CODICE GIALLO

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Pubblico con piacere il  racconto con cui la poetessa/scrittrice fiorentina Clara Cecchi  ha voluto celebrare la giornata contro la violenza sulle donne.


Ho un codice giallo, pur ferita e contusa devo aspettare, non sono a rischio di vita, mi hanno detto.

Dal posto di guardia il poliziotto mi squadra, insospettito dai miei ripetuti lividi. Lo so che ha già capito, come tutti qui…non è la prima volta.

Ho dolori ovunque e voglio urlare la mia rabbia: stavolta lo denuncio, quel bastardo! Prendo fiato. Gli volto le spalle ma so che lui è lì, dietro il vetro mi fissa, un sorriso di avvertimento: il vecchio terrore mi riassale e mi stringe la gola, mi serra le labbra. Non ho scampo. Lo sguardo perso dietro la finestra aperta, vorrei essere una foglia, libera di volare via in questo vento d’autunno.

Invece sono un codice giallo e devo aspettare ancora una volta, e poi ci sarà un’altra volta, e dopo un’altra ancora, io lo so bene, finché non diventerà rosso come il mio sangue.

Allora se mi voglio salvare devo affrontarlo, respiro, raccolgo tutto il mio coraggio e mi volto, lo guardo dritto negli occhi. Frugo fin dentro ogni piega del suo volto immobile, affondo dentro ogni piaga infetta di questo non amore malato. E all’improvviso, come per miracolo, lo vedo per quello che è: un piccolo uomo meschino, un vigliacco degno solo del mio disprezzo. Non ha più potere su di me ora, questa nuova meravigliosa consapevolezza si fa spazio fra l’angoscia e il dolore.

Lo scruto con occhi finalmente disincantati, incredula di tanto amore che ho sparso su di lui, come semi sulla terra brulla che a primavera germoglia fiori e frutta, ma io invece ho raccolto solo violenza. Un amore usato e abusato: non lo permetterò mai più, a nessuno e a nessun costo.

Lo giuro a questa nuova me stessa appena nata mentre gli volto le spalle e mi avvio verso il poliziotto in attesa, lo sguardo dritto davanti a me per non cedere alla paura.

Finalmente libera mi sembra quasi di volare, così in alto che potrei sfiorare perfino il cielo.

claraClara Cecchi

 

LA REGISTA MARIA DI RAZZA SI RACCONTA

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Di seguito la versione integrale dell’intervista alla regista Maria Di Razza pubblicata su comunicaresenzafrontiere


Maria Di Razza: regista, nata a Pozzuoli, Campania. Nel 2007 dirige Ipazia. Nel 2013 realizza il premiatissimo cortometraggio di animazione Forbici sul tema del femminicidio, menzione speciale ai Nastri d’Argento 2014. Con il cortometraggio in animazione Facing off  è finalista ai Nastri d’argento 2015, a cui segue (In)Felix, una fantasia animata distopica sulla Terra dei fuochi. 2018 con “Goodbye Marilyn”, cortometraggio animato,  partecipa nella sezione Eventi speciali delle Giornate degli Autori alla 75° Mostra del cinema di Venezia. 

Maria Di Razza, regista per caso o per passione?

Sicuramente per passione. Da che ero piccola mi piaceva il cinema. Soprattutto mi incuriosiva capire come nascesse un film, cosa si nascondesse dietro quello spettacolo proiettato su un telone bianco appeso al muro.

Lei è diventata famosa grazie ai film di animazione, eppure il suo primo film non è un cartone.

Prima di cimentarmi con i cartoni animati, mi venne voglia di raccontare il personaggio di Ipazia, la filosofa/scienziata greca uccisa dal fanatismo cristiano. Eravamo nel 2007. L’idea mi venne leggendo il romanzo Il Teorema del Pappagallo dove a un certo punto si accenna a questa donna. Da lì’ iniziai a documentarmi su di lei. Il cortometraggio, un lavoro di finzione anziché di animazione, è un prodotto artigianale che, quando lo rivedo, ci trovo sempre delle ingenuità da correggere. Quella era la prima volta che stavo sul set cinematografico, per giunta  dietro la macchina da presa, e avevo la timidezza perfino di dire stop! Dopo quel lavoro, mi presi una lunga pausa. Poi nel 2012 l’incontro con la regista Antonietta  De Lillo ha segnato la mia carriera. Antonietta aveva intenzione di fare un film corale sull’amore, mettendo in gioco il punto di vista di più persone per realizzare una fotografia dell’amore in tutte le sue sfaccettature. Indagandone le facce buie. E fu lei che mi dette lo spunto di raccontare del femminicidio come aspetto di amore-buio, l’amore che si trasforma nel tempo diventando altro. Così nacque Forbici!

“Forbici”  narra di un episodio di cronaca…

Sì, avvenuto a Palma Campania, dove il marito, durante la notte, mentre i figli dormivano, armato di due paia di forbici, uccise la moglie. La nascita di Forbici, se non l’ha cambiata, ha sicuramente dato una sterzata alla mia vita perché da questo piccolo racconto di animazione che dura tre minuti e mezzo, in bianco e nero, fatto con estrema  semplicità, si è scatenato l’incredibile: il film ha girato il mondo, partecipando a decine di festival; ha vinto un mare di premi; ha avuto una menzione speciale ai nastri d’argento.

Perché ha scelto di dedicarsi al cinema di animazione?

