca di Agnano, coinvolgendo gli alunni dei tre istituti superiori della zona – Rossini, Boccioni, Labriola.

La conferenza, prevista per le 15,30, a cui sono stati invitati i Presidi degli altri due istituti coinvolti nel progetto, sarà aperta da Claudio Correale che spiegherà cosa è Lux In Fabula e quali attività svolge sul territorio. Quindi la parola passerà alla professoressa Anna Di Corcia per descrivere il patrimonio artistico e archeologico tuttora esistente nella Conca di Agnano, del tutto ignoto ai più. La serata verrà conclusa da Aldo Cherillo del Comitato Civico, il quale racconterà in maniera dettagliata la storia del Lago di Agnano e dell’economia che sorgeva e si sviluppava sulle sue sponde fino a quando non fu bonificato dopo l’unità di Italia.

L’intento del progetto è far scoprire a quanti non conoscono questa realtà storica e naturalistica, obliata da oltre un secolo, quanto importante fosse la Conca di Agnano e quanti e quali siti archeologici di importanza straordinaria, oggi del tutto abbandonati alle sterpaglie e al degrado, vi sorgevano e tuttora vi sorgono nell’assoluto anonimato senza che le istituzione facciano nulla per ridare loro un pizzico di dignità. Senza tralasciare le oramai disastrate Terme di Agnano, il cui glorioso passato oggi è solo un pallido ricordo.

Il progetto prevede il coinvolgimento delle scuole e dei cittadini affinché ragazzi e adulti acquisiscano consapevolezza del valore del proprio territorio; adoperandosi in maniera sinergica, costruttiva e responsabile per recuperarlo e preservarlo al fine di rilanciare a livello civico e turistico l’intera area della Conca di Agnano.

FIORELLA FRANCHINI CI RACCONTA IL SUO ROMANZO “IL VELO DI ISIDE”

 

Di seguito l’intervista integrale pubblicata su comunicaresenzafrontiere.it

Fiorella il tuo romanzo, Il Velo Di Iside, è un romanzo storico con venature misteriosofiche, oserei dire esoteriche, visto il tema trattato. Ti piace questa definizione, o preferisci dargliene una diversa?

Preferisco considerarlo soprattutto un romanzo storico. Le venature esoteriche derivano dal fatto che il culto di Iside si è prestato nel tempo a queste interpretazioni in quanto sia il tempio che il culto di Iside sono stati utilizzati dalle società esoteriche e massoniche. Ma si tratta essenzialmente di un romanzo storico che possiede tre piani di lettura: sentimentale, thriller e storico.

In termini e tempi di fatica, quanto ti è costata la ricerca storica?

Un anno di letture e studi tra saggi, articoli e romanzi per cercare di inquadrare bene il periodo storico per evitare di dire sciocchezze. Quando si scrive un romanzo storico, lo scrittore fa un patto con il lettore assumendosi la responsabilità di narrare storie verosimili in assoluta attinenza con l’epoca in cui si dipana la trama. Bisogna dunque inquadrare bene l’epoca per evitare gli strafalcioni. Seppure il lettore sa benissimo che si appresta a leggere una storia di fantasia, il contorno deve essere assolutamente realistico affinché si senta coinvolto mentre legge.

Pur essendo i protagonisti del romanzo frutto della tua fantasia, Livilla Claudia, la sacerdotessa, ha un riferimento storico reale in cui potremmo identificarla?

No. Tutti personaggi sono assolutamente inventati, non avendo attualmente riscontri storici legati alla presenza del culto di Iside a Napoli. Lo stesso tempio di Iside a Neapolis non è stato ancora ritrovato. Tuttavia abbiamo delle indicazioni da Bartolomeo Capasso che lo poneva nel centro storico di Napoli dove oggi è allocata la statua del fiume Nilo. Addirittura si suppone che la stessa Cappella San Severo facesse originariamente parte del nucleo urbano in cui sorgeva il tempio di Iside, essendo tutta quella zona anticamente abitata da una nutrita comunità egiziana. Seppure tuttora del tempio non si hanno tracce, considerando anche la toponomastica di quella zona in cui molte vie e vicoli hanno nomi che richiamano all’Egitto, è probabile che davvero il tempio fosse edificato in quell’area e fosse sontuoso come l’ho immaginato. Non si può escludere che, avendo Napoli subito nel corso dei secoli continue invasioni di popoli diversi, ognuno dei quali riadattava l’aspetto urbanistico e architettonico della città in rapporto alle proprie usanze e esigenze, scavando in profondità nel sottosuolo, prima o poi, non venga alla luce il tempio reale. Nello stesso tempo ho cercato di dare vita a una figura di sacerdotessa un po’ romanizzata in quanto l’avvento dei romani a Napoli influenzò tutto ciò che l’aveva preceduto. Lo vediamo con la statuaria: l’Iside egiziana è diversa dall’Iside romana, come possiamo constatare visitando la mostra del sacro alla Pietrasanta dove è esposta una statua di Iside di matrice romana, non a caso denominata Iside Romana.

Tu sai che anche a Cuma sono stati rinvenuti resti di un tempio di Iside…

A Cuma hanno trovato qualcosa, ma nulla esclude che anche a Pozzuoli non ci fosse un iseo. Non dimentichiamo che il bradisismo ha sommerso tanti tratti della costa per cui non possiamo escludere che i resti del tempio non siano sommersi. Il culto di Iside era molto diffuso sia nei porti che in tutta la Campania. Essendo stata Pozzuoli il primo porto commerciale dell’Impero Romano, fino a quando non fu costruito quello di Ostia, è improbabile che nel capoluogo flegreo non vi fosse un iseo.

Iside è una delle tante iconografie con cui viene rappresentata la Grande Madre…

Sì, in lei convergono tutte le attribuzioni che anticamente caratterizzavano il sacro femminile. Partendo appunto da Iside, passando per Ishtar, Artemide, Giunone fino poi a trasformarsi in quella che oggi noi riconosciamo come la Madonna. Iside raggruppa in sé tutte le caratteristiche del femminile divino, travalicando le singole religioni: la fedeltà, la maternità, l’amore.

Potrebbe ritenersi una scelta di genere il motivo per cui tu abbia narrato le vicende di una sacerdotessa di Iside?

