L’ENOLOGO ALESSIO BANDINELLI SI RACCONTA

ALESSIO

Alessio da quanto tempo svolgi l’attività di enologo?

Da vent’anni. Ho iniziato lavorando in piccole aziende vitivinicole. Poi, agli inizi del duemila, non appena laureato, ho intrapreso  l’attività a pieno regime.

Cosa ti ha spinto a scegliere questa professione?

Per quanto riguarda il lavoro, non ho mai avuto il sogno nel cassetto. Però mi sono sempre piaciuti i lavori attinenti all’agricoltura. Papà negli anni novanta era consigliere nazionale dell’ASI, associazione italiana sommelier, e andavamo in viaggio a visitare le cantine e le aziende vitivinicole. Di conseguenza a casa si sviluppava l’interesse per tutto ciò che riguardava il vino cui si abbinava un consumo intelligente che ti portava a fare un vero e proprio viaggio in un bicchiere. Degustando un buon bicchiere di vino, socchiudendo gli occhi mentre lo bevevi, riscoprivi gli odori e i sapori della terra da cui il vino proveniva. Attraverso quel viaggio degustativo ti veniva raccontata la storia del vino che bevevi e la storia di chi lo produceva.

Sì, ma esattamente la tua propensione a fare l’enologo da dove nasce?

Forse proprio da questa esperienza adolescenziale. Anche se non escludo che potesse esserci già qualcosa in me che si era messa inconsciamente in moto. Ad esempio dopo le medie scelsi di iscrivermi all’istituto agrario di Firenze in quanto sentivo che dovevo fare qualcosa che fosse attinente alla terra. Per quanto mi riguarda ho sempre cercato un lavoro tangibile, vero. Un lavoro attraverso cui l’uomo producesse davvero con le proprie mani. E a ciò ho sempre associato l’agricoltura!

Tu oggi sei un libero professionista, ma in passato hai lavorato come dipendente presso grosse aziende. Ci spieghi come avviene questo passaggio?

È stato un percorso: ho prima studiato a Firenze poi ho avuto l’opportunità e la fortuna di formarmi in un’importante azienda trentina che produce milioni di bottiglie all’anno dove ho fatto  tutto la trafila dalla gavetta fino alla direzione tecnica. A quel punto mi son chiesto, “che si fa?”. È scattato un meccanismo per cui da otto anni  mi sono rimesso in discussione per vedere se fossi capace di fare qualcosa da solo. Penso sia la mia indole che mi porta a volermi rimettere periodicamente in gioco un po’ in tutte le cose che faccio. Oggi lavoro in quattro regioni d’Italia, seguo progetti interessanti e ambiziosi, ho presentato una domanda di brevetto sulla tecnica di vinificazione con i raspi, che spero verrà accettata. Tutto ciò mi gratifica, ma soprattutto mi stimola ad andare sempre avanti.

Tu sei molto legato a Raggiolo, ciò non ti ha mai portato a dar vita a un prodotto vinicolo che avesse come richiamo il paese?

Filosoficamente sarebbe una bella scommessa… Volendo essere realisti, qui a Raggiolo non sarebbe semplice impiantare una vite da cui poi trarre vino locale. Considera che siamo sull’Appennino, un territorio dove ci sono grossi magnati del vino: Biondi Santi per il Brunello, tanto per citarne uno. Persone che hanno investito tanto sul territorio. Non escludo che lo stesso un giorno non possa accadere anche a Raggiolo. Ma sarebbe un progetto molto ambizioso che richiederebbe un tale investimento di risorse e mezzi che, al momento, reputo impossibile da realizzarsi in quanto nella zona  non mi risulta ci  siano imprenditori  disposti a investire nella realizzazione di un’idea simile.

A proposito di ambizioni, quali sono le tua ambizioni come enologo?

Io vivo molto di soddisfazione. La riuscita di un progetto mi gratifica, mi soddisfa! L’ambizione sicuramente potrebbe essere quella di riuscire a realizzare il vino ideale. Ma fortunatamente non arriva mai, per cui sei sempre alla ricerca di nuovi orizzonti per crescere professionalmente e di riflesso anche come uomo.

Questa tua visione è comune agli artisti: ogni artista sa che la propria opera non sarà mai perfetta ma perfettibile, ossia migliorabile. In virtù di ciò, ti definiresti un artista?

Non lo so. Da tecnico della natura cerco di leggere i segnali della materia prima, di fare un’analisi della qualità delle uve prodotte nel corso degli anni e l’analisi del territorio. Tutti aspetti che mi consentono di vivere un legame profondo con la terra pur essendo appunto un tecnico.

Come sarà il vino del 2019?

È presto per dirlo. Almeno in toscana abbiamo ancora un buon mese e mezzo di attesa per fare il Sangiovese. Allo stato attuale i segnali indicano che quest’annata dovrebbe essere buona. Ma, come dico sempre, “finché non c’ho l’uva in cantina, non te lo dico!”

PAOLO SCHIATTI, CUSTODE DELLE TRADIZIONI

foto paolo schiatti

Di seguito l’intervista integrale pubblicata su comunicaresenzafrontiere.it

Intervista a Paolo Schiatti presidente della Brigata di Raggiolo la cui funzione è recuperare e salvaguardare le tradizioni di Raggiolo, perla del Casentino Toscano in provincia di Arezzo, arroccato a 600 mt sulle pendici del Pratomagno, inserito nella ristretta lista dei Borghi più Belli d’Italia.

 

Dottor Schiatti da quanto è presidente della Brigata di Raggiolo?

Da quattro anni

Quando nasce la Brigata?

Venticinque anni fa, da un’idea di un gruppo di amici. Quattro amici al bar, letteralmente. L’intenzione era quella di dar vita a qualcosa che valorizzasse Raggiolo, arrestando la perdita delle tradizioni che si poteva intraprendere.

Vi proponete tipo pro loco o il vostro compito principale è quello di serbare le tradizioni del luogo?

Assolutamente serbare le tradizioni del luogo! Tant’è vero che abbiamo deciso di non essere una pro loco e di non avere questa identificazione neanche nel nome.

Quando nasce Raggiolo?

La prima notizia storicamente accertata è del 967, prima del mille, in epoca ottoniana. Da un documento del regesto di Camaldoli risulta una donazione dell’imperatore Ottone a un cavaliere, Goffredo di Ildebrando, di alcuni territori tra cui “villa raggiola”.

Il termine raggiolo evoca alla mente il raggio di sole. E’ questa l’origine del nome?

No, è solo un’assonanza! L’analisi linguistica della cattedra di glottologia dell’università di Firenze conduce in un’altra direzione. La definizione raggiolo, per tutta una questione complessa di lemmi, indicherebbe “il luogo degli spini”, ossia un sito di non facile accesso all’interno del bosco.

La sala in cui ci troviamo si chiama “sala dei corsi” in riferimento agli abitanti della corsica. Qual è il legame tra Raggiolo e i corsi?

Dopo il 400 a Raggiolo si insediò una comunità di corsi che ripopolò l’antico castello che era andato completamente distrutto. I corsi sono gli antenati dei raggiolatti, una discendenza di cui qui a Raggiolo si va molto fieri e diversi vocaboli tipici di Raggiolo sono di origine corsa.

Per secoli l’economia di Raggiolo si è mantenuta grazie alla raccolta delle castagne e dei prodotti che vi si  ricavavano. Voi ogni anno, tra fine ottobre e inizi di novembre, in piazza organizzate la festa della castagna…

La castagnatura, è un termine tecnico del casentino.

Questa tradizione inerente la castagna esiste tuttora, o sta scomparendo e voi vi proponete di recuperarla?

Esiste tuttora, ma in maniera minima rispetto al passato. Raggiolo è stata davvero la patria della castagna fino alla seconda guerra mondiale e nei primi anni del dopoguerra. I documenti ritrovati all’università attestano che fin dal duecento i conti Guidi, ai quali apparteneva Guido Novello signore di Raggiolo tra il 1301 e il 1322, avevano selezionato una castagna tuttora esistente derivante da un tipo di castagno detto raggiolano: la castagna raggiolana. Consideri che il castagno non è un albero autoctono, ma fu importato dall’Asia dai romani. La sua estensione territoriale a livello nazionale è dovuta al fatto che è un albero da frutto. Ma soprattutto è un albero del pane: dalla farina di castagne si ottiene la polenta di castagne che rispetto a quella di mais ha la caratteristica fondamentale di essere proteica. Per generazioni a Raggiolo si è vissuto grazie alla farina di castagne.

La vostra ambizione è salvaguardare la storia e le tradizioni di Raggiolo. Turisticamente il paese sta avendo un grosso boom, non a caso è stato inserito nella lista dei borghi più belli d’Italia, e questo è sicuramente anche merito vostro. Come Brigata quali altri obiettivi vi siete proposti per portare avanti questa crescita?

Il discorso sarebbe lungo. Volendo essere sintetici, credo che alla base vi sarebbe l’esigenza di creare un’unità territoriale tra tutti i comuni edificati sul massiccio del Pratomagno. Una montagna straordinaria, con una bellezza paesaggistica unica, sulla cui cima si estende un’immensa prateria che per secoli è stata, unitamente alla Maremma, luogo di pascolo per le greggi all’epoca della transumanza; divide il Casentino dal Val d’Arno ed è circondato nel suo percorso dall’Arno. Ecco, reputo che questa sia la prima cosa da farsi, dare unità a questo mondo che ha una sua omogeneità territoriale culturale e urbanistica.

Quindi, se non ho frainteso,  tutto ciò richiederebbe non solo un impegno culturale ma anche politico!?

Sì,implica che i comuni collaborino insieme a un progetto territoriale che facesse emergere il Pratomagno in quanto tale. E dentro questo progetto fare in modo che le tradizioni dei singoli paesi venissero recuperate e salvaguardate. 

Di raggiolatti in paese ve ne sono sempre meno, mentre vi è un aumento esponenziale di turisti. Alla lunga ciò non potrebbe far cadere nel dimenticatoio la storia e le tradizioni di Raggiolo?

Certo, il rischio è reale! Ed è proprio per evitare che avvenga che come brigata ci siamo posti l’ambizioso compito di recuperare e tenere vive le antiche tradizioni del luogo e organizzare escursioni in posti dove si possono ammirare le meraviglie della natura che ci circonda. È giusto che il paese si incrementi turisticamente, ne beneficia tutta l’economia locale. L’importante è che tutto ciò non oscuri le origini e le tradizioni di Raggiolo! Finché potrò, mi impegnerò con tutte le mie forze perché la radici storico-culturali del paese non cadano nel dimenticatoio. Ovviamente con la collaborazione dei volontari della brigata, donne e uomini straordinari senza i quali tutto quel che abbiamo finora fatto sarebbe stato impossibile.

ESCURSIONE NELL’ALVEO DEL TEGGINA, SULLE ORME DEL FIUME

L'immagine può contenere: 4 persone, persone in piedi, albero, pianta, spazio all'aperto e natura

Da sinistra: Adelio Gambini, Franco Franceschini, Bruno Luddi, Paolo Schiatti, Lorenzo Venturini, Arturo Gambini.