Prima di tutto per questioni economiche: l’animazione fatta in maniera semplice costa poco rispetto a un lavoro tecnologicamente curato tipo Disney. E poi l’animazione è un grande escamotage, permette di raccontare qualsiasi storia, perfino quella di un asino che vola! Ci sono due lungometraggi di animazione molto semplici cui sono molto legata, Valzer con Bashir e Persepolis, che pur nella loro semplicità, hanno raccontato storie potentissime arrivando agli Oscar. Il definirli semplici non è riduttivo ma sta a indicarne la diversità rispetto ai cartoni animati delle grandi produzioni i quali hanno un impianto tecnologico notevole, con effetti speciali tali che, nella loro grandiosità, stupiscono lo spettatore ma, probabilmente, lo distraggono dal messaggio contenuto nel film. Un lavoro di animazione “semplice”, per giunta senza sonoro, che racconta una storia potente, evidenzia la forza dell’immagine.

I suoi primi tre corto animati, oltre che per la semplicità, sono muti: ciò allo scopo di dare appunto valore alla forza delle immagini?

Anche. Ma soprattutto per dare spazio alle tematiche, consentendo allo spettatore, attraverso le immagini, di riflettere su quanto sta vedendo. In Facing Off il mio secondo corto animato, affronto il tema della chirurgia plastica cui molte persone ricorrono per migliorare il proprio aspetto a scapito dell’identità. Il film è stato anche un pretesto per fare un omaggio  ai grandi del cinema dato che nel suo interno vi sono richiami a capolavori del pasato. Partendo da Hitchcock, il mio mito, per poi proseguire   con Kubrik e tanti altri.

Parliamo del suo terzo corto (In)Felix: lei ha pubblicamente affermato che, tra tutti i film che finora ha realizzato, è quello cui è particolarmente legata.    

Vi sono legata prima di tutto perché parlo di uno spaccato della mia terra martoriata dal dramma della Terra dei fuochi. Precisamente della discarica Resit che, come ha confermato la perizia fatta dal geologo Balestri, sta inquinando le falde acquifere al punto che entro il 2064 lì non ci sarà più vita. Lo spunto lo presi leggendo la perizia di Balestri che si può scaricare da internet, un faldone di oltre duecento pagine, molto complicata perché ricca di termini tecnici. Nel leggerla, apprendendo quello che vi è sotterrato, mi pianse il cuore. Mi sembrava impossibile come l’essere umano potesse uccidere in quella maniera il proprio territorio. Ma, attenzione, la Resit non è un caso isolato. In molte zone di Italia e del mondo vi sono tante altre “Resit”, solo che non lo sappiamo!

(In)Felix è caratterizzato dalla bellezza dei disegni

Sì, sono di una bellezza incredibile. L’autore è Domenico Di Francia che ha fatto duecento tavole a china, rigorosamente a mano libera, che poi con Costantino Sgamato abbiamo digitalizzato e animato. Ogni disegno è un quadro: io ce li ho tutti conservati, sono spettacolari.

Se non erro lei per i primi tre corto si è servita di un equipe puteolana!?

Sì, perché anche Angela Aragozzini che ha animato Facing Off è di Pozzuoli. In (In)Felix ci sono le musiche di Antonio Fresa, napoletano, che ha poi fatto la colonna sonora di Goodbye Marilyn.

Con Goodbye Marilyn ha partecipato all’ultimo Festival del Cinema di Venezia, riscuotendo un grosso successo di critica e di pubblico. Pubblicamente non ha avuto problemi a dichiarare che quando ricevette la notizia che il film era stato selezionato per il festival per due giorni è stata su una nuvola.

Penso che chiunque al posto mio avrebbe avuto la stessa reazione. Per anni sono andata a Venezia da spettatrice. Ritrovarmi all’improvviso da protagonista è stata una cosa bellissima. Partecipare a Venezia era il mio sogno e l’ho realizzato! In questo devo ringraziare la casa di produzione Marechiaro Film di Antonietta De Lillo, che ha prodotto il film, per avermi lasciata libera di scegliere a quale festival partecipare, senza intervenire in alcun modo. L’idea di girare Goodbye Marilyn me l’ha data, seppure indirettamente, proprio Antonietta regalandomi a Natale il romanzo da cui ho poi tratto il film. All’epoca ero impegnata nella stesura di un progetto completamente diverso. Non appena lessi il romanzo, mi innamorai della storia e decisi di accantonare il vecchio progetto per realizzare il film su Marilyn che però non poteva essere raccontato senza le parole. A quel punto decisi di fare il cosiddetto salto di qualità.

Lei ha avuto l’ardire di far doppiare Marilyn a Maria Pia Di Meo, la più grande doppiatrice italiana che presta la propria voce a Meryl Streep, e l’intervistatore di Marilyn a Gianni Canova, giornalista di Sky nonché Pro-rettore dell’università IULM.

Riguardo all’ardire, personalmente non so quante doti artistiche possiedo. Quando mi sento definire regista, pensando a Hitchcok o Scorsese, non credo di meritare quest’appellativo. Di sicuro sono una persona determinata. Mi ero  ripromessa di fare il salto di qualità. O lo facevo con queste caratteristiche, oppure tutto finiva ai primi tre corto. Per cui, lentamente, ho iniziato a lavorare al film la cui realizzazione ha richiesto complessivamente un anno e mezzo.

Al di là della delicatezza della storia di Goodbye Marilyn, personalmente, ho molto apprezzato  la colonna sonora di Antonio Fresia.

Ad Antonio ho dato carta bianca. Non sono voluta assolutamente intervenire in quanto con (In)Felix feci l’errore di dargli dei suggerimenti. In particolare sul finale del film, dove c’è la trasformazione degli animali, dissi che mi sarebbe piaciuta una musica del tipo La Cavalcata delle Valchirie di Wagner. Lui invece disse che ci voleva l’opposto perché una musica forte come intendevo io sarebbe stata didascalica. Quindi per Marilyn gli diedi campo libero.