Non credo. Quando in passato ho scritto romanzi di avventura, in molti mi attribuivano una scrittura di stampo maschile. Ovviamente, narrando il romanzo una storia d’amore, quest’aspetto particolare l’ho visto dal punto di vista femminile. Nello stesso tempo al protagonista, il navarco Valerio Pollio, uno dei tre comandanti della flotta romana di stanza a Miseno, ho attribuito la passione per la poesia, cosa insolita per un soldato. Ma da donna mi piaceva l’idea di dargli una venatura romantica.

Oltre a Il Velo Di Iside, quale altro romanzo hai pubblicato?

Korallion. Anche quello è ambientato tra Partenope e i Campi Ardenti, essendo innamorata di entrambi i luoghi. Lì ho cercato di rappresentare i popoli italici che hanno preceduto i romani, dai sanniti agli etruschi che vennero in queste terre alla conquista di Cuma. Per quanto riguarda i Campi Ardenti, ossia i Campi Flegrei, era un luogo dove, lo dico sempre, c’era già la leggenda prima che iniziasse la storia! Non a caso i greci avevano situato nei Campi Ardenti l’ingresso all’Ade; Ercole vi aveva imprigionato i giganti; lì c’era la Sibilla. Era un luogo già conosciuto prima ancora che la storia cominciasse. Era un sito mitico come pochi che mi dà sempre intense suggestioni. Anche in quel caso ho immaginato la storia d’amore tra un re etrusco e una fanciulla greca cui si intreccia la scomparsa del corpo della sirena Partenope deposto sull’isolotto di Megaride. La ricerca che ne segue sviluppa la storia in tutta la Campania. Anche in questo caso ho dovuto fare una grossa ricerca storica e poi ho fatto leggere quanto avevo scritto a un archeologo per evitare di dire inesattezze.

Come e quando nasce Fiorella Franchini scrittrice?

Nasce a dieci anni quando vinsi il mio primo premio di poesia. Da allora non ho mai smesso di scrivere. All’età di vent’anni ho iniziato la mia carriera da giornalista e solo nell’89 ho iniziato a scrivere romanzi. Essendo una salgariana, le miei prime storie erano avventure ambientate in Africa, nella ex Iugoslavia, in Vietnam. Poi ho deciso di parlare della mia terra, ma in maniera diversa, uscendo fuori dagli stereotipi positivi e negativi, trattandone la storia antica.

Hai intenzione di scrivere qualcosa su Pompei?

Ci sto pensando.

I tuoi progetti per il futuro come scrittrice?

Prima di tutto ho intenzione di continuare a collaborare come giornalista per Il Denaro occupandomi di cronaca culturale, recensendo libri e parlando di eventi e mostre.

Oltre a scrivere, sei donna e madre.

Anche lavoratrice, sono funzionario alla Corte di Appello di Napoli.

Come riesci a gestire questa tua triplice funzione?

Non lo so, l’importante è esserci riuscita senza mai rubare né tempo né spazio alla famiglia. Finora con la scrittura ho ottenuto delle belle soddisfazioni, pur non essendo uno scrittore di bestseller. Ma mai disperare!

 

INTERVISTA AD ANDREA AULETTA, AUTORE DEL ROMANZO “AMORE CANE”

Di seguito l’intervista integrale pubblicata su comunicaresenzafrontiere.it

Pozzuoli. Sabato 25 maggio da ‘A Puteca ‘E ll’Arte di Vania Fereshetian, si è presentato il romanzo AMORE CANE di Andrea Auletta, 44 anni, architetto. Abbiamo colto l’occasione per intervistare l’autore.

Andrea il tuo romanzo, Amore Cane, racconta l’amore tra l’uomo e la natura.

Sì, è un amore con la natura vissuto attraverso il rapporto tra il protagonista e il cane che lo aiuta a riscoprire l’autenticità delle cose, il piacere di uno stile di vita più calmo, più umano!

È un amore cercato, nel senso che lui il cane lo vuole, o nasce all’improvviso, per caso?

All’improvviso. Mentre sta lavorando, viene colto da un attacco di panico; scappa dall’ufficio, sale in macchina e, camminando, si ritrova in campagna. A questo punto scende dall’auto e si calma. Passeggiando nel verde, si imbatte in un casolare dove al cancello d’ingresso è legato un cane che, non appena lo vede, inizia ad abbaiare. Mentre si avvicina, nota che l’animale ha le mammelle sporgenti per cui capisce che si tratta di una cagna che ha da poco partorito. Nel frattempo compare Nicola, il proprietario del cane, personaggio chiave, con cui il protagonista fa amicizia. In quel contesto decide di adottare un cucciolo della cagna e da lì nasce poi la storia.

Dunque il romanzo sarebbe una metafora attraverso cui tu lanci il messaggio che per ritrovare se stesso l’uomo deve ricoprire l’amore per la natura…

Non solo per la natura, ma prima di tutto riscoprire l’amore per se stesso e per la sincerità. Con il titolo, Amore Cane, ho voluto indicare che solo riscoprendo la sincerità dei gesti naturali potremmo vivere meglio. Come ogni animale, un cane quando ringhia, abbaia, quando morde, scodinzola o ti fa le feste è sempre sincero, a differenza di tante persone che si vestono di ipocrisia. Ritorniamo a essere un po’ più sinceri con noi stessi e con gli altri. Liberiamo il nostro istinto!

Dunque, paradossalmente, attraverso il tuo romanzo, ci inviti a ritornare a essere un po’ più istintivi, ovvero animali, anziché razionali. Fai tuo il messaggio di Rousseau, De Foe e altri filosofi e scrittori vissuti a cavallo tra il diciottesimo e diciannovesimo secolo per i quali l’uomo, per essere felice, doveva ritornare a vivere allo stato primitivo in sintonia con la natura.

Perfetto, riscopriamo la nostra innocenza! Torniamo ad avere il coraggio di essere noi stessi senza reprimere gli slanci emotivi come se fossero qualcosa di cui vergognarci. Perché avere pudore dei nostri sentimenti, delle nostre emozioni, di quel che siamo davvero?

Questo è il tuo primo romanzo?

È il primo che ho pubblicato, seppure nel famoso cassetto ne ho diversi terminati. E poi ho pubblicato una raccolta di poesie.

Da sempre sostengo che sia più facile per chi scrive versi cimentarsi con la prosa che non viceversa. Me lo confermi?

Non saprei… Personalmente scrivo in versi da sempre, è un fatto istintivo! Ma ora che mi ci fai pensare, volgendo la mente a molti scrittori veri, noto che chi scrive poesie, spesso scrive anche romanzi. Mentre è difficile che chi scrive romanzi si cimenti anche con la poesia.