Di seguito la versione integrale dell’articolo pubblicato su comunicaresenzafrontiere.it

Alcuni giorni dopo l’escursione in notturna sul Pratomagno, passeggiando per Raggiolo incontrai Paolo Schiatti, una delle guide di quella salita. Dopo avermi chiesto come mi sentissi, mi comunicò che stavano organizzando un’escursione fin su la Pozza del Berluzzi, a circa 900 mt di altezza, per poi ridiscendere l’alveo del Teggina fino al Ponte della Prata, un chilometro e mezzo a valle; magari camminando nell’acqua come facevano da ragazzini.

Da come me la descrisse sembrò dovesse trattarsi di un’escursione priva di difficoltà, una passeggiata o poco meno.

 

L’appuntamento è alle 8,30 di mattina in piazza. Oltre me ci sono Lorenzo Venturini, Paolo Schiatti, Adelio e Arturo Gambini, Franco Franceschini e Bruno Luddi. Tutti abbiamo superato da tempo  i cinquant’anni. Il più giovane sono io che ho completato i cinquantacinque da poco.

L'immagine può contenere: una o più persone, persone in piedi, albero, pianta, cielo, erba, spazio all'aperto e natura

Contrariamente a quanto mi era stato prospettato, che non si trattasse di una semplice passeggiata lo intuisco quando, arrivati alla pozza del Berluzzi, un’ampia vasca naturale in cui il fiume si raccoglie per poi riversarsi a valle in uno scenario da canyon, luogo prediletto dai pescatori di trote, Bruno ci fa sapere che lui e Franco ritorneranno indietro ché non se la sentono di seguirci.

 

L'immagine può contenere: pianta, albero, spazio all'aperto, acqua e natura

Istintivamente punto lo sguardo sull’enorme parete di roccia che si innalza davanti a noi e sugli enormi massi che invadono il letto del fiume, ostruendone in parte il cammino. Ci toccherà camminarci sopra e saltare dall’uno all’altro per arrivare al Ponte della Prata. Uno sforzo e un rischio notevoli che forse non si addicono a un gruppo di sessantenni come noi, seppure tutti ancora in una condizione fisica più che dignitosa.

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Dopo aver salutato Franco e Bruno, ci incamminiamo in quello scenario cinematografico che mi ricorda tanto il Signore Degli Anelli, con pareti rocciose che si elevano maestose al cielo nella perpetua penombra della fitta boscaglia e alberi che si piegano su di noi come se si inchinassero in segno di riverenza al fiume.

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Di tanto in tanto il grido di un uccello squarcia il silenzio: non mi stupirei se all’improvviso tra i cespugli  apparisse uno gnomo, un elfo o una fata…

Molte rocce affioranti dall’acqua sono schizzate di bianco come se si trattasse di pittura: “Sono gli escrementi dei rapaci che vengono qui ad abbeverarsi dopo il pasto”, mi spiega Lorenzo. A confermarlo è la carogna di una talpa riversa sulla sponda poco sopra di noi.

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Man mano che scendiamo verso valle, il percorso diventa sempre più impegnativo, obbligandoci a veri e propri equilibrismi tra alberi e rocce per passare da una sponda all’altra. Il fiume sfila veloce sotto di noi incuneandosi in ogni spiraglio, intonando una dolce melodia amplificata dal silenzio in cui siamo immersi .

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Mentre balziamo sulle rocce, Paolo indica le ampie chiazze  rosse che si riflettono dall’acqua facendola sembra sangue: “E’ ferro”, spiega, spostando lo sguardo su delle pietre asciutte ricoperte da un manto rossastro. Mi racconta che all’epoca dei longobardi a Raggiolo c’erano tante miniere di ferro, alcune rimaste in vita fino a molti anni fa, di cui tuttora si serba il ricordo nel nome del luogo ove sorgevano.

L'immagine può contenere: spazio all'aperto, acqua e cibo

Notando la mia incertezza nel muovermi sull’acciottolato umido, mi ammonisce a non mettere i piedi sulle pietre bagnate o ricoperte di muschio perché rischierei di scivolare. In effetti basta poggiare il piede su un masso bagnato e l’equilibrio diventa subito precario. Avendo calzato le scarpe da running, la suola di gomma aumenta notevolmente il rischio di scivolare. Divarico le gambe per cercare di non perdere l’equilibrio e vado avanti.

Tra di noi il più agile è Adelio, che è anche il più anziano: salta da una roccia all’altra come un capriolo. Guardarlo muoversi con tale facilità su quel ponte sconnesso di rocce non penseresti che abbia settant’uno anni… Va avanti e indietro come un ragazzino per individuare la strada migliore da seguire.

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Adelio Gambini

Strada è un eufemismo! L’unica “strada” che converrebbe prendere per non rischiare di farsi male sarebbe quella del fiume: immergersi con i piedi nell’acqua e proseguire tra i flutti fino a quando la “strada” non diventi percorribile. Pare che da ragazzi facessero così…

Per quanto mi riguarda provo a stare dietro ad Adelio, gli altri si attardano per scattare foto o ammirare il panorama circostante.

Osservando un enorme masso riverso nell’acqua, Adelio mi spiega che, come tanti altri, fu trascinato lì dall’alluvione del 58. All’epoca lui aveva nove anni: “per giorni venne giù tanta acqua da far temere che Dio avesse inviato in terra un nuovo diluvio!”

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Riprendiamo il cammino. Impreco contro me stesso per essermi portato il bastone. La sua presenza, rivelatasi fondamentale durante l’ascensione al Pratomagno, ora risulta un impedimento. Più volte faccio il pensiero di liberarmene. Mi trattengo, non sapendo cosa mi aspetta più avanti.

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Anche Paolo e Lorenzo mostrano un’agilità non comune nel saltare sulle pietre. Entrambi coltivano la passione per il tracking, quindi sono abituati a gestire simili situazioni.

Arriviamo in un punto dove è praticamente impossibile proseguire nell’alveo. L’unica soluzione è salire sul fianco sterrato del bosco, facendo attenzione a non scivolare cadendo di sotto.

Ci arrampichiamo per poi ridiscendere. Adelio scivola con i piedi di traverso sul terreno sfaldato con un’agilità da fare invidia, lo imito. Seppure a fatica, arrivo su uno spuntone di roccia. La naturalezza con cui balza sul terreno sotto di noi testimonia quanto sia abituato a cose del genere. Mi guardo intorno alla ricerca di un appiglio. Davanti a me un grosso ramo si protende nel vuoto. Penso di afferrarlo per appendermi in modo da calarmi a mia volta di sotto. Non appena lo agguanto, cede di schianto. Casco sul fondo senza alcuna conseguenze. Mi rialzo, rassicurando gli altri che va tutto bene.

Proseguiamo il nostro cammino, se si può chiamare cammino quell’inferno di pietre e massi…

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Risalendo tra gli alberi, mi benedico per aver tenuto il bastone: quell’appoggio si sta rivelando fondamentale ora che siamo costretti ad avanzare nella vegetazione sovrastante il fiume in quanto nell’alveo è impossibile procedere per via degli enormi massi di cui è ingombro.

È proprio vero, ogni impedimento è giovamento!

Seppure al Ponte della Prata non manchi molto, la fatica incomincia a farsi sentire.

Quando arriviamo al ponte, Lorenzo è scuro in viso: risalendo verso il ponte è scivolato in acqua e accusa un risentimento alla caviglia e alla mano.

Paolo ci chiede se volessimo proseguire fin giù al paese. Né Lorenzo né io ce la sentiamo. Anche Arturo preferisce seguirci sul sentiero che conduce a Raggiolo.

Manco a dirlo, Adelio gli fa compagnia!

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Mentre rientriamo, ripensando alla mia caduta, non posso fare a meno di riandare con la mente allo sventurato escursionista francese che ha perso la vita poche settimane fa nel parco del Pollino. Quando è caduto nel burrone, era da solo. Chissà, probabilmente se fosse stato in compagnia si sarebbe salvato!

A parte lo spavento per la caduta e un leggero risentimento alla gamba, non rimpiango di aver partecipato all’escursione.

Era quello l’unico modo per vedere posti che diversamente mai avrei potuto ammirare.

Certo la caduta poteva rivelarsi ben più grave, ma, quando si decide di intraprendere un’avventura, bisogna mettere in conto l’imprevisto e cercare di fare di tutto per prevenirlo o limitarne i danni ponendo la massima attenzione a quel che si fa.

Non sapremo mai se il povero escursionista francese l’avesse messo a sua volta in conto. Al di là delle tante, ipotetiche sbavature nei soccorsi, forse intraprendere da solo un’escursione come la sua è stata un’imprudenza…

Per quanto riguarda noi credo di poter affermare, senza rischio di smentita, di aver dimostrato che l’incoscienza non è un elemento puramente anagrafico. Anche a sessant’anni si può essere incoscienti come dei ragazzini. Ma solo così puoi vivere qualcosa di unico, di irripetibile.

L’importante è poterlo poi raccontare con il sorriso sulle labbra, facendo autoironia. Significa che all’incoscienza hai saputo dosare la giusta dose di buonsenso!

IL LIBRO: “RAGGIOLO, UNO SCORCIO DI PARADISO IN TERRA”

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“Raggiolo, frazione di Ortignano in provincia di Arezzo, a 10 km da Bibbiena, è un paese del Casentino Toscano arroccato a 600 mt sulle pendici del Pratomagno, prospiciente il mistico pano-rama de La Verna dove San Francesco ricevette le stigmate. Circa venti anni fa mio suocero, il maestro Osvaldo Petricciuolo, vi acquistò una proprietà rurale che riadattò a casa d’arte per raccogliere parte della sua ricca produzione artistica. Per anni con la mia famiglia vi abbiamo trascorso l’estate. Là i miei figli sono cresciuti tra prati, boschi, ruscelli, respirando aria pura, mangiando cibi genuini, facendo i bagni nel fiume, pescando gamberi, giocando all’aperto con gli altri bambini. Ora che sono giovani Raggiolo per loro rappresenta un bagaglio di ricordi sbiaditi che cedono il passo a quelli eccitanti dell’adolescenza che hanno il nome di una ragazza cui si associa lo smarrimento e il rapimento per la scoperta dell’amore, le goliardate con gli amici, le occupazioni scolastiche, i nauseanti postumi della sbronza, l’impagabile sensazione di scoprirsi grandi in vacanza da soli con gli amici senza l’assillo dei genitori. Anche per me Raggiolo costituisce un bagaglio di ricordi, ma, diversamente dai miei figli, più vivi che mai, seppure riferiti all’epoca in cui loro erano piccoli.”

Così incomincia questa raccolta di pensieri e racconti dove il protagonista è Raggiolo, perla del Casentino Toscano, inserito nell’esclusiva lista dei borghi più belli d’Italia, in grado di trasfondere attraverso la magica atmosfera che vi si respira un mix emozionale, suscitando nell’animo umano ataviche reminiscenza che fanno riscoprire all’uomo quanto sia intimo il proprio rapporto con la natura. Suddiviso in tredici capitoli, il libro vuole essere un omaggio a un luogo dove la dimensione umana non si è ancora persa; un’oasi naturale in cui ogni individuo può rifugiarsi per ritrovare se stesso; uno scorcio di paradiso in terra.