E poi con il suo ardire telefonò alla doppiatrice ufficiale di Meryl Streep

Quella telefonata fu incredibile. Solo per reperire il numero ci avrò messo circa un mese. Poi, attraverso una doppiatrice, finalmente riuscii ad averlo. La chiamai, mi presentai e lei, “ma chi sei?” rispose. Le spiegai il motivo per cui la stavo chiamando. Inizialmente disse di no. Del resto, giustamente: io non sono una regista famosa; il film è un cortometraggio; lei doppia attrici e film da Oscar. Accettando era come se sminuisse la propria professionalità. Probabilmente anch’io avrei fatto lo stesso al suo posto.  Ciononostante, insistetti perché leggesse la storia e visionasse i disegni. Fatto ciò, se ne innamorò e disse sì. Il film le è molto piaciuto. Durante una telefonata dopo Venezia mi ha ringraziata per averle concesso la possibilità di doppiare Marilyn Monroe, seppure in forma animata, dicendosi speranzosa di poter lavorare ancora con me, lusingandomi molto.

La voce maschile è invece di Gianni Canova di Sky 

Altro mio mito: da appassionata di cinema, vedo i film su Sky e lui racconta i film in un modo che ti fa vedere certe cose che sfuggono finanche a un attento osservatore. Mi fa fare delle riflessioni su dei film che diversamente mai avrei fatta da sola. Con lui ci siamo conosciuti all’Ischia Film Festival dove presentavo Infelix che gli piacque molto, facendo una bellissima recensione. Quando gli chiesi se avesse voluto doppiare Goodbye Marilyn, immediatamente rispose di sì! Quando il film è stato proiettato a Venezia, lui era seduto al mio fianco durante la proiezione per la stampa: non credo di esagerare se dico che fosse più emozionato di me!

È tipico dei vincenti puntare in grande, lei punta all’oscar 2020?

A riguardo ci tengo a fare una precisazione. Quando al Rione Terra dissi di puntare magari all’Oscar 2020, lo dissi poiché il mio film è stato selezionato al Tirana International Film, un festival prestigiosissimo dove chi vince passa di diritto alle preselezioni dell’Oscar. Ovvio che se poi arrivasse l’Oscar ne sarei felicissima. Sarebbe una cosa meravigliosa. Ma da buon matematico punto i piedi per terra e evito di lasciarmi prendere dall’entusiasmo. Tenga presente che a livello personale la mia vita non è cambiata affatto: per vivere faccio l’impiegata; continuo a fare la mamma e la casalinga.

Progetti per il futuro?

Questa è una bella domanda. Come ho già detto, prima di lavorare a Marilyn ero impegnata in un altro progetto che ho poi accantonato e non so se lo riprenderò. Ora sono alla ricerca di una storia che mi appassioni come è accaduto per Marilyn, quindi non so nemmeno se il prossimo film sarà un lungometraggio o se continuerò a cimentarmi con il corto. Un lungometraggio di animazione significano almeno cinque anni di lavoro. Non percependo alcun contributo istituzionale per i miei film, finora ho fatto enormi sacrifici economici e ho avuto l’aiuto delle persone che mi vogliono bene. Anche se devo dare atto alla Regione Campania di essersi fatta carico in maniera postuma delle spese inerenti il soggiorno a Venezia di una parte del cast di Marilyn. Per questo motivo, se devo fare un nuovo lavoro, devo trovare una storia convincente che valga i sacrifici necessari per realizzarla.  

Ha mai pensato di fare un film di animazione ambientato a Pozzuoli o nei campi flegrei?

Francamente non ci ho mai pensato. Ma non perché non ami la mia terra. Come lo stesso sindaco Figliolia ha pubblicamente riconosciuto, in tutte le interviste che ho rilasciato a Venezia ho sempre citato Pozzuoli cui sono molto legata al punto che se mi regalassero una casa altrove, rifiuterei. Le mie radici sono qui, a Pozzuoli!

Vincenzo Giarritiello

IN ITALIA SOLO LA COLLETTA SALVA I GENI

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La vicenda del team di studenti napoletani dell’Augusto Righi – Mauro D’Alò, Davide Di Pierro, Luigi Picarella, coadiuvati dai professori di matematica e informatica Salvatore Pelella e Ciro Melcarne -, classificatosi al secondo posto, su trecento scuole di tutto il mondo, in un concorso bandito dal MIT e dalla NASA, e che rischiava di non partecipare alla finale dell’High school tournament “Zero Robotics” che si disputerà negli USA perché l’istituto cui appartiene non ha i fondi per pagare il viaggio, sintetizza quanto siano ristrette le possibilità di realizzazione professionale dei giovani italiani nel proprio paese.

Che in Italia non scarseggino geni, non lo scopriamo oggi. Tanti sono i diplomati e laureati che, non trovando lavoro in patria, anziché ripiegare a lavorare per quattro soldi in un callcenter o altrove, emigrano all’estero per realizzarsi professionalmente, tornando a casa solo per le vacanze.

A tale esodo di menti, la politica, in maniera trasversale, dice di voler porre rimedio con l’attuazione di politiche che favoriscano la meritocrazia. Purtroppo, però, le parole non sono mai seguite dai fatti: lo conferma quanto è accaduto ai tre studenti napoletani che rischiavano di vedere vanificato il proprio lavoro e i propri sogni se a farsi carico delle spese della trasferta americana non fossero intervenuti prima i giornalisti del TG3; a seguire, il Senato che, attraverso il Presidente Elisabetta Alberti Casellati, ha fatto sapere che metterà a disposizione i fondi necessari.