Come nasce la tua passione per la scrittura?

È una cosa innata che ho fin da piccolo. La scrittura per me da sempre rappresenta il mezzo attraverso cui do voce alla mia interiorità, comunicando al mondo che mi circonda ciò che ho nell’anima: una sorta di terapia!

Le tue letture preferite?

Proprio oggi mi è arrivato La Favola Bianca di Antonio Moresco, uno scrittore che amo molto. Così come mi piace molto Franco Arminio. E ovviamente i classici.

Tu di professione sei architetto: come riesci ad abbinare il tuo spirito artistico di scrittore e, soprattutto, di poeta, con quello razionale, oserei dire matematico, dell’architetto?

Seppure, come dici, la mia professione contempli aspetti caratteriali di tipo matematico, allo stesso tempo richiede anche molta creatività, se pensiamo alla progettazione. Se poi vogliamo addentrarci in un altro campo, quello giuridico e burocratico, visto che sono CTU al tribunale di Napoli, lì entrano in gioco solo i fattori razionali. Diciamo che riesco a gestire in maniera molto equilibrata la mia parte razionale con quella fantasiosa e istintiva, evitando che una prevalga sull’altra.

Quanto tempo hai impiegato per scrivere il romanzo?

Oltre un anno. Quando iniziai a scriverlo, non sapevo esattamente come si sarebbe sviluppato. L’ho scoperto man mano che andavo avanti con la stesura.

Quindi quando scrivi non hai in mente un canovaccio da seguire.

No, non sempre. Nel caso specifico avevo un’idea di base, ma non sapevo come si sarebbe poi ampliata. Preferisco che le cose scivolino via da sé, senza una forzatura di fondo. Ovviamente tutto si incastra con il messaggio che voglio trasmettere, quello sì che ce l’ho bene in mente!

Progetti per il futuro?

Sto scrivendo altri tre romanzi.

In contemporanea?

Sì! Se nel corso della stesura di una storia mi viene lo spunto per un’altra, mi fermo e passo a quella nuova per non perdere l’idea. Poi sono in lizza per un concorso letterario.

Auspichi di riuscire a vivere un giorno solamente di scrittura?

Mi piacerebbe, ma so che non è semplice!

DA LUX IN FABULA SALVATORE BRUNETTI HA PRESENTATO IL SUO SAGGIO SUL DIALETTO PUTEOLANO

Di seguito la versione integrale dell’articolo pubblicato su comunicaresenzafrontiere.it

Pozzuoli. Sabato 19 maggio da Lux in Fabula, per la rassegna QUATTRO CHIACCHIERE CON L’AUTORE, Salvatore Brunetti ha presentato il saggio “Dialetto Puteolano”, edizioni Lux In Fabula.

L’autore ha spiegato al folto pubblico presente in sala che lo spunto gli fu dato dal maestro Roberto De Simone il quale, ritenendo il puteolano un dialetto musicale per via dei continui sbalzi di tono che lo caratterizzano, motivo per cui invece molti lo considerano sguaiato, lo sollecitò affinché, dopo lo studio sul napoletano pubblicato molti anni prima, Brunetti ne facesse uno sul puteolano non solo in termini storici, ma soprattutto linguistici e grammaticali per affermarne l’unicità.

L’autore, un arzillo pensionato assolutamente privo di quella boria che spesso caratterizza gli autodidatta, ha ammesso che in questo caso non ha avuto alcuna difficoltà a completare il lavoro in quanto aveva alle spalle quello corposo svolto per il napoletano, lingua madre del puteolano, per cui scriverlo non gli è costato né fatica né tempo: “l’ho scritto in venti giorni, mentre per completare quello sul napoletano impiegai anni!”

Tra i tanti meriti, a Brunetti va riconosciuta la capacità di esprimersi anche oralmente in modo semplice e chiaro, senza frasi a effetto, riflettendo il linguaggio pulito e lineare del suo libro. Gli va inoltre riconosciuta la disponibilità a non sottrarsi alle tante domande dei presenti, intervallando le risposte con aneddoti brillanti e alle richieste di leggere alcune poesie in puteolano riportate in appendice del libro per far sentire la differenza che lo contraddistingue dal napoletano, suscitando con la recitazione dei versi l’ilarità della sala.

Così come piacevole e divertente fu la lettura del saggio, altrettanto si è rivelata la presentazione del libro i cui proventi andranno a sostegno delle attività culturali di Lux In Fabula.

Un grazie a Salvatore Brunetti per aver dimostrato che cultura e simpatia possono tranquillamente andare a braccetto, se si è dotati di intelligenza e umiltà!

“PASSAGGIO A CALCUTTA” – MARCO MENDUNI DA ART IN GARAGE – POZZUOLI

Di seguito l’intervista integrale pubblicata su comunicaresenzafrontiere.it

Pozzuoli: Sabato 18 maggio, per la rassegna ARTinGARAGE, curata da Gianni Biccari, all’Art Garage di Pozzuoli – Parco Bognar 21, adiacente alla stazione Metropolitana FS – si è inaugurata la mostra fotografica “PASSAGGIO A CALCUTTA”, di Marco Menduni.

L’esposizione durerà fino al 31 maggio e sarà visitabile dal lunedì al venerdì, dalle 10 alle 22; il sabato dalle 10 alle 20; domenica chiusa. Ingresso libero.

Per l’occasione abbiamo intervistato l’autore.

Marco ci potresti narrare la genesi di queste foto?

Le foto sono state scattate nove anni fa a Calcutta in occasione di un viaggio che organizzai dopo aver ascoltato chi già c’era stato e ne esaltava l’originalità e la genuinità rispetto ad altre città indiane molto più turistiche. Ammetto che, dopo tanti anni, pur essendo stato in tanti altri posti, quel viaggio mi ha lasciato forti emozioni!

Vivi di fotografia?

No, lavoro in banca. Ma sono anni che coltivo la passione fotografica.

Ti pesa questa dicotomia impiegato/artista?

Effettivamente mi sento un po’ dottor Jack e mister Hyde: giacca e cravatta a lavoro; jeans e t-shirt per fotografare. Ma ci si abitua!

Quando nasce la tua passione per la fotografia?

In tarda età, avevo circa venticinque anni. E di ciò mi rammarico perché ho perso anni di esperienza e di tecnica, anche se poi ho cercato di rimediare lasciandomi trascinare dalla passione.