Buona lettura

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ESCURSIONE IN NOTTURNA DA RAGGIOLO AL PRATOMAGNO: LA VOCE DELLE EMOZIONI

Di seguito la versione integrale dell’articolo pubblicato su comunicaresenzafrontiere.it

Fino e l’altro ieri la prima e unica volta che da Raggiolo ero salito al Pratomagno a piedi fu nel 2001. Allora l’appuntamento in piazza fu alle 7 del mattino.

Se non ricordo male impiegammo più di tre ore per raggiungere la Croce posta in cima a 1570 m di altezza. Un’ascesa di mille metri che culminò con una gustosa grigliata di carni e salsicce sui barbecue del rifugio. Mia moglie e i miei figli mi raggiunsero in auto insieme ai familiari degli altri escursionisti.

Per anni mi ero ripromesso di ripetere quell’esperienza. Tuttavia una serie di eventi, pigrizia inclusa, mi avevano sempre indotto a rimandarla.

Quest’anno, pochi giorni dopo esserci stabiliti a Raggiolo, con mia moglie decidemmo di fare un picnic al Pratomagno. Una volta arrivati con l’auto nei pressi del rifugio, ci incamminammo a piedi sul sentiero che per un chilometro taglia i campi fino alla Croce.

Convinta di non farcela, a metà percorso mia moglie disse di avviarmi, che mi avrebbe aspettato sul prato. Conoscendola, non obiettai. Giunto in cima, dopo circa una ventina di minuti, la sentii chiamarmi chiedendo da dove si salisse.

È indescrivibile la gioia che le si dipinse in viso quando, affacciandosi dalla ringhiera che cinge la Croce, ammirò l’immensità del panorama estendersi all’orizzonte.

“Che meraviglia…” sussurrò.

A seguito di quella piacevole esperienza, sapendo che da sette anni in paese organizzano una scalata in notturna al Pratomagno, mi ripromisi che quest’anno ci avrei partecipato.

Data fissata, 11 agosto!

Il raduno in piazza è alle 1.30 di notte. Decido di cenare presto per andare a letto alle nove in modo da dormire 2/3 ore. Per rischiare di non svegliarmi all’ora stabilita, attivo la sveglia. Mi alzerò in contemporaneo con il trillo.

In piazza davanti all’ingresso della chiesa si raduna un gruppo di venticinque persone senza distinzioni di età, si va dai ventenni ai sessantenni. A guidarci saranno Lorenzo Venturini, Paolo Schiatti e Massimo Ristori. Alcuni di noi hanno sulla fronte una torcia elettrica per rischiarare la salita.

Prima di muoverci facciamo la foto di gruppo. Nonostante l’ammonimento di Paolo di non chiacchierare mentre attraversiamo il paese per non disturbare chi dorme, nelle nostre vene scorre tanta di quell’adrenalina che è impossibile non fare qualche battuta a voce alta. Come poi sapremo al rientro, le nostre voci sveglieranno più di un raggiolato.

Non appena ci lasciamo alle spalle le luci di Raggiolo e imbocchiamo la strada sterrata che conduce al bivio con il sentiero del CAI, accendiamo le torce. D’incanto le tenebre vengono trafitte da tanti fasci luminosi. Le guide si sono divise rispettivamente in testa, al centro e in coda al gruppo in maniera da assicurarsi che nessuno resti dietro.

Spediti ci inoltriamo nelle tenebre, scrutandoci intorno per individuare eventuali presenze animali tra i cespugli. Cammino affiancando Lorenzo, il capocordata, rischiarando con la torcia che ho sulla fronte la strada davanti a noi. Mentre avanziamo, intravedo in un cespuglio due piccoli riflessi che subito spariscono: gli occhi di un animale riverberati dalla torcia.

Mentre ci inerpichiamo, ogni tanto mi volto dietro per controllare che gli altri ci seguano. Ho la sensazione che il gruppo si stia sfilacciando. La conferma arriva dai messaggi via radio tra Lorenzo e Massimo che lo esorta a rallentare.

Dopo due ore di cammino, giungiamo davanti a un cumulo di pietre sormontato da una croce con su scritto “AL PORO MONDO”. Lorenzo ci invita a raccogliere un sasso e gettarlo sul mucchio. Paolo ci spiega che quella sorta di lapide fu apposta lì molto tempo fa in ricordo di un poveraccio detto Mondo, probabilmente il diminutivo di Sigismondo, morto a causa di un fulmine.

Terminato il racconto, riprendiamo il cammino, fermandoci poco più avanti per rifocillarci. Apro lo zaino e prendo il panino che mi ero portato da casa insieme a un tramezzino e a delle barrette di cioccolata di cui una l’ho condivisa con qualche escursionista mentre salivamo. Anche gli altri ne approfittano per ristorarsi.

Non pensavo che alle tre e mezza di notte si potesse avere così tanta fame. Chiaro sintomo della fatica che stiamo affrontando nel salire.

La pausa dura un quarto d’ora. La voce di Paolo ci esorta a rimetterci in cammino. Prima di infilarmi lo zaino in spalla, traggo il giubbino e lo indosso: seppure sono sudato, il fresco si fa sentire.

Riprendiamo la scalata con l’obiettivo di giungere alla Pozza Nera prima delle cinque in modo da riposarci sui prati per poi affrontare gli ultimi tre chilometri che conducono alla Croce.

Mentre proseguiamo, la strada incomincia a dissolversi nel buio: devo cambiare le pile alla torcia.

Il silenzio che ci avvolge è surreale. A romperlo è il volo di un uccello che si libra dai rami spaventato dal nostro sopravvenire.

Dal walkie talkie di Lorenzo sopraggiunge la voce metallica di Massimo: chiede di fermarci ad aspettarli, una signora è in difficoltà. Lorenzo gli risponde che siamo quasi giunti alla Pozza Nera, li aspetteremo lì.

All’improvviso il sentiero si biforca in un bivio. Dopo un attimo di indecisione, Lorenzo svolta a sinistra. Lasciamo lo sterrato e iniziamo ad avanzare su un manto di foglie secche. Il silenzio della notte è rotto dal calpestio dei nostri passi su quel tappeto naturale.

Pochi metri e Lorenzo capisce di aver sbagliato strada. Non è preoccupato, siamo in prossimità della meta. Poco dopo ci troviamo al cospetto della staccionata che delimita i Prati!

Mentre noi escursionisti ci sediamo sull’erba per riposarci e cambiarci le magliette, Lorenzo torna indietro per accertarsi che gli altri non abbiano problemi.

Dopo essermi cambiato, mi stendo sul prato e fisso il firmamento sopra di me. Con lo sguardo individuo la cintura di Orione. Lorenzo e gli altri ci raggiungono. Gli chiedo notizie della signora: ha avuto grosse difficoltà alle gambe, ma si è ripresa.

Dopo essersi cambiato si siede sull’erba, prende lo smartphone e attiva l’applicazione che gli consente di individuare la posizione delle stelle nel cielo.

Lo spettacolo di pois luminosi che bucano la notte è di una bellezza straordinaria che solo in montagna si può godere. Sembra di toccare il cielo con un dito. Allungo idealmente la mano verso le stelle e mi diverto a unirle l’una con l’altra con la punta del dito disegnando immaginarie figure, come si fa con i puntini numerati dei giochi enigmistici. Restiamo sdraiati a chiacchierare sul prato per una mezz’ora. Il sonno mi coglie all’improvviso. Faccio fatica a tenere gli occhi aperti. A ridestarmi dal torpore è la voce di Paolo: ci sollecita a muoverci per raggiungere la croce adorna di luci in lontananza se vogliamo vedere l’alba.

Rimettiamo gli zaini in spalla e ci incamminiamo sul sentiero che si distende in un continuo saliscendi disseminato da larghe chiazze di sterco delle bianche vacche dormienti sull’erba poco distanti da noi. Qualcuno gli si avvicina con l’intento di scattare una foto disturbandone il sonno. Infastidita, una mucca si alza in tutta la sua imponenza. Meglio allontanarci, non si sa mai…

Ancora qualche centinaio di metri e raggiungeremo la Croce. A est in lontananza il cielo colora di rosa la cresta dell’Appennino tosco/emiliano.

Affrettiamo il passo per raggiungere la Croce.

Quando arriviamo in prossimità della cima, i prati sono disseminati di gente che ha trascorso la notte in tenda o nei sacchi a pelo. Qualcuno si aggira tra la folla offrendo caffè caldo e dolci artigianali. Lorenzo e io ne approfittiamo per mangiare un pezzo di torta

Da un fuoristrada della comunità montana scendono i musicisti che suoneranno in onore della Croce: oggi è la sua festa. A dire il vero la si sarebbe dovuta festeggiare il 28 luglio, ma il maltempo costrinse gli organizzatori a posticipare la data.

Arrivati ai piedi della Croce, con Lorenzo ci facciamo un selfie. Quindi a nostra volta volgiamo lo sguardo all’orizzonte per ammirare l’incanto dell’alba.

Un vento leggero ravviva l’aria. Chi ce l’ha si alza il cappuccio sul capo.

Lo spettacolo di colori e luci che si offre ai nostri sguardi è pura magia. Il confine tra cielo e terra, tracciato all’orizzonte dal profilo dell’Appennino, è un esplosione di lucei arancione frammista all’azzurro del cielo che rischiara sempre più man mano che il sole si alza. Una macchia arancione si allarga oltre i monti quasi fosse il bagliore di un’esplosione atomica. Per fortuna è solo l’incedere prepotente della vita che torna a occupare il proprio trono regale, strappandolo alle tenebre. Rapiti restiamo a osservare i riverberi di luce saettare al di là dei monti, rischiarando lo scenario sottostante man mano che l’astro di luce si inerpica su nel cielo. La vita torna ad affacciarsi nel mondo in tutto il suo splendore!

Lorenzo dà un’occhiata all’orologio, mi fa cenno che s’è fatto tardi.

Ci avviamo sul sentiero che conduce al rifugio da dove imboccheremo la strada del ritorno. Dei nostri non c’è traccia. Lorenzo si mette in contatto telefonico con Paolo per sapere dove si trovano: sono alla Croce ad assistere al concerto. Ci diamo appuntamento lì al rifugio.

Nell’attesa ci stendiamo al sole su un quadrato d’erba. Mi distendo utilizzando lo zaino a mo’ di cuscino. Se non fosse per Lorenzo che mi avverte dell’arrivo del gruppo, me ne resterei a dormire.

Fatta colazione dall’ambulante che vende caffè e brioche, ci incamminiamo verso casa.

Il gruppo s‘è dimezzato. La metà tornerà a Raggiolo facendosi dare un passaggio da parenti e amici giunti in auto.