Un bel gesto quello istituzionale. Ma comunque tardivo, a dimostrazione di quanto poco attente siano le istituzioni verso il mondo della scuola. In tal caso, però, la reprimenda non è diretta al Presidente del Senato, al quale va invece riconosciuto il merito di essersi attivata non appena è venuta a conoscenza di quanto stava accadendo. La strigliata va alle istituzioni locali, Comune di Napoli e Regione Campania: sarebbe stato bello se una delle due, o addirittura entrambe in sinergia, fossero intervenute a sostegno dei tre ragazzi.

Come spesso accade in questo paese dalla memoria cortissima, ci siamo già dimenticati dei tanti scandali in ambito universitario, denunciati da studentesse costrette a dimostrasi compiacenti verso i professori per superare un esame o dei professori precari che, prossimi a entrare di ruolo, si sono visti scalzare in un concorso truccato da chi era raccomandato dalla “parrocchia” e invitati a non denunciare il marcio altrimenti rischiavano di non entrare di ruolo nemmeno al prossimo giro?

Speriamo che quanto stava succedendo ai tre giovani napoletani sia d’ammonimento all’intero Sistema.

Se davvero i giovani sono il futuro della società, come ripetono a mo’ di mantra in coro i politici, bisogna fornire loro tutti gli strumenti necessari, finanziari e tecnologici, affinché possano portare avanti i propri studi e ricerche al fine di dare smalto al paese e non sentire la necessità di espatriare per vedersi riconosciuti quelli che dovrebbero essere due diritti costituzionali,  studio e lavoro.

Se poi il “sistema” preferisce continuare a favorire i “figli di” a scapito dei geni o di chi ha capacità e competenze, ce lo dicano in modo che prendiamo atto d’essere un paese senza speranze, traendone le dovute conseguenze!

QUATTRO CHIACCHIERE CON ENZO GIARRITIELLO

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Sabato 10 novembre ha preso il via a Pozzuoli, presso l’associazione culturale Lux In Fabula, la rassegna Quattro Chiacchiere Con L’Autore, una serie di incontri quindicinali con scrittori, poeti, pittori, autori vari in cui ogni artista si racconta.

Ha inaugurato la manifestazione lo scrittore Vincenzo Giarritiello il quale, intervistato dalla poetessa Luisa De Franchis, ha raccontato la genesi dei suoi due primi romanzi, L’Ultima Notte e Signature Rerum-il sussurro della sibilla , di cui si sono letti alcuni estratti; dei laboratori di scrittura creativa per ragazzi che ha tenuto nel corso degli anni in una libreria per ragazzi a Pozzuoli, al IV Circolo didattico di Pozzuoli e alla sezione femminile del carcere minorile di Nisida.

Sollecitato dalla De Franchis, l’autore si è a lungo soffermato su quest’ultima esperienza, definendola in assoluto “la più tosta ma anche la più formativa a livello umano” tra le proprie esperienze legate alla scrittura.

Entrando nel merito della propria attività di scrittore – oltre a L’ULTIMA NOTTE e SIGNATURE RERUM, ha pubblicato la raccolta di racconti LA SCELTA con le Edizioni Tracce di Pescara –, esortato dalle domande della De Franchis sui suoi interessi ermetici che si riflettono in maniera evidente in entrambe le opere, in particolare in SIGNATURE RERUM  al cui inizio è posta una frase di Giamblico tratta da I Misteri Egiziani, (invece quelli che sono migliori di noi conoscono tutta intera la vita dell’anima e tutte le vite precedenti di essa […]) ,  l’autore ha parlato della propria formazione culturale di matrice ermetica,  spiegando che vivere in una terra ricca di storia e, soprattutto, di mistero, come i campi flegrei, è per lui motivo di profonda riflessione e studio sulla vita e su se stesso.

In particolare, riferendosi al mito della sibilla Cumana, argomento di spunto per Signature Rerum, l’autore ha espresso la propria convinzione che l’acropoli di Cuma incarni una sorta di cammino iniziatico visto che l’itinerario si dipana dalle tenebre alla luce:  si parte dall’oscurità dell’antro della sibilla per poi lentamente salire fin su al tempio di Giove, transitando per quello di Apollo posto a metà del percorso.  Schema che ritroviamo tracciato in tante opere di matrice iniziatica tra cui La Divina Commedia di Dante.

La serata è stata allietata dalla presenza del cantautore Nicola Dragotto che, intervallandosi ai relatori, ha suonato alcuni brani tratti dal suo cd L’Ultima Causa.

Il prossimo incontro sarà sabato 24 novembre con il saggista/ studioso di religioni Enzo Di Bonito.

INTERVISTA ALLO SCRITTORE NANDO VITALI

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Di seguito ripropongo in versione integrale l’intervista allo scrittore napoletano NaNdo Vitali pubblicata su comunicaresenza frontiere.it 


Ferropoli (Castelvecchi Ed.) La storia di Angela Di Bagnoli e la musica del ferro La storia si svolge a Bagnoli (Ferropoli) inizi degli anni Settanta fino al 2001, narra la vicenda di due musicisti, amici dall’infanzia, Luciano e Rocco, e le loro compagne, Angela ed Elena. Racconta della gelosia di Luciano nei confronti del tenebroso Rocco, cantautore di talento….

Ferropoli è un romanzo autobiografico?

Non è un romanzo autobiografico Nasce come una sorta di memoria inconscia. Una ricostruzione della mia memoria infedele, dagli esordi giovanili come chitarrista a tutto ciò che caratterizzò il periodo in cui l’Italsider era in funzione a Bagnoli, quartiere in cui sono nato e ho vissuto per anni, fino alla sua dismissione.