Per affinare la tua tecnica hai frequentato qualche corso?

No, solo qualche workshop con fotografi di livello internazionale per apprendere dalla loro esperienza i segreti base per scattare buone foto.

Sbaglio o le tue foto appartengono alla categoria della street photography?

Sì! Seppure, volendo essere precisi, potremmo dire che sono una via di mezzo tra la street e il reportage tradizionale.

Quali sono i soggetti che prediligi fotografare?

Spesso mi capita di fotografare bambini. Tuttavia i soggetti delle mie foto sono molteplici, come si evince anche dalle foto qui esposte.

Quando hai fatto la tua prima mostra?

Penso una quindicina di anni fa a Napoli.

Questa all’Art Garage è la tua prima personale?

Ce ne sono state altre.

Se dovessi spiegare la fotografia in generale e la “tua” fotografia in particolare, come le definiresti?

In generale per me la fotografia rappresenta il congelare in un solo attimo un concetto ben più vasto e ben più ampio. A livello personale, invece, la fotografia è un’esigenza comunicativa. Uno strumento che mi consente di esprimermi attraverso un linguaggio particolare.

Se tu ora, all’improvviso, dovessi decidere di partire per un nuovo viaggio fotografico dove andresti?

A distanza di nove anni, tornerei in India per vedere altri luoghi, perché, al di là dei cliché, l’India è un luogo a sé stante, che ti trasporta in un’altra dimensione.

Un altro luogo che ti piacerebbe fotografare?

Sicuramente il Sudamerica. Magari la Patagonia, la Bolivia. Luoghi dove c’è una natura molto particolare, molto forte e popolazioni che mi suscitano interesse.

Fotografi solo a colori?

No, spesso mi servo del bianco/nero. Anche se per il lavoro qui esposto scelsi il colore proprio per via dei mille colori che caratterizzano l’India, Calcutta in particolare.

Foto di Napoli ne hai scattate?

Sì, ma non molte perché, come spesso accade, quando vivi quotidianamente in un luogo, non mostri la stessa attenzione che invece hai quando visiti posti sconosciuti che difficilmente rivedrai.

Hai già scattato la “tua foto della vita”?

No! Dico sempre che la foto più bella è quella che ancora devo scattare.

Progetti per il futuro?

Qualcosa nel napoletano con tematiche sociali.

Nutri l’ambizione di vivere un domani solo di fotografia?

C’è stata, da giovane. Poi ho raggiunto la personale consapevolezza che se vivessi di fotografia perderei la libertà di scegliere dove andare e cosa scattare. La libertà non ha prezzo!

 

A PASSEGGIO CON LUISA DE FRANCHIS

Di seguito la versione integrale dell’intervista pubblicata su comunicaresenzafrontiere.it

Luisa De Franchis, scrittrice e poetessa, ha pubblicato quattro raccolte di poesie – OGGI FINALMENTE HO TROVATO IL CORAGGIO, UN PO’ MARIA UN PO’ MADDALENA, AVVOLTA DA UNA RETE DI EMOZIONI, OLTRE IL MURO UN SORRISO. Collabora con le testate giornalistiche DONNA FASHION NEWS, REPORT CAMPANIA, CAPRI EVENT. Tiene corsi di scrittura creativa per ragazzi ed è docente di poesia presso l’Università Popolare di Pozzuoli.

L’intervista che segue è stata fatta in maniera estemporanea durante un incontro fortuito per le vie di Pozzuoli.

Luisa da un po’ di tempo stai insegnando poesia all’ “Università Popolare” di Pozzuoli. Ci spieghi come nasce questo tuo ruolo di docente?

È nato sette anni fa per incarico istituzionale da parte del dottor Alfonso Trincone allora Assessore alla Pubblica Istruzione al Comune di Pozzuoli: dopo aver letto un mio libro, mi chiamò per sapere se ero disponibile a organizzare e coordinare un laboratorio di scrittura creativa a livello scolastico. Fu così che prese vita il concorso BRICIOLE DI EMOZIONI a cui partecipano tutte le scuole puteolane primarie, secondarie e superiori. Da sette anni lo organizzo e presento avvalendomi di una squadra di collaboratori che mi sostengono con entusiasmo e impegno. Considera che ogni anno il carico di elaborati da esaminare è di circa seicento poesie. Un lavoro notevole ed estenuante, ma che non ci pesa!

Che cosa rappresenta per te la poesia?

Per me la poesia è vita, ossia la possibilità di poter elaborare in versi i vissuti miei e di quelle donne che decidono di raccontarmi i propri dolori, sofferenze, umiliazioni. Donne che hanno subito violenza e attraverso me trovano un canale che gli consente di liberarsi dal peso che gli grava sull’animo, rendendo pubbliche in maniera ufficiosa le loro storie di vita. Empaticamente faccio mie le loro emozioni, trasferendole in versi in maniera tale che, leggendo poi le mie poesie possano ritrovare se stesse nella tranquillità dell’anonimato. Una forma di resilienza: attraverso la poesia trovano il loro riscatto!

Quando nacque la tua passione per la poesia?

Sui banchi di scuola quando ero adolescente: conservo ancora i diari in cui le annotavo. Il mio primo libro di poesie raccoglie molte di quelle emozioni giovanili.

Nell’area flegrea sei conosciuta e apprezzata, pur non essendo la poesia di facile approccio per il pubblico…

Io invece credo averla resa tale perché ne faccio un discorso riguardante versi sciolti con temi liberi dove i ragazzi possono spaziare, senza fossilizzarsi su un argomento specifico. E ciò non è difficile perché credo che, soprattutto oggi, i giovani abbiano desiderio e bisogno di raccontarsi. Attraverso i miei laboratori di scrittura creativa offro loro l’opportunità per farlo. Così come la stessa possibilità la concedo alle signore che partecipano ai miei corsi di poesia all’Università Popolare. L’ho già detto prima, la poesia come terapia per ritrovare se stessi!

Il tuo approccio poetico è istintivo o meditato? Scrivi di getto o elabori i pensieri prima di metterli su carta?

Io scrivo dappertutto, nel senso che, seppure stessi guidando la macchina, se mi venisse un’idea, un pensiero, uno spunto mi fermo e prendo appunti su un qualsiasi pezzo di carta mi trovi in quel momento a portata di mano. A volte scrivo perfino sulle mani pur di non disperdere l’idea!

Dai una definizione alla tua poesia

Un messaggio!