Prima di incamminarci nella boscaglia, Paolo spiega che all’andata abbiamo “seguito” il corso del Barbozzaia, ora invece scenderemo dal versante del Teggina, i due fiume che scorrono ai lati del paese. In seguito, riferendosi al periglioso sentiero cosparso di pietre e massi che ci obbligano a continui equilibrismi per non inciampare, Paolo ci spiegherà che anticamente i contadini nei loro spostamenti montani, per tracciare la via più comoda, si facevano precedere da un mulo, animale che per istinto è in grado di individuare il percorso meno disagiato. Ascoltandolo mi sovviene l’immagine degli alpini e dei loro muli durante la Prima guerra Mondiale.

Dopo circa un chilometro arriviamo a Casa Buite, un rifugio usato in passato dai pastori durante la transumanza. Tuttora è utilizzato da qualche boscaiolo o cacciatore, come svelano gli oggetti di epoca moderna posti sul mobiletto all’ingresso e i letti allestiti sul pavimento nell’altra stanza.

La discesa, lunga quasi dieci chilometri, mette a dura prova ginocchia e piedi. Le scarpe si inzaccherano guadando i rigagnoli che si frappongono al nostro incedere.

Lorenzo allunga il passo, deve rientrare a casa prima delle dieci.

Finalmente alle dieci in punto anche noi arriviamo in paese. Ci salutiamo orgogliosi, complimentandoci l’uno con l’altro per l’avventura condivisa.

Mentre attraverso il centro storico, più di un raggiolato mi saluta chiedendomi come è andata.

“E stata dura, ma ne è valsa la pena!” sorrido, stringendogli calorosamente la mano.

Avviandomi verso casa, non posso fare a meno di pensare che l’esperienza appena vissuta è l’ennesima metafora esistenziale attraverso cui la vita comunica all’uomo che per arrivare in alto occorrono sacrifici e perseveranza. E che più in alto si arriva, più probabile è il rischio di farsi male quando si scende!

La Croce è lassù, avvolta nel silenzio e nell’immensità del cielo. Sta a noi decidere se vale la pena raggiungerla!

 

 

 

E DI MAIO CONSEGNO’ L’ITALIA A SALVINI

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Ora che la crisi di governo è stata ufficialmente aperta da Salvini che, giustamente, non vede l’ora di capitalizzare la vittoria alle europee e sfruttare l’onda emotiva che scuote il paese a suo favore, come tra l’altro  affermerebbero i sondaggi che danno la Lega tra il 38/40% se si andasse a votare oggi, non resta che ringraziare Di Maio & c. se tra qualche mese ci ritroveremmo Salvini a Palazzo Chigi, e tutta una serie di Ministri, vice Ministri e Sottosegretari targati Lega a occupare le poltrone dei vari dicasteri. Ma soprattutto se ci ritroveremmo un paese diviso letteralmente in due tra nord e sud. Dove economicamente il nord primeggia e il sud boccheggia sempre più!

A chi come me aveva ingenuamente creduto nel M5S, non resta che fare mea culpa per averli votati.

Non è mai bello dover ammettere di aver preso una cantonata. Mi consola il fatto che in tempi non sospetti, precisamente il 2 aprile 2018, esattamente un mese dopo la clamorosa vittoria dei 5S alle politiche, quando solo si ventilava la remota possibilità che si formasse un’alleanza di governo 5S/Lega, sul mio blog scrissi una lettera aperta a Luigi Di Maio in cui palesavo i miei dubbi su una simile eventualità. Auspicando perfino un’alleanza con il PD, ma mai una con Salvini che del sud e del suo popolo ne aveva dette di cotte e di crude per poi magicamente illuminarsi sulla Via di Damasco, chiedendo scusa. Allargando il proprio bacino elettorale anche al mezzogiorno, ricavandone impensabili, per me, consensi.

In quella mia lettera a Di Maio, dopo aver espresso i miei dubbi e perplessità, concludevo: “Egregio Onorevole Luigi di Maio, un’alleanza con il Pd (di Renzi n.d.r.), seppure soffrendo, la potrei anche accettare. Una con la Lega proprio no. A quel punto, alle prossime elezioni, mi sa che anch’io farò parte del partito degli astenuti!”

A distanza di  un anno e mezzo, visto nel frattempo come è degenerata la situazione politica italiana, ritengo che attualmente  l’unica cosa che non debbano fare le persone di buon senso sia quella di astenersi dall’andare a votare alle prossime elezioni.

Così come un’inattesa affluenza di votanti bocciò la riforma costituzionale targata Boschi/Renzi, non è escluso che il partito degli astenuti, tuttora maggioranza relativa nel paese, non decida di turarsi il naso e tornare a votare per mandare all’aria i piani di Salvini.

Perché ciò avvenga non credo occorra la nascita di un nuovo soggetto politico che catalizzi su di sé i voti degli astenuti. Basta che tra gli attuali partiti presenti in Parlamento qualcuno di loro abbia il coraggio di liberarsi dalla zavorra che lo “blocca” nelle decisioni politiche, mettendo alla porta chi, pur non ricoprendo più il ruolo di Segretario, continua a volersi comportare come tale, spezzettando il partito, alimentando continue bagarre interne.

Se questo partito, alias il PD, avrà la forza di scucirsi da dosso una volta e per sempre il marchio Renzi, non è impensabile che il suo simbolo possa risultare polo d’attrazione per quei milioni di italiani che, delusi dalla politica, da anni non vanno più a votare. Ma lo fecero per bocciare la riforma costituzionale  varata, guarda caso, proprio dello statista di Rignano sull’Arno!

Per quanto riguarda il M5S, la cui palese incapacità a governare sta portando Salvini a Palazzo Chigi, non basterà certo il ritorno in campo di Di Battista per fargli riacquistare credibilità da parte dell’elettorato!

Di Battista è un ottimo arringatore di masse. Seppure riuscisse a evitare l’estinzione del movimento, risollevandone le sorti politiche,  è ormai evidente che le urla e i sit in vanno bene solo quando si è all’opposizione, per governare ci vuole ben altro! Se, come pare, Di Battista vuole riproporre nel M5S lo spirito delle origini, quello dei famosi vaffa per intenderci, tacitamente sta affermando che mai i 5S andranno al governo. In quanto, come si è visto, governare significa mediare, anteporre gli interessi dell’alleato di governo ai propri. A meno che alle prossime elezioni il M5S non riuscisse a prendere da solo oltre il 50% dei consensi. Un’utopia!

Se è vero che molte leggi  varate dall’attuale governo portano il marchio 5S, è altresì vero che in momenti determinanti i 5S sono venuti meno ai loro ideali, lasciando perplessi i propri elettori, attivisti e perfino alcuni rappresentanti parlamentari: no alla richiesta all’autorizzazione a procedere su Salvini per la vicenda Diciotti; approvazione del Decreto Sicurezza bis che punisce chi salva vite in mare; delegare al Parlamento la decisione sulla TAV, non facendo cadere il governo nel momento in cui la Lega era per il Sì e i 5S per il NO.

Un partito che si dichiara apertamente anti-sistema non può dare l’impressione d’essere a sua volta inchiodato alla poltrona. Un partito che afferma di voler aprire il Parlamento come una scatoletta di tonno, non può apparire a sua volta immischiato in squallidi giochi di potere.

Dispiace dirlo, Di Maio non si è dimostrato all’altezza della situazione: ha reso il movimento succube di Salvini, lasciando che l’alleato lo corrodesse fino al midollo per poi svilirlo!

All’indomani della debacle delle europee, quando il M5S dimezzò i voti rispetto alle politiche mentre la Lega li raddoppiò, il capo del movimento avrebbe dovuto avere un sussultò di dignità e dimettersi. Restare alla guida del movimento malgrado la disfatta, delegando a poche migliaia di iscritti sulla piattaforma Rosseau la decisione di restare o meno alla guida del movimento, è stato un gesto con cui ha dimostrato quanto poco conto tenesse dell’opinione dei milioni di elettori che lo avevano prima votato e poi voltato le spalle.

Oggi sulla schiena di Di Maio pende una responsabilità non da poco. Se Salvini dovesse andare al governo, dando una virata estremamente a destra al paese, spaccandolo in due tronconi con conseguenze tristemente prevedibili per il sud, sarà perché  Di Maio è voluto andare a ogni costo al governo con la Lega, quando lui stesso il 17 giugno del 2017 a “Porta A Porta” lucidamente affermava: “Io sono del sud. Faccio parte di quella Italia a cui la Lega diceva VESUVIO LAVALI COL FUOCO. Io non mi alleerò mai con la Lega“.

Magari si trattava di una controfigura!?…

 

SIGNATURE RERUM

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Di seguito un estratto dal mio ultimo romanzo SIGNATURE RERUM-IL SUSSURRO DELLA SIBILLA 

Entrai in libreria. Oltre alla commessa seduta dietro il bancone impegnata a risolvere un cruciverba, nel locale non c’era nessun altro. Salutai con un cenno del capo e mi avvicinai alle colonne di libri che si innalzavano dal pavimento. L’aspetto miserevole di molti volumi confermava la loro lunga gestazione in magazzino, non sminuendone però il valore trattandosi di testi autorevoli.

Ero accosciato davanti a una pila di volumi per leggerne i titoli sbiaditi sui frontespizi, quando una voce familiare mi salutò:

<<Buongiorno>>

Mi voltai a fissare l’atleta che quella mattina mi aveva svegliato facendo ginnastica in giardino.

<<Buongiorno>> feci rialzandomi prontamente.

<<Le chiedo ancora scusa per questa mattina.>>

<<Non crucciarti, sono mattiniero.>>

<<Anche a lei piace leggere?>>

<<Appena il lavoro me lo consente.>>

<<Che genere preferisce?>>

<<Romanzi.>>

<<Anch’io! Ha trovato qualcosa d’interessante?>>

<<Sono appena entrato…>>

<<Venga>> disse guidandomi verso una catasta di libri addossati a uno scaffale vicino al retrobottega. <<Qui sicuramente troverà qualcosa d’interessante.>>

Mi inginocchiai per visionare i volumi.

<<Le piacciono gli scrittori sudamericani?>>

<<Ho letto qualcosa di Marquez, Borges, Coelho. Ultimamente Jorge Amado.>>

<<Se non lo avesse già letto, legga questo, sicuramente le piacerà.>> Con cautela sfilò dalla colonna di libri un volume e me lo porse.

<<L’amore al tempo del colera>> lessi.

<<Tra i romanzi di Marquez, lo ritengo in assoluto il migliore!>>

<<Ho letto Cronaca di una morte annunciata e Cent’anni di solitudine, non mi hanno entusiasmato granché.>>

<<Lo legga>> insistette.

Lessi la trama sul retro di copertina.

Prediligendo i thriller sapevo che difficilmente mi sarebbe piaciuto. Tuttavia, notando l’ansia con cui la ragazza mi guardava, decisi di acquistarlo per non deluderla.

Mentre pagavo, il volto le s’illuminò di gioia. Per un attimo la sua freschezza cacciò via le angustie dal mio animo.

 

Usciti dal negozio, dirigendoci in piazza, facemmo le presentazioni.

<<Io sono Laura>> fece porgendomi la mano.

<<Io Riccardo, e dammi del tu>> sorrisi, ricambiando la stretta.