La prima passione la chitarra?

Sì, la musica e la voglia di riprodurre attraverso la chitarra i brani amati. Un su e giù del braccetto dei giradischi per cercare di avvicinarsi all’originale riprodotto dal vinile.

Poi la grande passione, la scrittura?

  Iniziai a scrivere i primi racconti per divertimento. Erano gli anni ottanta e degli amici stavano fondando una piccola rivista letteraria, Il Filo di Arianna, dove pubblicai i primi racconti. Fu , poi la volta di Spazio Libero di Vittorio Lucariello, luogo di formazione per attori e scrittori. Quel periodo fu molto importante perché lì si formarono i sogni, prendendo una loro sostanza: un conto è sognare da solo, altro è invece sognare in gruppo. Sognare in compagnia significa edificare delle città immaginarie. In fondo tutti quanti noi, quando scriviamo, fondiamo delle città, le nostre samarcande. Tuttavia, anche le città periodicamente vanno distrutte per poi essere rifondate. Scrittori distruttori ne nascono uno ogni cent’anni, vedi Joice. Anche Houellebecq: Le Particelle Elementari .Una rivelazione sul tema dell’amore per me. L’amore non solo per una donna ma per tutti i circuiti nervosi e per tutte le parti chimiche che ci alimentano. In un certo senso dare dignità religiosa a tutta quella parte del nostro corpo che prima veniva considerata disdicevole. Corpo e mente sono complementari l’uno all’altra, non puoi mai scinderli. Non credo nel cogito ergo sum di matrice cartesiana. Ritengo invece che bisogna sottoporre il nostro corpo a una serie di torsioni, anche estreme; una sorta di prove iniziatiche che ti permettono di essere uomo. In tal senso l’abbattimento dei tabù in amore è indispensabile per mettersi alla prova.

Ti senti più costruttore o distruttore?

Più costruttore: per poter distruggere devi conoscere molto bene quello che stai distruggendo. Per cui è un azzardo che non mi sono mai sentito di affrontare.

Alcuni libri potrebbero alimentare la distruzione della “città”?

Come ti dicevo compito di uno scrittore è quello di scrivere storie belle. Se tu non osi, non puoi entrare in un laboratorio per confrontarti con ciò che stai cercando, il tuo libro potrebbe scoppiarti in mano. Del resto quando fu scoperta l’energia nucleare sapevamo che poteva causare disastri immani ma non potevamo rimanere nella grotta: l’uomo è fatto per sperimentare a proprio rischio e pericolo.

La cura della scrittura versus la scelta del tema da narrare?

La qualità della scrittura è esattamente paragonabile alla qualità della voce: per poter avere una voce chiara devi esercitarla in modo tale da poter raggiungere un vasto cromatismo di possibilità sonore. Devi esercitarti per raggiungere un livello di chiarezza che sia capace di esprimere esattamente quello che volevi dire. Per poterlo fare devi utilizzare le parole giuste. Tornando per un attimo al rapporto con la musica, devi trovare le note adatte per poter fare in modo che la trama possa esprimere non soltanto un racconto bello, al punto da suscitare il piacere della lettura, ma possa fruttare “dopo”, permettendo al lettore di riflettere su quanto tu scrittore hai detto. La scrittura che non è di qualità inaridisce subito; è una pianta che non ha molte stagioni di vita. Viceversa la scrittura di qualità permette di entrare in uno spazio di classicità. I grandi scrittori hanno lavorato sulla qualità della scrittura affinché le proprie opere durassero nel tempo. Prendiamo a esempio gli elettrodomestici: oggi vengono costruite macchine che devono durare poco affinché se ne comprino diverse nel giro di pochi anni. Il consumismo ha infettato anche il mondo della scrittura, per cui tutto viene digerito velocemente. Mentre la scrittura dovrebbe avere una digestione lunga.

La tua scrittura, frutto di ricerca, ha un lettore individuato?

Come dicevo prima, si legge per imparare qualche cosa; per costruire un sé che si possa ampliare, moltiplicare. I libri scritti soltanto per essere letti e digeriti come se fossero degli alimenti per la sopravvivenza giornaliera non danno la possibilità di formare una coscienza etica, politica, un’intonazione che consenta di potersi esprimere nella continuità. Sono tutti libri preconfezionati: oggi le case editrici corrono dietro al fenomeno momentaneo per sfruttarlo finché fa presa sul lettore. Per poi abbandonarlo, sostituendolo con altro che gli consenta di fare soldi. Ciò a scapito dei classici, sia del passato che del presente come La Capria, Silone, Flaiano, Prisco, Rea, la Ortese. La scrittura non si rivolge a tutti ma a un pubblico selezionato, a monte, dallo scrittore in base ciò che decide di scrivere. La scrittura è una forma di comunicazione parziale, nel senso che non sai a chi ti rivolgi, chi leverà dal mare magnum della comunicazione il messaggio che hai lanciato nella “bottiglia”. C’è sempre un rapporto in contumacia tra lettore e scrittore: quando c’è lo scrittore non c’è il lettore e viceversa.

L’isola delle Voci è il tuo laboratorio di scrittura, il ruolo dei laboratori?

Un laboratorio di scrittura (www.isoladellevoci.it)  prima di tutto è un intrattenimento intelligente. I miei più che laboratori di scrittura, sono laboratori di lettura dove leggiamo brani dei grandi scrittori per carpirne i segreti. Certo, in un laboratorio di scrittura, di tanto in tanto, riesci a scoprire una vena luminosa, a tirare fuori qualche talento positivo. Fondamentalmente in un laboratorio di scrittura è sperimentarsi al fine di trovare la propria “voce interiore”.