Che tipo di messaggio?

Un messaggio da decifrare perché spesso nelle mie poesie credo di andare di là dalla poesia stessa. Nel senso che quello che si percepisce in maniera immediata non è realmente ciò che volevo intendere.

Significa che le tue poesie racchiudono una chiave anagogica?

Esattamente!

Tu sei appena uscita vittoriosa da un’esperienza di vita difficile: ti sei confrontata in maniera determinata e positiva con un carcinoma mammario. Pensi che la forza per superare tale scoglio senza mai cedere allo sconforto possa avertela data la tua vivacità poetica?

Assolutamente sì! Per fronteggiare questo drago ho sfruttato tutte le mie capacità umane. Personalmente sono convinta che ognuno di noi è dotato dalla vita di un kit per contrastare le avversità che incontrerà sul proprio cammino esistenziale. Io questo kit l’ho utilizzato e potenziato. Ho avuto la fortuna di essere accompagnata da ottimismo ed energia, spostando la mia attenzione dal problema alle mie tante attività artistiche e questo ha sminuito il mostro riducendolo a un topolino!

Che suggerimento daresti a quanti decidano di avvicinarsi alla poesia?

Di guardare in se stessi e con altri occhi la vita perché essa ci offre infiniti spunti per scrivere. Sta a noi cogliergli. Ad esempio, noi ora, mentre parliamo, stiamo passeggiando lungo un viale alberato. Anche le foglie di questi alberi o i fiorellini che vi spuntano possono generare emozioni. Bene, dove c’è emozione c’è poesia!

Progetti?

Per il futuro mi sento fortissima! Ho tanti progetti in pentola tra cui la pubblicazione della mia quinta raccolta di poesie per Natale.

Come donna ti senti realizzata?

Io amo la mia professione: lavoro nella direzione amministrativa di un centro di riabilitazione neuro/psicomotoria. Ho poi la fortuna di potermi esprimere attraverso la poesia; ho la fortuna di avere un bel compagno; ho la fortuna di avere due figli splendidi. E sono viva! Che altro potrei desiderare di più dalla vita?

 

OLEG DRAGOTTO CI RACCONTA LA FAVOLA DELL’AMATORI RUGBY NAPOLI NEO PROMOSSA IN SERIE A

Di seguito l’intervista integrale pubblicata su comunicaresenzafrontiere.it

Domenica 31 aprile, battendo in casa la Partenope per 39 a 18, l’Amatori Rugby Napoli ha conquistato con due giornate d’anticipo la sua prima promozione in serie A. Tra i protagonisti di questo prestigioso traguardo l’estremo Oleg Francesco Dragotto.

Oleg sei stato tra gli artefici della storica promozione in serie A dell’Amatori Rugby Napoli. Seppure negli sport di squadra quando si vince si vince tutti, quando si perde si perde tutti, è inutile negare che spesso le vittorie sono determinate dalla presenza in squadra di giocatori che hanno quel quid in più che permette alla squadra di fare il salto di qualità. Avendo tu già giocato in serie A con il CUS Roma Rugby e avendo fatto parte del giro della nazionale frequentando l’Accademia Nazionale di Rugby, pensi che la tua esperta presenza in squadra sia stata determinante per la promozione?

Non saprei… Sono stato fermo un anno e dunque agli inizi ho faticato per rimettermi in carreggiata sia fisicamente che tecnicamente. Poi piano piano, grazie soprattutto all’aiuto degli allenatori e dei miei compagni, sono riuscito a ritrovare la condizione psicofisica necessaria per dare il mio contributo per il raggiungimento di quest’importante traguardo.

Cosa rappresenta per te il rugby?

Uno stile di vita! Essere un rugbista non significa essere solo uno sportivo sul campo, come potrebbe accadere in altri sport dove, una volta terminato l’allenamento o la partita, ognuno ritorna al proprio mondo dimenticandosi degli altri. Nel rugby si è amici sia dentro che fuori dal campo. Anzi, lo si è più fuori dal campo e questa coesione di sentimenti, questo spirito di famiglia, risulta fondamentale quando poi scendi in campo per affrontare l’avversario: si è uniti più che mai.

Tu sei cresciuto nelle giovanili dell’Amatori per poi girovagare in altre squadre, fino a ritornare al punto di partenza, contribuendo a scrivere questa splendida favola. Ti offendi se ti definisco figliol prodigo?

No! Mi fa solo piacere in quanto significa che tutti, dai dirigenti ai miei compagni, mi hanno sempre considerato uno di loro. Anche quando giocavo con altre squadre, seguivo sempre le loro sorti, gioendo quando vincevano e soffrendo quando invece le cose non andavano bene. L’Amatori l’ho sempre portata nel cuore. Quando, alcuni anni fa, furono promossi in serie B, chiamai tutti i miei compagni delle giovanili per congratularmi con loro, sperando che un giorno avremmo fatto qualcosa di ancora più grande insieme…

Per un anno hai indossato la maglia della Partenope, l’altra squadra di rugby napoletana, avversaria storica dell’Amatori. Quando dovevi giocare contro l’Amatori qual era il tuo spirito?

Questa domanda già me l’hanno fatta altri, ma non ho mai risposto. Ti concedo uno scoop: le due notti precedenti le partite contro l’Amatori ho pianto come un bambino. L’idea di dover affrontare quella che ho sempre considerata la mia squadra era un tormento. Ma avendo fatto delle scelte e avendo ricevuto fiducia dai dirigenti e dai miei compagni, mi sono sentito sempre in dovere di onorare al meglio la maglia che all’epoca indossavo. Un giocatore deve essere prima di tutto un uomo e tenere fede ai propri impegni, seppure ciò gli dovesse causare dolore nell’animo!

Dover disputare il campionato di serie A imporrà certamente alla società di fare investimenti per rafforzare la squadra affinché faccia un campionato dignitoso. Per quanto ti riguarda, cosa ti aspetti a tal fine?

Avendo già giocato in serie A con il Cus Roma Rugby ti assicuro che il gap tra noi e le altre squadre non è poi così ampio. Ma credo che qualche innesto forte ed esperto sia necessario per permetterci di continuare a sognare… E poi abbiamo un allenatore, Luca Varriale, che ha una marcia in più: ci ha molto seguiti, sia dentro che fuori dal campo, dimostrandosi sempre disponibile.

Qual è il tuo ruolo?

Estremo!