<<Che ci fai qui?>> chiese, reclinando il capo. Lo sguardo intelligente luccicò di vita. Le orbite si restringevano ai lati conferendole un vago aspetto orientale. La parabola del naso curvava a punta sulla bocca piccola e sensuale, separata dal mento poco accentuato da una ruga sottile. La giacca a vento le nascondeva il corpo.

<<Vivi qui?>> chiesi.

<<Sono ospite della sorella di mio padre, mi sto allenando per La Quattro Laghi>>

<<Cos’è?>>

<<Una mezza maratona che attraversa passa per i quattro laghi flegrei. Malgrado siano solo 21 chilometri, è massacrante a causa dei continui saliscendi. Alla scorsa edizione mi sono classificata sesta assoluta tra le donne.>>

<<Un buon piazzamento>> osservai.

<<Sì, considerando la tendinite che mi obbligò a stare ferma per quasi sei mesi. Alla prossima, però, punto al podio!>>

La voce decisa ne palesava il carattere determinato.

<<Studi?>>

<<Sono iscritta a giurisprudenza. Vorrei fare l’avvocato. Tu di cosa ti occupi?>>

<<Lavoro in banca. Faccio il consulente finanziario>>

<<Ossia?>>

<<Suggerisco alle persone come far fruttare i propri risparmi.>>

<<Un giorno verrò a trovarti!>>

<<Possiedi dei risparmi?>>

<<Non ho un euro>> disse scoppiando a ridere. La sua ilarità mi contagiò, risi anch’io.

 

Giungemmo nella piazza assordata dai veicoli provenienti dal lungomare. Al bivio una parte delle vetture deviava verso il centro mentre l’altra proseguiva in direzione Pozzuoli. Il traffico era regolato da un’affascinante vigilessa dai capelli biondi coadiuvata da una coppia di pensionati che, muniti di palette, bloccavano i veicoli per consentire l’attraversamento ai pedoni.

 

<<Io sono arrivata>> disse Laura, fermandosi davanti la palazzina dai muri scrostati. Fui tentato di dirle che ero stato bene in sua compagnia, che mi sarebbe piaciuto rivederla. Tacqui per non apparire ridicolo.

<<Grazie per il consiglio>> feci, mostrandole la busta contenete il libro di Marquez.

<<Spero ti piacerà!>> sorrise.

Ci lasciammo con una calorosa stretta di mano.

 

Pranzai in cucina. Avvolgendo gli spaghetti alla forchetta, ripensavo a Laura, alla sua vitalità, al suo entusiasmo. Conoscevo uomini molto più grandi di me che non avevano alcuna difficoltà ad intessere una relazione con una ragazza più giovane di loro. In alcuni casi, addirittura più giovani delle loro stesse figlie.

Quando ne parlavano, tutti ammettevano che avere accanto una donna giovane come per magia annullava il peso degli anni, dissolvendo il tedio del matrimonio. Alcuni non lesinavano ad arricchire i propri racconti con particolari intimi affinché si sapesse che erano ancora nel pieno del vigore fisico. Mentre ascoltavo le loro avventure boccaccesche, mi chiedevo cosa avrei fatto se anch’io avessi incontrato una ragazza disposta ad intrecciare una relazione con me. Istintivamente il pensiero ritornò a Laura.

Poiché per carattere tendo a razionalizzare qualunque evento turbi il mio equilibrio interiore, mi imposi di considerare le inquietudini suscitate in me da Laura come logica conseguenza del difficile momento sentimentale che stavo attraversando. Ritrovarmi da solo, dopo tanti anni vissuti con Monica, era un trauma difficile da superare. Sospettai che il mio inconscio si fosse messo alla ricerca della terapia con cui riempire quell’imprevisto vuoto esistenziale. Pertanto non potevo escludere considerasse Laura la medicina per risanare le fratture del mio animo. Ripudiando ogni forma di medicinale convinto che, alla lunga, può nuocere più dello stesso male da curare, convenni che era meglio la dimenticassi; che l’unica medicina efficace per fronteggiare il difficile il momento che stavo attraversando era il trascorrere del tempo.

Ricacciai Laura dalla mente.

 

L’incessante suono del campanello alla porta mi ridestò.

Mi ero addormentato sulla poltrona davanti al televisore acceso. Filtrando dai vetri del balcone, il tramonto stemperava nel salotto smorti bagliori di luce. Chiedendomi chi fosse, andai ad aprire.

<<Ciao!>>

Il sorriso di Laura rischiarò la sera.

<<Disturbo?>> domandò.

<<Nient’affatto>> feci sorpreso e felice nello stesso tempo.

<<Posso entrare?>>

<<Certo.>> Mi spostai di lato per farla passare.

<<Carino qui>> commentò guardandosi intorno. <<E’ casa tua?>>

<<Di mia sorella.>>

Sfilandosi il giubbotto di pelle, si avvicinò alla libreria, dando uno sguardo ai libri allineati sulle mensole.

<<Dammi la giacca>> dissi.

Mentre appoggiavo il giubbotto sullo schienale della poltrona, ammirai l’asciutta compattezza del suo fisico: il seno sodo gonfiava il maglione; le gambe lunghe e i glutei muscolosi riempivano di sensualità i jeans.

<<Sorpreso?>> mi sorrise sedendosi sulla poltrona, accavallando le gambe.

<<Abbastanza>> ammisi restando in piedi, cercando di non mostrarmi imbarazzato.

<<Sono stata da un’amica che abita da queste parti. Passando ho visto la luce accesa e ho pensato di passare a salutarti.>>

<<Hai fatto bene. Gradisci qualcosa da bere?>>

<<Cosa hai?>>

<<Coca, sprite, aranciata, birra, caffè…>> elencai come un cameriere.

<<Basta>> mi stoppò divertita. <<Una coca va benissimo!>>

Seduti in poltrona, l’uno di fronte all’altra, sorseggiando la lattina di Coca Cola, Laura mi parlò della sua passione per la corsa.

<<Praticamente corro da quando ero bambina. In qualunque stagione e con qualsiasi tempo. Per me correre è vita. Non riesco a immaginarmi la mia esistenza senza la corsa. Correre mi ha insegnato a limare le spigolature del mio carattere. Per natura sono impulsiva, esuberante, aggressiva. Correndo ho imparato a frenare questi aspetti del mio essere. Quando si corre per tanti chilometri bisogna avere il buonsenso di non bruciare subito le energie altrimenti si rischia di fermarsi per strada, di non raggiungere la meta. Nella vita accade, più o meno, la stessa cosa: per realizzare un obiettivo devi partire piano per non disperdere le energie e l’entusiasmo. Senza energie ed entusiasmo non si va da nessuna parte!>>

<<Tu ne hai da vendere, di entusiasmo!>> osservai.

<<L’entusiasmo in me è fisiologico. Fa parte del mio DNA. Qualunque cosa faccia, anche la più sciocca, è sostenuta sempre dall’entusiasmo. Sai perché tante persone sono infelici?>>

<<Perché?>>

<<Perché mancano di entusiasmo. Puoi essere ricco sfondato, avere tante amanti più di Casanova, successo nel lavoro, avere la possibilità di poter viaggiare in ogni angolo del mondo, ma se manchi d’entusiasmo sei una macchina senza benzina che ha bisogno d’essere spinta dagli altri per continuare a procedere. Io non ho un soldo, non ho niente a parte l’entusiasmo, eppure sono felice. Solo il pensiero che un giorno potrei avere bisogno del sostegno degli altri per vivere mi fa stare male.>>

Abbozzai un sorriso.

<<Sono qui per ritrovare l’entusiasmo>> confessai.

<<Lo so, l’ho capito quando in libreria ti ho visto inginocchiato davanti a quella catasta di libri. Solo chi è alla disperata ricerca di qualcosa avrebbe scorso i volumi con la tua stessa frenesia. Quel che tutti cercano nella vita, senza sapere esattamente cosa, è l’entusiasmo!>>

<<Dovresti fare la psicologa invece dell’avvocato.>>

<<Valutare giuridicamente è un’analisi psicologica! Il carattere delle persone, il loro modo d’essere lo determini dal comportamento, non certo da ciò che pensano. Se ci limitassimo a giudicare le persone solo da ciò pensano rischieremmo di fare i processi alle intenzioni, rovinando la gente onesta. E sai perché?>>

<<No!>>

<<Il pensiero è come un fiume, mentre scorre trasporta con sé di tutto, sia il buono che il marcio. Sta a noi decidere cosa salvare dall’acqua e cosa invece lasciare che la corrente porti via con sé. Questa scelta rivela chi davvero siamo, essendo l’origine delle nostre azioni-. Tutto il resto pensieri e parole al vento. Non possiamo giudicare una persona né per il suo modo di pensare né perché ha detto una frase fuori luogo in un momento di rabbia o di disperazione. Siamo esseri umani, non dei: nostro dovere è limitarci a valutare i fatti!>>

Tanta saggezza in quel fiore in germoglio mi disarmò.

Mi alzai e andai al balcone. I bagliori delle case illuminate sulla dorsale del promontorio di Capo Miseno sembravano candeline accese su una torta in una stanza buia. Da dietro l’insenatura apparve il transitante bagliore delle luci di un traghetto diretto alle isole. All’orizzonte, adagiata sul mare, Capri dormiva tranquilla vegliata dal proprio faro che a intervalli regolari squarciava il buio segnalandone la presenza ai naviganti perché ne rispettassero il sonno.

Fissai Laura.

<<Credi che riuscirò a trovare l’entusiasmo?>> chiesi.

<<Si trova sempre ciò che ci appartiene … Adesso devo proprio andare, oggi ho studiato poco e voglio recuperare.>>

Si alzò porgendomi la lattina vuota.

<<Sei certo che non ti infastidisco se continuo ad allenarmi nel tuo giardino?>> domandò mentre l’aiutavo ad infilare il giubbotto.

<<Mi offendo se non la fai!>>

<<Pratichi qualche sport?>>

<<Vado in palestra tre volte a settimana. Niente d’impegnativo. Giusto un po’ di ginnastica e di pesi per tenermi in forma.>>

<<Ti piacerebbe correre con me?>>

<<Non ho l’occorrente!>>

<<Ti piacerebbe?>> insistette.

<<Certo che sì!>>

<<Vedi, soffochi l’entusiasmo per un motivo futile. Ho un amico che vende articoli sportivi. Se vuoi, domani ti porto da lui.>>

<<Va bene.>>

L’accompagnai alla porta.

Laura balzò in sella al motorino parcheggiato davanti casa e l’avviò.

<<A domani>> fece infilandosi il casco.

<<A domani>> le feci eco salutandola con la mano.

 

Mentre ero in cucina a preparare la cena, all’improvviso mi sovvenne come un flash l’immagine di mio cognato che giocava a tennis.