Hai fondato e dirigi la rivista letteraria internazionale di narrativa e illustrazione «Achab». E’ un viaggio?

La passione per la scrittura un’ossessione conoscitiva. La conoscenza la puoi catturare solo attraverso l’azzardo, attraverso il viaggio che quasi sempre non è soltanto un viaggio di superficie ma un viaggio verticale: per poter capire che cosa sei e cosa è il mondo, devi scendere nelle “viscere” e devi osservare il buio senza paura che il buio ti possa accecare. Per questo in Moby Dick, alla fine, il capitano verrà trascinato negli abissi insieme alla balena. Vedi, tutti quanti noi siamo destinati al naufragio. Il punto è come naufragare? Tanto puoi farlo conducendo una vita mediocre dove ti accontenti di quel poco che hai. E poi c’è invece chi non accetta questa visione di un mondo ravvicinato e invece osa, cercando di capire chi è l’ultimo conducente che guida il treno sul quale ci ritroviamo. Ogni scrittore che si rispetti ha dei demoni e delle ossessioni che deve inseguire perché solo andando a caccia di quelle “balene” trovi te stesso.

Stai lavorando a un nuovo romanzo?

A febbraio uscirà la raccolta di quelli che considero i miei racconti migliori. Sarà edita da Ad Est Dell’Equatore e si intitolerà Polvere Per Scarafaggi. Unitamente sto lavorando a un romanzo, forse per il 2019, sulla falsa riga di Ferropoli.

Hai realizzato il romanzo della vita?

Credo che uno scrittore, un artista, non è mai soddisfatto della propria opera perché sa che può essere sempre migliorata. L’esempio è Moliere che morì sul palcoscenico recitando.

Morire con la penna in mano, quindi?

Oddio, è macabro. Però, ha anche un che di romantico!

Vincenzo Giarritiello

IL TRIBUTO DI POZZUOLI ALLA REGISTA MARIA DI RAZZA

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Pozzuoli non poteva scegliere modo migliore per onorare una propria “figlia”, la regista Maria Di Razza premiata al Festival del Cinema di Venezia 2018 per il cortometraggio animato Goodbye Marilyn: venerdì 9 novembre nella sala Consiliare di Palazzo Migliaresi gremita di pubblico, in presenza dell’Assessore alla Cultura Maria Teresa Di Fraia e dell’esperto di cinema Giuseppe Borrone, raggiunti a fine serata dal Sindaco di Pozzuoli Vincenzo Figliolia trattenuto altrove da impegni istituzionali, è stato tributato il giusto riconoscimento a una donna che ha saputo trasformare la propria passione per il cinema in attività costruttiva e vincente, affiancando umilmente il proprio nome a quello della Loren tra i puteolani finora distintisi nel mondo del cinema.

Già autrice di tre cortometraggi animati altrettanto apprezzati dalla critica – Forbici sul femminicidio; Facing off sull’ossessione del rifacimento estetico del proprio corpo; (In) felix sul dramma della Terra dei fuochi – del cortometraggio Ipazia dedicato alla filosofa greca  trucidata dal fanatismo cristiano, con Goodbye Marilyn la Di Razza ha attualmente raggiunto l’apice della propria carriera cinematografica.

Durante la serata, culminante con la proiezione di Goodbye Marilyn, sono stati proiettati in sequenza cronologica i primi tre cartoni della regista dalla caratteristica di essere muti ma dotati di immagini potenti che denunciano il degrado a vari livelli in cui versa la nostra società. In modo particolare (In)Felix – film a cui la Di Razza ha ammesso d’essere molto legata, ringraziando pubblicamente il disegnatore Domenico Di Francia e l’animatore  Costantino Sgamato entrambi presenti in sala – è un’aperta accusa dell’inquinamento criminale in atto nella Terra Dei fuochi. Il film trae ispirazione dalla relazione finale del geologo Giovanni Balestri sulle condizioni di quel territorio: secondo Balestri entro il 2064 i rifiuti tossici avranno avvelenato le falde acquifere, determinando la sparizione di ogni forma di vita in quelle zone!

Per quanto riguarda Goodbye Marilyn, trattandosi della trasposizione cinematografica dell’omonimo romanzo di Francesco Barilli edito da BeccoGiallo Editore dove si immagina l’ultima intervista di una Marilyn Monroe novantenne a un giornalista, la necessità dell’utilizzo vocale ha spinto la regista a scegliere come doppiatori Maria Pia Di Meo voce italiana di Meryl Streep e il giornalista di Sky Gianni Canova. La bellezza della pellicola è accentuata dalla colonna sonora curata da Antonio Fresa.

Al termine delle proiezioni, la di Razza è stata onorata pubblicamente dal sindaco Figliolia con un breve ma commosso discorso, culminato in un abbraccio fraterno essendo i due amici.

Nei saluti di commiato la regista ha precisato che nel film  la frase finale rivolta da Marilyn al giornalista, “La prego, non mi faccia apparire ridicola”, è la stessa proferita da Marilyn Monroe nella sua ultima intervista prima di suicidarsi.

A conclusione un lungo applauso ha salutato la Di Razza che non ha nascosto le proprie ambizioni da Oscar per il 2020, a conferma che i vincenti pensano sempre in grande.

A questo punto non resta che incrociare le dita augurandole IN BOCCA AL LUPO!

DRAMMATURGIA PRIVATA, LA POESIA DI ANGELA SCHIAVONE

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(nella foto il professor Andrea Bonajuto membro dell’associazione Quarto Bene Comune, lo scrittore Luca Marano e la poetessa Angela Schiavone)

Ieri sera presso la sede dell’Associazione Quarto Bene Comune ho assistito alla presentazione del volume Drammaturgia Privata, edito da Giuliano Ladolfi Editore, pluripremiata raccolta di poesie, opera prima di Angela Schiavone.