Quando giocavi con le giovanili dell’Amatori calciavi i piazzati perché avevi una precisione straordinaria. Questa caratteristica ti è rimasta?

No, si è persa nel tempo, purtroppo. Ma per demerito mio perché negli anni non mi sono allenato con la giusta concentrazione. Da quest’anno ho ripreso a farlo con più attenzione e spero di ritrovare al più presto la precisione necessaria.

Pur essendo tu giovane, la domanda te la faccio lo stesso: quando finirai di giocare a rugby, vorrai continuare a restare nel circuito? Magari allenando o facendo cosa?

Come obiettivo personale mi sono imposto un altro anno di attività a pieno regime. Se il prossimo anno riuscirò ad arrivare a una condizione di gioco tale da consentirmi di fare il salto di qualità, dandomi l’opportunità di poter giocare ad alti livelli in Italia o all’estero, magari in Scozia, allora significherà che ho raggiunto il mio obbiettivo. Viceversa programmerò in altro modo il mio futuro!

Per questa promozione dai un voto ai giocatori, ai dirigenti e agli allenatori…

Alla società do 10 e lode perché ha fatto un lavoro eccezionale. Alla squadra 8 perché, una volta raggiunta la promozione, le ultime due partite abbiamo completamente mollato, dimostrando, secondo me, di non essere ancora pienamente maturi a livello mentale, cosa che non possiamo permetterci se vogliamo fare un buon campionato di serie A. Per quanto riguarda gli allenatori, a Luca Varriale do 10 perché, come ho già detto prima, s’è dimostrato prima di tutto un vero amico, oserei dire un padre, per ognuno di noi, sia dentro che fuori dal campo. All’altro nostro allenatore, Lorenzo Fusco, do 8.. E’ grazie a lui, alla sua insistenza, se sono tornato a giocare all’Amatori e gliene sarò riconoscente per sempre. Mi hanno però lasciato perplesso alcuni suoi atteggiamenti. Da una persona esperta, intelligente e sensibile come lui mi sarei aspettato maggiore disponibilità ad ascoltare le opinioni degli altri…

Come tanti tuoi compagni di squadra, da ragazzino hai avuto come allenatore Mario Gargano. Cosa ti ha insegnato Mario permettendoti di essere quello che oggi sei e potresti diventare in futuro?

Per quanto riguarda il rugby per me Mario ha rappresentato e rappresenta tutto. Senza di lui, i suoi consigli, i suoi incoraggiamenti, i suoi cazziatoni non credo che oggi staremmo qui a festeggiare la promozione in serie A. Mario ha tracciato il solco e seminato “ieri” i frutti che “oggi” abbiamo raccolto. Per quanto mi riguarda, questa promozione è anche merito suo!

L’obiettivo per il prossimo anno è una salvezza tranquilla?

Qualcosa di più…

LUX IN FABULA PRESENTA IL SAGGIO DI SALVATORE BRUNETTI “DIALETTO PUTEOLANO”

Di seguito la versione integrale dell’articolo pubblicato su comunicaresenzafrontiere.it

Sabato 18 maggio per la rassegna QUATTRO CHIACCHIERE CON L’AUTORE, alle ore 18 da Lux In Fabula, a Pozzuoli, in Via Rampe dei Cappuccini 5, si presenterà “DIALETTO PUTEOLANO – Saggio storico grammaticale” di Salvatore Brunetti, edito da LUX IN FABULA.

Il testo, scritto dall’autore su insistenza di Roberto De Simone, è successivo a SCRIVERE IL DIALETTO NAPOLETANO pubblicato da Brunetti nel 2000.

Se il testo sul dialetto napoletano non poteva considerarsi una novità, visti i tanti volumi sull’argomento che lo avevano preceduto, certamente questo sul dialetto puteolano deve invece reputarsi una chicca in quanto, al di là degli interessanti riferimenti storici inerenti la derivazione e lo sviluppo della lingua napoletana e del dialetto puteolano, è strutturato come un vero e proprio testo di grammatica dove si parte dall’analisi dell’alfabeto, passando per la coniugazione dei verbi, finendo in appendice con testi esplicativi.

Il linguaggio asciutto e distaccato con cui Brunetti spiega al lettore l’utilizzo delle lettere straniere tipo la “j (gei) al posto della I italiana” per evitare “che più vocali si trovino strettamente legate in successione, nel dichiarato intento di rendere più fluida la parola”; o quando, parlando degli accenti, afferma, “nel dialetto puteolano il ricorso all’accento scritto è spesso imprescindibile per le numerose parole dalla dubbia pronuncia, che in quanto dialettali sono poco conosciute al di fuori dei propri ambiti”, rende la lettura del testo molto sobria e gradevole.

Non adottando mai né virtuosismi letterari né leziosità grammaticali che appesantirebbero il testo, l’autore si garantisce la disponibilità del lettore a seguirlo nell’excursus linguistico. E quando si sofferma a parlare degli avverbi e dei verbi, è molto piacevole affidarsi alle sue dissertazioni: “l’avverbio italiano misto dovunque non esiste in dialetto, al suo posto si usa: a r’aò và và, a r’aò stà stà, a r’ao èè, pe teutte parte.”; “Sarà invece opportuno evidenziare alcuni aspetti particolari del verbo dialettale puteolano rispetto allo schema generale delle declinazioni italiane” […] “ Peraltro, tale forma verbale, in quanto confondibile con il verbo peuzzà, che vuol dire emanare un cattivo odore, viene spesso evitata ed opportunamente sostituita anch’essa con il presente indicativo, utilizzando l’ausiliario avaé (avere). In tal modo, le frasi di cui sopra diventano, nell’ordine: – Aveit’ ‘a iettà ‘u sango (avete da buttare il sangue); – Aveit’ ‘a campà cient’anne (avete da campare cento anni)…

Seppure si tratta di un saggio storico-grammaticale, come recita il sottotitolo, di pregevole fattura, il libro di Brunetti si rivela allo stesso tempo una piacevole e divertente lettura capace di strappare più di un sorriso al lettore. Un merito questo non da poco, che va ulteriormente ad arricchire un lavoro ben fatto, a prescindere dalla piacevole amenità che lo pervade, che ogni puteolano e appassionato linguista dovrebbe conservare gelosamente nella propria biblioteca perché, se il napoletano è una lingua, il puteolano è una lingua musicale di origine marinaresca che andrebbe tutelata gelosamente così come andrebbe tutelato gelosamente tutto il patrimonio artistico/culturale puteolano. Viceversa, in molti casi, è lasciato alla mercé della vegetazione e dell’oblio che, cancellando il passato, sradicano dall’animo dei cittadini la memoria delle proprie radice, rendendoli storicamente orfani e dunque succubi di chiunque si presentasse al loro cospetto come novello salvatore della patria.