Come un forsennato iniziai a rovistare la casa da cima a fondo. Sembravo un investigatore che percepisce a pochi passi da sé la prova schiacciante per inchiodare il colpevole ma non riesce a trovarla. Dove potevano essere? Fissai la scalinata che saliva in soffitta. Un lampo mi attraversò la mente. Salii di corsa la rampa di scale. Aprii la porta del solaio e accesi la luce, rischiarando l’interno. La fioca lampadina illuminò la cassetta degli arnesi, le biciclette dei bambini e le scope appoggiate al muro dirimpetto, il pacco di giornali ingialliti poggiato su una sedia sgangherata, due barattoli di pittura sistemati in un angolo l’uno sull’altro, dei pennelli induriti. L’armadietto a sinistra attirò la mia attenzione. Mi avvicinai e lo aprii senza indugio. Una fila di scatole di scarpe era allineata sul ripiano centrale. Scelsi quella di una nota marca di articoli sportivi. La scoperchiai: esultai alla vista delle scarpe da tennis. Io e mio cognato calzavamo lo stesso numero. Guardai nuovamente nell’armadietto: sulla scansia in alto era appoggiata una fila di buste di cellophane contenenti indumenti sportivi. Le svuotai una ad una sul pavimento fino a quando non trovai la tuta da ginnastica di Francesco.

 

L’umidità del mattino mi penetrava nelle ossa.

In prossimità del cancello della villa, saltellavo sulla sabbia con le braccia penzoloni per riscaldarmi, scrutando sulla battigia alla ricerca di Laura.

<<Volere è potere!>> risuonò di spalle la sua voce. Mi voltai.

<<Buongiorno>> la salutai.

<<Sei qui da molto?>>

Guardai l’orologio al polso.

<<Una ventina di minuti.>>

<<Se avessi saputo che m’aspettavi, avrei aumentato l’andatura.>>

<<Non preoccuparti.>>

Mi fissò i piedi.

<<Quelle non vanno bene>> fece fissando le scarpette da tennis che calzavo. <<Sono dure e hanno la pianta stretta. Per correre servono scarpe come queste>> Alzò il piede mostrandomi le sue. <<Leggere, con la pianta larga in modo che il peso del corpo sia ammortizzato interamente dal piede senza sforzo.>>

<<Allora non si corre?>>

<<Certo che corriamo, ma, appena puoi, compra delle scarpe adatte altrimenti ti infortunerai, garantito!>>

Iniziammo a riscaldarci. Afferrando una mano alla ringhiera, stringevamo l’altra mano al collo del piede, piegando la gamba all’interno in modo da toccare col tallone la natica. Restavamo in quella posizione per diversi secondi per poi fare lo stesso con l’altra gamba. Terminati gli esercizi, Laura si piantò al mio cospetto.

<<Unisci le gambe; flettiti sul busto senza piegare le ginocchia e cerca di toccarti con le mani le punta dei piedi come faccio io>>. Così dicendo s’inarcò sulle gambe tese, poggiando sul terreno i palmi delle mani. Restò in quella posizione per un tempo interminabile.

<<Adesso provaci tu>> fece rialzandosi.

Inarcai il busto, flettendo leggermente le ginocchia.

<<Se pieghi le ginocchia sbagli l’esercizio.>>

<<Non ci riesco>> gemetti. Il sangue mi andava alla testa.

<<Sei legato>> disse tastandomi le cosce: il tocco delle sue mani mi eccitò. Mi premette la mano sulla schiena perché mi flettessi meglio sul busto. Provai un dolore lancinante.

 

Corremmo una buona mezz’ora sul lungomare, parlando di noi.

Di tanto in tanto Laura interrompeva la conversazione, preoccupata delle mie condizioni fisiche.

<<Tutto bene?>> mi chiedeva premurosa.

<<Tutto ok!>> rispondevo strizzando l’occhio.

Al rientro, in giardino, dopo aver fatto gli esercizi di scarico, mi fece sdraiare con la schiena sulla panca, controllando che eseguissi correttamente gli addominali.

Feci la mia bella figura in quanto in palestra mi sottoponevo a massacranti serie di addominali per bruciare i grassi, reggendo un peso sull’addome.

<<Bravo>> si complimentò.

Toccò a lei.

Sollevandosi sul busto la tesa muscolatura delle cosce si delineò sotto la calzamaglia. Involontariamente posai lo sguardo al tessuto aderente sotto cui si delineava il pube. Il respiro le gonfiò il seno.

<<Stanca?>> feci cercando di nascondere il turbamento suscitatomi dalla sua femminilità.

<<Per niente>> disse alzandosi. <<Ci vendiamo domani alle sette?>> domandò sistemandosi ai fianchi l’elastico della tuta.

<<Perfetto!>> risposi.

Inaspettatamente, prima di andare via, mi baciò sulla guancia.

 

Uscito dalla doccia, indossai l’accappatoio di spugna e rientrai in camera da letto. Aprii l’armadio per prendere i pantaloni. Lo specchio all’interno dell’anta rifletté la mia immagine. Accostai la faccia al vetro: qualche timida ruga solcava le estremità degli occhi. Slacciai la cinta dell’accappatoio, riflettendo il corpo nudo nello specchio. Indietreggiai di qualche passo per analizzarmi a figura intera nel vetro. Tutto sommato potevo ritenermi soddisfatto, non avevo il benché minimo accenno di pancia. Le gambe erano toniche. I pettorali definiti in modo giusto. I bicipiti manifestavano forza. Forse qualche eccesso di grasso ai fianchi …

<<Ma che sto facendo?>> pensai ad un tratto ad alta voce, provando vergogna di me stesso.

Con un colpo secco richiusi l’armadio. Mi stavo comportando alla stregua di quegli uomini che ogni giorno, mattina e sera, si mirano nello specchio terrorizzati dal pensiero di scorgere sul proprio corpo i segni del tempo. Era la prima volta che mi comportavo in quel modo ridicolo. Proprio io che non perdevo occasione di replicare a chi si lamentava del passare degli anni:  <<Le uniche certezze della vita sono il passato e la morte. Tutto il resto è solo speranza e mistero!>>

 

La mia passione per i miti virgiliani risaliva all’epoca del liceo. Tra i tanti episodi delle gesta di Enea prediligevo l’incontro tra l’eroe latino e la sibilla cumana. Cuma distava pochi chilometri da Bacoli. La giornata tersa, riscaldata da un tiepido sole, mi invogliò a visitare l’Acropoli.

 

Risalivo il viale che conduceva agli scavi, attorniato da una calca di ragazzini festosi in gita scolastica. In prossimità dell’ampia sala d’ingresso scavata nel tufo della collina su cui gli antichi avevano edificato il sacro sito, levai lo sguardo alla cima del monte. La fitta vegetazione ammantava le pendici, nascondendo agli sguardi i resti del tempio di Giove eretto sull’apice. Entrando nell’ampia sala di tufo che come un limbo separava la biglietteria dal sito archeologico, osservai i piccoli loculi scavati nelle pareti dove anticamente alloggiavano le lucerne. Non appena fui nel parco, mi accostai alla ringhiera alla mia destra e mi affacciai nel canalone sottostante da dove proveniva l’eco dei colombi annidati nelle spaccature della rupe. Sotto di me si apriva uno slargo dove un ingresso scavato nella pietra conduceva nella città sotterranea. Ammirando quel suggestivo scenario, la fantasia cominciò a galoppare: mi domandai se il complesso archeologico non fosse opera dei Cimmeri, il misterioso popolo delle tenebre, per dar vita ai loro rituali sacri. E solo dopo l’avvento dei colonizzatori greci e successivamente dei romani aveva assunto i connotati attuali con i resti dei templi di Apollo e di Giove. Dubbioso mi incamminai verso il viale alberato che rasentava il margine della collina delimitato da una lunga staccionata in ferro. Al di sotto della terrazza la fitta vegetazione della foresta di Cuma si estendeva fino ai margini della spiaggia del Fusaro. All’orizzonte, ammantata da una sottile foschia, Ischia appariva come una misteriosa signora col velo calato sul viso per nascondersi agli sguardi degli uomini.

Contemplai il suggestivo panorama quasi fossi rapito in mistica ebbrezza: non c’era da stupirsi se gli antichi avessero scelto quel luogo per onorare gli dei e se Virgilio vi avesse fatto sbarcare Enea, gettando i semi della civiltà romana. Pochi siti al mondo suscitavano malie tanto intense nella fantasia degli uomini come quel luogo la cui eterna instabilità del sottosuolo, battezzata bradisismo, caratterizzata dal periodico innalzamento e abbassamento del suolo, lo accomunava simbolicamente alla vita con i suoi alti e bassi. I periodici sommovimenti della terra, unitamente alle esalazioni dei gas che dal suolo si libravano nell’aria alterando i sensi, agli sguardi degli antichi dovettero apparire come manifestazione di una volontà suprema che aveva prescelto quel luogo per manifestarsi e comunicare con gli uomini. Da qui la scelta di edificare il sito in onore del Nume.

Fissai le pigre onde del mare svolgersi sulla spiaggia. Respirai profondamente. Senza indugio mi diressi all’antro della sibilla imboccando l’oscuro corridoio che trafiggeva la collina alle mie spalle.

Man mano che avanzavo nelle tenebre accompagnato dall’eco dei miei passi, osservando la forma del corridoio che ricordava vagamente una vagina, ebbi la sensazione di inoltrarmi nell’intimità della terra. Avanzando in quel grembo tufaceo, più volte fui colto dalla sensazione che occhi invisibili mi spiassero. Attraverso gli enormi squarci laterali intagliati sul fianco dell’antro, fasci di luce provenienti dall’esterno laceravano il buio, proiettando la mia ombra sulla parete opposta. Timoroso avanzai incontro all’ignoto fino a quando non giunsi nella sala della sibilla. Il moncone di pilastro templare posto dinanzi al tabernacolo dove la pitonessa vaticinava, accresceva di mistero l’atmosfera.

Dai meandri della memoria mi sovvenne alla mente la storia della sibilla cumana: la sibilla era una splendida fanciulla. Affascinato dalla sua bellezza Apollo, pur di averla come sacerdotessa, la tentò in ogni modo, offrendosi di esaudirne qualunque desiderio. La donna raccolse una manciata di sabbia e chiese di vivere tanti anni quanti fossero i granelli di sabbia racchiusi nel pugno. Ma dimenticò di chiedere anche il dono dell’eterna giovinezza. Il dio l’accontentò. Con lo scorrere del tempo, la sibilla scoprì d’essere caduta vittima della propria vanità e del cinismo del nume: il suo aspetto si ridusse sempre di più a quello di una larva fino a scomparire, restando percepibile solo la voce. A quel punto il dio le promise di farla restare eternamente giovane a patto che lei avesse giaciuto con lui. Pur di non perdere la propria purezza, la sibilla rifiutò. Ecco il motivo per cui, ancora oggi, c’è chi sostiene che è possibile ascoltarne la voce.