In assoluta sintonia con lo stile elegante, colto e discreto dell’autrice, le poesie che danno vita al volumetto sono un compendio dei tanti versi scritti da Angela nel corso degli anni su quadernetti dove traduceva in poesia i tormenti del proprio Io. Anche in questo caso, come ha più volte sottolineato il relatore, professor/scrittore Luca Marano, la scrittura, in particolare la poesia, conferma il proprio valore terapeutico cui affidarsi per ricucire le ferite dell’anima.

Nella loro semplicità, i versi della Schiavone non sono né banali né algidi, a riprova che la sua poesia non è affatto un costrutto laboratoriale finalizzato a suscitare a tutti i costi emozioni nel lettore e nell’ascoltatore, bensì un frammento istantaneo di sincera emozione, a cui il poeta sente l’impellente necessità di dare eco attraverso il componimento, affrancandolo dai meandri del proprio io per porlo alla luce del sole, ricomponendo con le lettere il puzzle emozionale del dolore esistenziale che ne tormenta l’anima.

Mai come nel caso della Schiavone, la cui poesia Marano non ha avuto dubbi a definire “dotta” per via dei ripetuti richiami ai miti greci, potremmo parlare di poesia al femminile – seppure la stessa autrice ammette che qualunque forma d’arte travalica il genere -, ciò perché Angela nella costruzione dei propri versi è delicata e pudica come solo una donna sa essere anche quando parla dell’amore carnale.

Tra i tanti versi che meriterebbero d’essere citati uno a uno per la potenza metaforica e icastica che caratterizzano la poesia della Schiavone, mi soffermo su quello in cui la poetessa a un certo punto recita  “un orizzonte inerme/e la certezza che terra è piatta”, chiaro riferimento all’appiattimento dei sentimenti umani che, mai come oggi, caratterizzano la società, dove l’apparire ha soppiantato l’essere.

La serata si è conclusa con la lettura di un inedito dedicato al marito Flavio. Mentre leggeva, Angela non ha saputo contenere la commozione, coinvolgendo emotivamente la platea che al termine l’ha a lungo applaudita, ringraziando lei e Marano per la bella serata.

LA VOCE DEL FIUME

fiume

     Come al solito, seppur domenica, Lorenzo si svegliò che ancora era buio malgrado fossero quasi le otto del mattino. Lì in montagna albeggiava sempre tardi, per via della nebbia fitta che non si dissolveva prima del levarsi del sole. E se il sole avesse avuto difficoltà a penetrare con i propri raggi il banco ovattato causa il maltempo, per tutto il giorno il paese e il panorama circostante sarebbero stati fantasmi la cui presenza era percettibile solo a chi si fosse avventurato nello spasso manto di umidità.

     Levatosi dal letto, Lorenzo indossò la giacca da camera piegata ai piedi del letto; accese la stufa a gas posta in un angolo per riscaldare l’ambiente. Quindi aprì la finestra per rinnovare l’aria nella casa. La folata di gelo, come un schiaffo violento, filtrò nella stanza, facendo rabbrividire l’uomo che subito richiuse le imposte per non gelare. Rabbrividendo, andò in cucina; mise sul fornello la caffettiera, preparata la sera prima, e accese il fuoco. Nell’attesa che il caffè fosse pronto, andò in bagno. Il gorgoglio del caffè lo colse che era ancora seduto sulla tazza a leggere i messaggi sullo smartphone. Incespicando nel pantalone del pigiama calato ai piedi, strusciando i piedi sul pavimento, uscì dal bagno. Levò la caffettiera dal fuoco e versò il caffè nella tazzina poggiata sul tavolo. Bevve, facendo attenzione a non bruciarsi. Poi rientrò in bagno per lavarsi. Terminata la toilette, indossò il vestito della domenica; guardandosi nello specchio dell’armadio, fece il nodo alla cravatta. Calzò le scarpe nere, lucidate la sera prima in maniera ossessiva fino a farle brillare come se fossero nuove; indossò il soprabito; prese l’ombrello e aprì la porta di casa. Fermo sulla soglia, levò gli occhi al cielo: minacciosi nuvoloni scuri si addensavano sui tetti delle case. Stando alle previsioni meteo, quel giorno, per le nove, un violento temporale si sarebbe abbattuto sul paese. Come accadeva sempre in quelle occasioni, lo scrosciare dell’acqua avrebbe alimentato il piccolo fiume che, scendendo dalla montagna, attraversava il paese, trasformandolo in un fiume in piena. Scorrendo vorticosamente, l’acqua si sarebbe riversata tra i massi e gli alberi che sorgevano nell’alveo, dando vita a una melodia di suoni che, alle sue orecchie e a quelle dei suoi compaesani, risuonavano eco assordante di misteriosa voce.

      Come lui, tutti gli abitanti del paese, a loro volta vestiti a festa e muniti di ombrello, uscirono di casa per raggiungere le sponde del fiume per assistere allo spettacolo che di lì a poco la natura avrebbe offerto gratuitamente.

    Lorenzo e gli altri si sistemarono sulle rocce poste in alto al letto del fiume per ripararsi dalla violenza dell’acqua che a breve si sarebbe riversata giù dalla montagna. Ognuno di loro stringeva nella mano il telefonino, facendo attenzione a riparlo con l’ombrello non appena le prime gocce d’acqua iniziarono a precipitare dal cielo.