Il libro di Brunetti non racconta solo la nascita e lo sviluppo di un dialetto – meglio sarebbe dire “di una lingua”- ma si pone come estremo baluardo a ogni tentativo di estirpare dalla mente e dal cuore dei puteolani la storia delle loro origini conservate in quell’apparente linguaggio sguaiato e nelle fattezze tufacee di una storica rocca deturpata da un infinito rifacimento strutturale che non si sa se e quando verrà mai portato a compimento…

DOMENICO LIVIGNI RACCONTA LA SUA PASSIONE PER IL CINEMA E PER IL TEATRO

Di seguito l’intervista integrale pubblicata su comunicaresenzafrontiere.it

Di Domenico Livigni e della sua passione per il cinema e il teatro me ne parlò Gaetano Bonelli, fondatore e curatore del Museo Di Napoli, quando lo intervistai, definendolo “mio erede naturale”.

La loro storia è infatti simile, iniziano entrambi a collezionare in giovanissima età: Gaetano da che aveva otto anni, raccogliendo pezzi sulla storia di Napoli pre e post unitaria; Domenico da quando aveva quattordici anni per quanto riguarda la storia del cinema e del teatro. Ad oggi Domenico Livigni ha pubblicato un libro su Totò. Per saperne di più su di lui, lo abbiamo intervistato.

Domenico raccogli cimeli cinematografici da che avevi quattordici anni, oggi ne hai ventidue, da dove nasce questa passione per il cinema?

All’età di quattro/cinque anni iniziai a guardare i primi film comici, in particolare quelli di Totò, del quale in pochi anni posso dire di aver visto quasi tutta la filmografia. Successivamente incominciai a vedere quelli con altri attori che recitavano anche in teatro come i De Filippo, Nino Taranto, Macario, Aldo Fabrizi. Avendo gli stessi recitato sul set con Totò, ho preso lo spunto per scrivere insieme a Ciro Borrelli il libro TOTò CON I QUATTRO che si è presentato ieri sera al Museo di Napoli.

Immagino che casa tua si sarà trasformata in un magazzino di cimeli cinematografici e teatrali di ogni tipo, qual è la reazione dei tuoi genitori?

Inizialmente si spaventarono, poi con il passare del tempo, comprendendo e capendo soprattutto questa mia passione, hanno iniziato a sostenermi sia moralmente che economicamente.

Penso che quando non sei impegnato con lo studio te ne vai in giro per mercatini dell’antiquariato alla ricerca di oggetti rari, come reagiscono gli espositori alle tue richieste?

Inizialmente avevo un fornitore specifico, un negozio che si trovava a via Bellini, ‘O QUATT ‘E MAGGIO, che purtroppo non c’è più. Il proprietario di questo negozio, Guido Moio, è stato il mio primo maestro, è lui che mi ha trasmesso la passione per il collezionismo. Oggi ho diversi punti fissi, persone che mi stimano, alle quali ricambio la stima, per cui, quando faccio acquisti, sono certo che non mi verranno proposte delle patacche o dei bidoni, ma pezzi unici.

Hai definito Guido Moio il tuo primo maestro, presumo che il tuo secondo sia Gaetano Bonelli, il fondatore del museo di Napoli. Gaetano simpaticamente ti definisce il suo erede naturale. Poiché certamente conosci tutta la storia di Gaetano, le tante vicissitudini che ha passato e sta passando con il suo museo, non ti spaventa rischiare di ripercorrerne lo stesso travagliato iter?

Abbastanza! Secondo me Gaetano è un personaggio insuperabile, sia per quanto riguarda la sua forza di volontà sia quella culturale ed emotiva. Essere considerato stesso da lui il suo erede mi gratifica.

Domenico i tuoi amici come vivono questa tua passione?

Alcuni, condividendola, mi chiedono informazioni sui fornitori, anche se nelle spese non sono folli come me. Altri si limitano alla curiosità, unitamente a stima e ammirazione.

Qual è stata in termini economici la spesa più pazza che hai fatto?

Sicuramente centoottanta euro per comprare un baule teatrale dei primi anni trenta del teatro comunale di Foggia, oggi conservato nella mia stanza. Nel tempo ho poi cercato di trovare pezzi coevi tipo costumi, specchi, copioni in modo da riempirlo.

A Cinecittà ci sei mai stato?

Come no, più volte! Ci sono ritornato recentemente con la mia ragazza per vedere i teatri di posa tra cui il famoso teatro cinque dove girava Fellini. E poi spesso sono stato al centro sperimentale di cinematografia per consultare la Biblioteca Chiarini, un ente fondamentale per gli studiosi e appassionati di cinema. Diverse ricerche per il mio libro le ho effettuate lì.

Tu collezioni tutto ciò che riguarda il cinema e il teatro italiano, non solo quello napoletano. Riguardo al cinema possiedi anche cimeli inerenti ai primordi del cinema muto?

Per quanto concerne il cinema muto, nella mia collezione ho dei manifestini pubblicitari dei primi anni dieci dove ci sono ritratti di diversi personaggi dell’epoca, tra cui Vittorio Parisi, che fanno la propaganda a favore del nuovo mezzo mediatico, ossia del cinema.

Con l’avvento del digitale la pellicola è scomparsa. Come sopperisce a tale mancanza un collezionista come te?

Bella domanda… Oggi è possibile ritrovare pellicole da sedici o trentacinque millimetri. Con la ricerca accanita si riesce a recuperare quel che si può.

Quindi volendo proseguire cronologicamente nella tua ricerca, a un certo punto dovrai recuperare dvd…

Sì, esattamente! Anche se ad essere sincero, in sette/otto anni che colleziono ho sempre cercato di comprare pochissime pellicole in quanto richiedono spazi con particolare temperature per garantirne la conservazione e dunque la durata nel tempo. Quindi nella mia collezione ho soltanto due pellicole: il negativo del primo rullo di un film di Macario dal titolo NON ME LO DIRE e un film inedito in trentacinque millimetri di quattro pizze con Nino Taranto dal titolo IL SEGUGIO. Lo ritengo inedito in quanto, quando fu distribuito, se non erro agli inizi degli anni sessanta, ebbe una circolazione così breve, e non fu mai più riproposto né in videocassetta che in dvd, che può ritenersi tale.