In quell’attimo una voce di donna sorse dal nulla, sussurrandomi: <<L’entusiasmo è il motore della vita. Chi soffoca l’entusiasmo uccide se stesso. Ogni uomo è un dio in embrione che solo vivendo ha modo di manifestare la propria grandezza!>>

Istintivamente mi guardai intorno alla ricerca di Laura. Intorno a me solo silenzio e oscurità. La sibilla aveva vaticinato. Era compito mio penetrare il senso delle sue parole. […]

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RAGGIOLO, UNO SCORCIO DI PARADISO IN TERRA

diga del piano

 

 

 

 

 

 

Di seguito la versione integrale dell’articolo pubblicato su comunicaresenzafrontiere.it

Nonostante siano più di vent’anni che veniamo in vacanza a Raggiolo, ogni anno questo luogo d’incanto riesce a regalarci sempre nuove emozioni. Sarà lo scenario naturale in cui è immerso, l’aria salubre che anche nelle ore più calde ti regala un pizzico di frescura, il silenzio rotto dal frinire delle cicale e dall’eterno scroscio dei fiumi che si riversano dal Pratomagno, fatto sta che in quest’oasi arroccata sulle montagne del Casentino Toscano riesci davvero a lasciarti alle spalle le problematiche quotidiane.

Dal momento in cui iniziammo a venirci con regolarità per soggiornarvi d’estate almeno per una settimana, uno dei piaceri che mi concedetti fu il bagno nel Barbozzaia.

Durante le ripetute escursioni al fiume con i bambini e mia moglie, avevo adocchiato una vasca naturale dove era possibile immergersi fino al collo. Ogni volta che posavo lo sguardo in quella pozza d’acqua limpida, ribollente per la forza della corrente, mi ripromettevo di tuffarmi.

Una mattina, dopo aver corso per i monti, rientrando in paese, mi allungai fino al fiume deciso a fare il bagno.

Mi inoltrai nella boscaglia, salii su un largo spuntone di roccia rasente la riva, mi tolsi maglietta e scarpetta e immersi le gambe nell’acqua fino alle ginocchia. Un brivido mi colse lungo la schiena. Istintivamente fui tentato di risalire, ma la voglia di bagnarmi in quella risplendente limpidezza mi persuase ad avanzare.

Nel momento in cui l’acqua mi arrivò al petto, non ci pensai una volta di più, mi tuffai. L’impatto fu terribile. L’acqua era talmente fredda che, rialzandomi di scatto per risalire sulla roccia, ebbi la sensazione di non essere bagnato, ma di essere avvolto in un’invisibile accappatoio gelato.

Da quel giorno il bagno nel Barbozzaia divenne un rito che si replicava ogni anno. Col tempo riuscii a coinvolgere anche i miei figli e mia moglie.

Anni dopo, grazie a un abitante del posto a  conoscenza di quella mia follia, così definiva simpaticamente la mia passione di fare il bagno nel fiume, venni a conoscenza della Diga del Piano, dove scorre il fiume  Teggina, immersa nella boscaglia sul versante opposto del paese. La vasca,  ben più ampia di quella del Barbozzaia, permette di tuffarsi e nuotare per un breve tratto, raggiungendo la cascatella alimentata dal salto del fiume sotto cui è possibile concedersi il piacere di un idromassaggio naturale.

Negli ultimi tre anni che siamo venuti a Raggiolo a causa del tempo inclemente o per altri motivi, non abbiamo avuto modo di rinnovare la follia.

Oggi la giornata calda e assolata ci ha permesso finalmente di bagnarci in quell’acqua  così chiara da distinguere il fondale.

All’iniziale apnea che ti coglie riemergendo nella pozza gelata, si sostituisce la piacevole sensazione di un brivido vitale diffuso per tutto il corpo che ti manda l’adrenalina alle stelle.

Nel momento in cui infreddolito esci dall’acqua e  ti siedi sul masso al centro della vasca per prendere il sole, i raggi filtranti la fitta vegetazione, attraversando le fronde, trafiggono l’acqua creando tutto intorno un gioco di luci, naturale corredo allo scenario fiabesco.

Abbandonandoti alla fantasia, chiudendo gli occhi e liberando la mente dai pensieri, hai la percezione di trovarti in un’altra dimensione; in un luogo fuori dal tempo dove l’attimo è l’unica unità temporale.

Forse a ciò si riferivano i latini affermando Carpe Diem, cogli l’attimo: avere la forza e la capacità di vivere intensamente il momento, lasciandosi rapire anima, mente e corpo dalle emozioni dell’istante.  

Per magia lo scosciare dell’acqua si tramuta in una voce melodiosa e misteriosa che ti parla di un passato ancestrale dove l’uomo viveva in simbiosi con la natura, riconoscendole un ruolo primordiale nella gerarchia dei valori esistenziali.

Un’epoca in cui gli individui non abusavano né disprezzavano la natura, ma la rispettavano traendovi il necessario sostentamento per vivere:  cibo, indumenti, materiali per costruire case, armi e utensili. Un’epoca in cui l’uomo si serviva della natura con rispetto e intelligenza, anziché ferirla e distruggerla solo per il gusto di affermare se stesso e la propria cupidigia. Non avvedendosi che così facendo non distrugge solo lei, ma se stesso essendo egli parte integrante della natura.

Ammaliato da quelle sensazioni, riaprendo gli occhi, guardando il paesaggio incontaminato sorriderti, ti viene istintivo chiederti se l’Eden non fosse così.

A quel punto non puoi fare  ameno di pensare “Raggiolo, uno scorcio di Paradiso in terra!”

L’ULTIMA NOTTE

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Di seguito i primi due capitoli de L’ULTIMA NOTTE in vendita su Amazon

 

Prologo

 

Dal ripiano del tavolo, la lampada illuminava l’interno della capanna, proiettando sulla parete l’ombra del vecchio pescatore intento a  scrivere su un quaderno. Avvolto in una nuvola di fumo che gli usciva dalle narici, con le ciglia corrucciate rilesse, schiacciando sulle assi del pavimento il mozzicone di un sigaro.

” L’amore ha il potere di fissare il passato in eterno presente.”

Trasse un profondo respiro. Chiuse il quaderno e si alzò, avvicinandosi alla finestra dove, da dietro ai vetri graffiati dalla pioggia, imperversava la tempesta.

Un fulmine tracciò nell’aria una scarica luminosa che squarciò le tenebre, illuminando, in lontananza, il mare ingrossato infrangersi sulla scogliera sottostante. Seguì l’assordante boato di un tuono. Da dietro alla capanna, Julab, il suo cane, prese ad abbaiare. Sorrise pensando all’animale con cui da tempo condivideva la solitaria esistenza.

Da una vita viveva in quella capanna, mai aveva assistito a una burrasca tanto violenta.

“Forse è un segno”, pensò. E, scrollando il capo, allontanandosi, si andò a sdraiare sul letto affiancato alla parete su cui si apriva la finestra.

Con le mani dietro alla nuca, fissava il soffitto da cui giungevano i rumori delle tegole tormentate dal vento e dalla pioggia. Un tuono, più fragoroso del precedente, inondò la capanna. La struttura di legno e lamiera vibrò, al punto che le stoviglie appese al muro caddero al suolo in maniera assordante.

Percependo il freddo entrargli nelle ossa, l’uomo si infilò sotto la coperta, rannicchiato nel tentativo di scaldarsi.

La fiammella della lampada cominciò ad affievolirsi.

Si alzò per raggiungere la mensola su cui erano disposti, ordinatamente, un rasoio, un pennello da barba, dei libri ammonticchiati l’uno sull’altro, una vaso di terracotta e una rudimentale clessidra che aveva costruito da giovane, unendo e strozzando con la pece i colli di due bottiglie, dopo averne riempita una a metà con la sabbia. Da dietro al vaso ne prese una più  corta, rivestita di uno spesso strato di polvere e ragnatele, in cui vi era dell’olio. Quindi si avvicinò al tavolo e prese da un cassetto una candela e una scatola di cerini. Accese la candela, versò un po’ di cera sul tavolo e la fissò. Assicurandosi così la luce mentre cambiava il combustibile alla lampada. Accese un altro fiammifero, accostandolo allo stoppino, manovrando con sapienza il regolatore della fiamma per sprigionare un fascio di luce pulita.

Con un soffio spense la candela riponendola nel cassetto.

 

La tempesta, intanto, aumentava d’ intensità.

Preoccupato, ritornò alla finestra, per accertarsi che Julab se ne stesse al riparo nella cuccia. Appoggiò il naso sul vetro, nel tentativo di sconfiggere il fitto velo di pioggia che rendeva impossibile distinguere quanto accadeva fuori in quel momento.

Lo spegnersi della lampada gettò la capanna nel buio.

“Accidenti.”, borbottò, raggiungendo il tavolo per prendere i cerini. Ne trovò un paio, accatastati di fianco alla lampada e ne strofinò  uno sul ruvido del pavimento. L’ umidità del legno vanificò ogni tentativo.

– Perché ti ostini ad accendere? -, domandò una voce alle sue spalle.

Un bagliore rischiarò il sorriso sul volto dell’uomo. Si girò in direzione della voce per vedere a chi apparteneva, ma un’ improvvisa pesantezza agli occhi lo costrinse a chiudere le palpebre. Quando le riaprì, un’ombra indistinta, nebbiosa era lì alla finestra.

– Allora. Cosa aspetti? -, domandò, tracciando dei segni sul vetro opaco. Segni che sembravano rivolti al mare.

Nella mente del vecchio, i ricordi di un passato lontanissimo tornarono  a ravvivarsi con frenesia.

 

I

 

Il sole, alto nel cielo, generava riflessi cristallini sul mare che circondava l’isola, simile a una collana di perle. I raggi illuminavano le case basse, esaltandone i colori pastello.

Dalle finestre aperte, l’astro entrava nelle case riscaldando ogni angolo. Nell’ aria l’accattivante aroma della primavera accarezzava le creature col suo dolce tepore, inducendole ad amarsi. Nulla e nessuno sapeva resistere a quella malia.

Tutta la natura si crogiolava nell’ebbrezza dell’abbraccio creativo.

Maschi e femmine giocavano a un perpetuo rincorrersi e sfuggirsi, per  ritrovarsi, rapiti dall’oblio dell’estasi amorosa.

Approfittando della splendida giornata, i suoi genitori decisero di uscire in barca per andare a pesca. Kayfa rinunciò, perché aspettava Raoul con il quale si doveva allenare per la gara di nuoto che si sarebbe svolta tra due settimane.

Udendo il battente picchiare alla porta, convinto che fosse l’amico, uscì dal bagno. Andò ad aprire senza la preoccupazione di coprirsi.

Sull’uscio, avvolta in un coloratissimo pareo, e con un braccio infilato in un cesto colmo di frutta, c’era Miryam, un’amica della madre. Una donna splendida, nel pieno della sua maturità. I capelli, neri e setosi, le scendevano lungo la schiena fino ai glutei. Sotto il delicato indumento, il suo corpo sinuoso, dalle generose forme, svettava armoniosamente al sole, offrendo al calore dei raggi la robustezza e la fragranza dei seni color pesca. Il viso della donna, anch’ esso rischiarato dal sole, era privo di trucco.

Kayfa restò per qualche istante confuso.

Quando si accorse che lei l’osservava con interesse, per nulla imbarazzata da quella situazione, d’istinto si portò le mani tra le gambe per celare le proprie nudità.

Intenerita da quel gesto, gli sfiorò il viso con una carezza.

– Mi scusi –   balbettò , visibilmente turbato.

La donna scosse il capo, lasciando intendere che non doveva preoccuparsi.

– Posso entrare? –   domandò, continuando ad accarezzargli la guancia con la mano.