     Bastarono pochi istanti e la pioggerellina si trasformò in temporale, trasformando il fiumiciattolo in fiume in piena. Man mano che l’acqua sciabordava velocemente tra i massi, gli alberi e tronchi dell’alveo, nell’aria si librava un’intensa melodia. Incuranti della pioggia che, malgrado gli ombrelli e gli impermeabili, entrava fin nelle ossa, gli spettatori fradici restarono a lungo su quell’arena naturale per assistere la cascata che, impetuosa, scendeva giù dalla montagna verso il mare lontano, di cui molti di loro avevano sentito solo parlare ma mai visto: lo immaginavano come un immenso lago salato, chiedendosi se il sale lo si sarebbe dovuto mettere comunque nell’acqua per cucinare o bastava quello che naturalmente già c’era.

     Quando la pioggia e il freddo divennero insopportabili, uno alla volta gli spettatori rientrarono in casa.

     Non appena furono all’asciutto delle proprie abitazioni di pietra riscaldate dai camini e dalle stufe a pallet, ognuno di loro corse in bagno ad asciugarsi e indossare abiti asciutti. Quindi seduti a tavola, bevendo un bicchiere di vino e mangiando un pezzo di formaggio con il pane, da soli o in compagnia, in assoluto silenzio, avviarono la riproduzione della registrazione audio effettuata sulla riva mentre l’acqua scorreva. All’orecchio di una persona comune, il suono che si diffondeva dall’apparecchio sarebbe risuonato per ciò che era, uno scrosciare d’acqua. Per gli abitanti del paese invece esso era la voce del fiume. Ognuno di loro l’ascoltava in religioso silenzio per cogliervi l’insegnamento di vita racchiuso. Infatti, da sempre, per chi abitava in quei luoghi, il fiume non era semplicemente un corso d’acqua da sfruttare per irrigare i campi e, anticamente, la fonte da cui attingere l’acqua per bere, cucinare e lavarsi. La credenza popolare riteneva che provenendo dall’alto delle cime, l’acqua trasportasse con sé un messaggio divino, comprensibile solo a loro.

     Anche Lorenzo!

MARATONA DI NAPOLI, QUANDO SI FARA’?

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Ogni qualvolta partecipo a una maratona che non fosse a Napoli, o la seguo da spettatore in televisione, com’è successo ieri per quella di New York, osservando lo scenario lungo cui si dispiega il percorso, non posso fare a meno di chiedermi perché tutte le maggiori città italiane e internazionali riescono a organizzare una maratona che duri nel tempo, pur non offrendo un panorama suggestivo e spettacolare come quello partenopeo, mentre Napoli, che a livello scenografico potrebbe affermarsi tra i primi posti, se non prima in assoluto, non vi riesca.

Tralasciando le possibili difficoltà organizzative derivanti dall’individuare il tracciato per la gara e la data in cui si possa interdire il traffico cittadino per almeno sette/otto ore senza turbare l’animo dei napoletani, insofferenti agli stop alle auto anche per pochi minuti figurarsi per quasi mezza giornata, la domanda si ripete sempre come un mantra: perché non si riesce?

Quale sia la risposta, francamente non saprei proprio. Di certo, se dopo diciotto edizioni non si è riusciti a strutturare una gara che garantisse per gli anni a venire la dovuta continuità, grazie al percorso collaudato e al periodo in cui si dovesse svolgere – come invece regolarmente accade ormai da anni a Firenze, Roma, Milano, Torino, Venezia, Parigi, Berlino, Londra, New York, Valencia, – è probabile che le difficoltà, più che di natura tecnica, siano burocratiche.

Anche perché a Napoli, ormai da almeno quattro anni, si organizza una mezza maratona di livello internazionale che lo scorso anno ha fatto registrare oltre seimila partecipanti e per la prossima edizione del 2019 punta a sfiorare i diecimila iscritti, un record per il sud Italia. Una mezza maratona che, proprio per la bellezza dello scenario in cui si svolge e per il percorso tecnico su cui si corre, è considerata tra le più belle mezze maratone al mondo. Una gara capace di catalizzare oltre seimila atleti è un grande viatico per il turismo in quanto molti runner che provengono da fuori Napoli si organizzano con le famiglie e con gli amici per regalarsi un week end di turismo e sport, rilanciando l’economia cittadina; favorendo non solo l’organizzazione ma tutto l’indotto che è coinvolto nell’evento: alberghi, ristoranti, pizzerie, negozi, musei.

Poiché credo, con il dovuto rispetto, che Napoli. sia a livello paesaggistico che culturale, non abbia nulla da invidiare a nessun’altra città al mondo, New York inclusa, mi stupisce come le varie amministrazioni cittadine che si sono avvicendate negli ultimi venti anni non si siano adoperate affinché anche a Napoli si organizzasse una maratona di livello mondiale, come se, oltre al calcio, nessun altro sport meriti attenzione.

Oddio, se proprio fosse impossibile organizzarla per motivi a noi ignoti, meglio limitarsi alla collaudatissima ventuno, anziché scommettere sulla maratona con il rischio che il suo insuccesso si ripercuota negativamente anche sulla ventuno, vanificando i tanti sforzi fatti negli anni affinché assurgesse a evento sportivo di livello mondiale.

Ma se davvero, come con sempre maggiore insistenza si vocifera, nel 2020 finalmente anche Napoli avrà la sua maratona, allora significa che chi di dovere si sta muovendo in sordina, studiando nel dettaglio ogni minimo particolare per garantire un’edizione entusiasmante che possa ripetersi nel tempo invece di restare anch’essa isolata come tutte le altre precedenti edizioni.

Nell’attesa, godiamoci la mezza maratona di Napoli che si svolgerà il 24 febbraio 2019. Di sicuro sarà una festa indimenticabile!