Dove vuole arrivare Domenico Livigni?

Prima di tutto voglio completare gli studi universitari – sono iscritto ad Archeologia e Storia delle Arti e Scienze del Patrimonio Culturale alla Federico II di Napoli – e poi il mio sogno è mettere in luce la carriera di quei personaggi artisticamente bistrattati o sottovalutati. Infatti già con questa mia prima pubblicazione dedico ampio spazio a Macario e Fabrizi, fondamentali nella storia sia del cinema sia del teatro italiano, cercando di metterne in risalto aspetti sconosciuti tanto da meritarmi i complimenti di studiosi del settore i quali, leggendo il mio libro, hanno arricchito le proprie conoscenze su questi due monumenti dello spettacolo italiano!

In bocca la lupo…

Crepi!

 

VIAGGIO IN UN CAMPO ROM: LE FOTO DI SALVATORE DE ROSA

Di seguito la versione integrale dell’intervista pubblicata su comunicaresenzafrontiere.it

Pozzuoli: Sabato 4 maggio, per la rassegna ARTinGARAGE, curata da Gianni Biccari, all’Art Garage di Pozzuoli – Parco Bognar 21, adiacente alla stazione Metropolitana FS – si è inaugurata la mostra fotografica “VIAGGIO IN UN CAMPO ROM”, di Salvatore De Rosa.

L’esposizione durerà fino al 17 maggio e sarà visitabile dal lunedì al venerdì dalle 10 alle 22; il sabato dalle 10 alle 20; domenica chiusa. Ingresso libero.

Per l’occasione abbiamo intervistato l’autore.

Salvatore le foto dove sono state scattate?

Nel campo rom di Giugliano, era il 2014. Fui contattato, insieme ad altri due fotografi, da Vincenzo Tosti, attivista della terra dei fuochi, per denunciare lo stato di degrado in cui versava la struttura di accoglienza edificata dal comune senza tenere conto dei parametri europei. Dalle foto si evincono le tante pozzanghere di fango sparse sul terreno, i blocchi di cemento messi a casaccio e poi recintati e le case, vere e proprie catapecchie.

Da dove nasce questa propensione a documentare fotograficamente la vita in un campo rom?

A me piace la street photography, la fotografia di strada, e quando fui contatto per scattare questo reportage di denuncia non mi feci sfuggire l’occasione. E, visto che era per una buona causa, mi sembrò di prendere due piccioni con una fava. Quando entrammo nel campo, poiché i bambini andavano a scuola, portammo loro penne e quaderni rendendoli felici.

Di mostre fotografiche sui rom ne hai fatte già altre o questa è la prima volta?

No, non è la prima volta. La stessa mostra che è esposta oggi all’Art Garage, già fu presentata al Comune di Casalnuovo e lo scorso ottobre all’UCOP a Roseto degli Abruzzi. Ne ho fatte anche altre di mostre sui rom, diverse da questa. Sempre qui all’Art Garage ho esposto Viaggio in India. E poi ho avuto modo di esporre al FIOF di Orvieto.

In molte foto i soggetti sono primi piani di bambini, una scelta voluta o casuale?

Premetto che i bambini rom hanno dei visi molto caratteristici, per cui si prestano alla fotografia, ma non è stata una scelta voluta, assolutamente! Però mi immagino oggi quegli stessi visi come saranno deturpati, visto che sono passati quasi cinque anni da quando li ritrassi. Poiché l’ambiente ti forma, considerando le condizioni disagiate in cui vivevano e la vita che facevano, oggi la bellezza di quei volti che traspare dalle foto si sarà certamente dissolta. Come è del resto accaduto alla “ragazza afghana” di McCurry: quando la fotografò bambina era bellissima; alcuni anni dopo era “orrenda” in quanto l’ambiente in cui viveva, caratterizzato da soprusi, sofferenza e dolore l’aveva deformata!

Come nasce la tua passione per la fotografia?

La passione per la fotografia è conseguente alla mia passione per i viaggi. Io viaggio da che avevo diciassette anni e fino a quarantadue anni non mi sono mai fermato. Inizialmente fotografavo me in quei posti, ad esempio mi ritraevo con l’autoscatto accanto a un monumento o con alle spalle un bel paesaggio. Col tempo ho poi capito che tipo di foto mi sarebbe piaciuto fare e mi sono preoccupato di mettermi nella condizione di soddisfare le mie esigenze artistiche attraverso lo studio.

Essendo appassionato di street photography i tuoi scatti sono rubati…

Infatti: la street photography si regge sui cosiddetti scatti rubati, o congelare con la foto momenti che ti colpiscono e vuoi immortalare.

Hai mai avuto problemi mentre scattavi che qualcuno non volesse essere ritratto?

Solo una volta a New York: vidi un personaggio particolare che si reggeva su una stampella e pensai di fotografarlo. Lui non gradì la mia attenzione e cercò di rincorrermi e colpirmi con la stampella. La foto venne male e la cancellai.

Tu vivi di fotografia?

No, purtroppo, anche se mi piacerebbe. Sono dipendente di un’azienda telefonica.

Dunque il tuo senso artistico è represso in un ufficio…

Diciamo che non mi dispiacerebbe avere un po’ più di tempo libero da dedicare alla fotografia. Ma va bene così, il lavoro prima di tutto!

Ti stai adoperando per far sì che la tua passione un giorni diventi un vero e proprio lavoro?

Sto investendo in corsi di studio e unitamente faccio mostre per farmi conoscere. Ho vinto diversi concorsi fotografici e la foto della bambina con la sigaretta qui esposta ha vinto il Nikon Photography photo challenge 2018 ed è tuttora esposta al terminal Uno di Milano Malpensa.

Sei un canonista o un nikonista

Sono un nikonista e un fujista. Oltre alla Nikon posseggo una compact Fujy con cui giro Napoli per scattare senza dare nell’occhio: essendo Napoli un teatro a cielo aperto, ti offre un’infinità di spunti come nessun’altra città al mondo.

Dammi una definizione generica di cosa è per te la fotografia e poi definisci la “tua” di fotografia.

Per me fotografare è bloccare/congelare dei momenti. Poiché amo la street photography, congelare dei momenti particolari che non si possono ripetere.

Progetti per il futuro?

Ce li ho ma per scaramanzia preferisco non sbilanciarmi.