– Mamma non è in casa – fece con voce tremante.

– Non fa niente – rispose, avanzando sulla soglia. Una volta entrata, gli fece cenno di chiudere la porta, scivolandogli con la punta delle dita lungo il collo, fino a sfiorargli il  torace glabro e muscoloso. Soffermandosi a solleticargli i capezzoli che avevano assunto il caratteristico tono violaceo dell’eccitazione.

Il corpo del giovane  era tutto un fremito mentre la donna, che nel frattempo si era liberata del cesto poggiandolo su un tavolino al centro della sala, gli  massaggiava con voluttà il petto, passandogli, di tanto in tanto,  una mano tra i capelli bagnati.

– Ora sono qui per te – gli sussurrò in un orecchio, mordendogli il lobo, sorridendogli maliziosamente. In quell’istante, Kayfa comprese che stava per diventare uomo.

 

Le gambe presero a tremare e le viscere a rivoltarsi nell’addome.

Cercò nei meandri della mente qualunque cosa potesse tornargli utile per mascherare la propria inesperienza.

Come d’abitudine per i ragazzi della sua età, ascoltava con interesse i discorsi dei più grandi relativi al sesso, in modo da farsi una cultura a cui poter attingere al momento opportuno onde evitare figuracce.

Il momento era giunto.

– Allora, cosa aspetti? –  chiese lei con voce sommessa, slacciandosi il pareo e fissandolo intensamente con due occhi neri e scintillanti. Offrendo al suo sguardo intimorito lo splendore naturale del suo corpo maturo.

 

” La stringi forte tra le braccia e la baci lungo il collo, mentre con le mani le sfiori i fianchi.”, ricordava aver sentito dire da qualcuno.  “Quando la baci, appoggi delicatamente le tue labbra sulle sue, schiudendole in modo che le vostre lingue si incrocino, è bellissimo!”, aveva sentito da qualcun altro. Ma la cosa più importante l’ascoltò da Omar, il pescatore di spugne con il quale spesso si fermava a dialogare. Facendosi coraggio, una mattina, approfittando che Omar gli stava raccontando delle proprie avventure amorose da giovane, aveva trovato la forza di chiedergli cosa bisognava fare quando si incontrava una donna per la prima volta.

“Non preoccuparti figliolo”, lo rassicurò. “Quando anche per te giungerà il momento, lasciati guidare dal cuore. Ma, soprattutto, lascia che a guidarti sia lei, chiunque essa sia. Le donne imparano presto e sanno essere delle maestre giudiziose. Non ti preoccupare e sii naturale. Solo così potrai essere certo che tutto andrà bene. Voler apparire ciò che non si è nella vita si risolve sempre contro noi stessi”.

 

Adesso, quelle parole gli ritornavano in mente, fissando Miryam che si accostava a sé con il suo corpo profumato di mare al suo, desiderosa di essere posseduta. Accarezzandolo tra le gambe al fine di stimolarne la virilità, ridotta a un pezzetto di carne raggrinzita.

Intuendo che per lui quella era la prima volta, Miryam tramutò se stessa in vergine, riacquistando spiritualmente la purezza donata in gioventù a un uomo che, dopo averla sposata, regalandole l’illusione dell’amore, successivamente, alle morbide onde del suo corpo aveva preferito quelle fredde del mare. Abbandonandola a un solitario destino su quell’isola, su cui, per vivere, era stata spesso costretta a cedere  alle lusinghe di quanti smaniavano di giacere con lei. Nutrendo un profondo rancore verso la vita che si era mostrata così crudele nei suoi confronti, privandola della madre, morta nel darla alla luce, e poi del padre, scomparso in mare durante una tempesta quando non aveva ancora un anno. Costringendola a vivere con la nonna materna fino al giorno del matrimonio, e in seguito da sola.

L’unica persona che non l’aveva mai abbandonata, niente affatto preoccupata della fama che l’accompagnava, era la madre di Kayfa.

 

Appassionatamente, senza tregua, si amarono fino a che i contorni dell’ orizzonte assunsero il tono purpureo del tramonto, ora in cui i pescatori rientravano.

Ravvivandosi i capelli con le mani, Miryam si alzò dal pavimento che aveva funto da giaciglio.

Nella stanza, il profumo dei loro corpi si mischiava a quello del mare proveniente dalla finestra, con la tenda di paglia prudentemente abbassata per evitare che sguardi indiscreti sorprendessero la loro intimità.

Un solo momento di panico li aveva colti: quando Raoul bussò con insistenza alla porta.

* * *

– Mio Dio. E’ Raoul – gemette Kayfa, nell’udire la voce dell’ amico gridare il suo nome –  Dovevamo andare ad allenarci -, aggiunse con espressione sognante, risultato delle carezze e dei baci con cui Miryam lo stordiva cavalcandogli il ventre.

– Lascia che bussi – mormorò estatica, riversando la cascata di capelli corvini sul viso di lui che accennò a un timido moto di ribellione per divincolarsi dalla stretta. Sortendo, invece, l’effetto di accrescere l’eccitazione di entrambi fino al culmine del piacere.

II

 

I raggi del sole attraversavano le liste della tenda, proiettando sul corpo di Miryam tanti punti luminosi, dando l’ impressione che la sua pelle fosse maculata al pari di un leopardo.

– Sei bellissima – fece Kayfa, steso sul pavimento con le mani giunte   dietro la nuca, ammirandola riavvolgersi nel pareo.

– Anche tu – rispose, accostando la punta dell’indice alle labbra. Posandola, quindi, su quelle di lui, in un ipotetico bacio.

– Quando ci rivediamo? – chiese Kayfa, sedendosi sul pavimento con le gambe incrociate.

– Al più presto – rispose, passandosi le mani lungo i fianchi perché l’indumento aderisse ai lineamenti del suo corpo – Adesso devo andare – aggiunse, chinandosi a baciare sulla fronte il giovane amante.

– Quando ci rivediamo? – chiese nuovamente Kayfa, balzando in piedi e afferrandole i polsi, preoccupato di non farle male.

Sorridendo, Miryam accostò le labbra alle sue:

– Domani alle quattro – sussurrò – Vicino allo “scoglio dei gabbiani” – E lo baciò con passione prima di avviarsi verso la porta. Aprendola, dopo essersi assicurata che non sopraggiungeva nessuno.

 

– Allora, come è andata? – chiese sua madre, entrando nella stanza dove  Kayfa, seduto sul letto, leggeva un libro.

– Non tanto bene – mentì, continuando a fissare le pagine aperte.

– Che significa “non tanto bene”? – chiese, baciandolo sulla fronte – Tu e Raoul avete per caso litigato? –  e si sedette sul bordo del letto in attesa di spiegazioni.

– Ho avvertito un malessere – continuò a mentire, chiudendo il libro e cercando di sfuggire lo sguardo perplesso con cui la donna lo fissava.

– Mio Dio – esclamò allarmata, prendendogli tra le dita il mento per osservare il viso – Hai un’aria affaticata – ammise. Istintivamente allungò la mano sulla fronte per controllare se avesse la febbre – E cosa ti sei sentito? –  riprese, tranquillizzata dal fresco percepito sui polpastrelli.

– Mal di stomaco – Kayfa sentì il sangue affluirgli alla testa per la rabbia e la vergogna che provava in quel momento. Prima di allora non aveva mai mentito a sua madre.

– Cosa hai mangiato questa mattina a colazione? – incalzò lei.

– Tè e biscotti – si affrettò a rispondere.

–  Evidentemente ti avrà fatto male qualcosa che hai mangiato ieri sera a cena –   concluse. E si alzò per avviarsi presso la finestra spalancata sulla baia, da dove giungeva il frinire delle cicale.

Le stelle bucavano il terso cielo della sera. Si appoggiò con le mani al davanzale per ammirare il panorama.

– E’ stata una splendida giornata – sospirò.

In lontananza, un peschereccio illuminato lanciò un “urlo”.

– La pesca è stata abbondante e tuo padre è ancora giù al porto per trattare il prezzo del pesce. Non immagini quanto sia felice.   .

– Sono contento – sorrise Kayfa portandosi al suo fianco.

– Ho visto sul tavolino dell’ingresso il cesto per la frutta che avevo prestato a Miryam. Quando è passata? – domandò, sistemandosi la gonna sul davanti.

Kayfa si sforzò di controllare l’imbarazzo che provava – Questa mattina, sul tardi – rispose deglutendo.

– Miryam è una carissima ragazza – sorrise lei – Peccato non sia stata baciata dalla fortuna. Non è cattiva come dicono, sai? – concluse, uscendo dalla stanza.

– Sì mamma – mormorò, rivolto all’arco d’argento che si stagliava nel cielo.

 

Distesi sul bagnasciuga, i corpi nudi di Miryam e Kayfa, travolti dalla passione, erano in balia delle carezze del mare.

Di tanto in tanto un gabbiano planava sullo spuntone di roccia lavica, dietro cui si erano dati appuntamento il giorno prima, per librarsi in volo  appena posava lo sguardo sulla strana creatura a due teste che si dimenava nell’acqua con degli strani suoni  gutturali.

Scossi dalle convulsioni dell’amore, i due amanti si fissavano con occhi sbarrati. Le mani intrecciate in una stretta morsa, che si allentò nell’ attimo in cui il flusso umorale defluì dai canali naturali, disperdendo nel vento l’acuta nota dell’ incanto d’amore.

 

– E’ stato splendido – sussurrò Miryam, sdraiata su di un fianco nell’ acqua, scorrendo con la punta delle dita i tratti acerbi di lui.

Immerso con la schiena nel ribollio della risacca, Kayfa ammirava le evoluzioni di un gabbiano. Udendo quelle parole, rivolse lo sguardo a Miryam che lo fissava con un dolce sorriso su cui si stemperavano gocce di mare, passandole una mano tra i capelli bagnati intrisi di sabbia e salsedine.

– I tuoi capelli hanno bisogno di una sistemata – mormorò.

La donna esaminò con cura una ciocca.

– Che importa – dichiarò divertita. Con impeto si gettò su di lui, abbracciandolo in modo che le loro guance si sfiorassero.

Da lontano, smorzati dal mare, giungevano gli echi delle voci dei pescatori che issavano le reti.

– Sei felice? – chiese Miryam con un sorriso, sfiorandogli l’orecchio con le labbra.

– Tanto. E tu? – le domandò tenendosi sui gomiti e fissandola con intensità negli occhi.

–  Abbastanza –  ammise lei, dopo un istante di riflessione.

–  Come abbastanza? – scattò preoccupato.

– Stupido – rise – Certo che sono felice – E spingendolo con la schiena nell’ acqua, lo baciò con passione.

Ancora una volta, i loro corpi si intrecciarono nei sussulti dell’amore. Questa volta fu Kayfa a sottomettere la natura di lei. Miryam lo lasciò fare, desiderosa di essere schiava del suo ardore, gemendo di piacere  all’ardire con cui il giovane le violava l’ intimo. L’apice li travolse all’unisono. Le labbra, unite in un caloroso bacio, trasfusero nelle loro anime l’armoniosa melodia che si levò dall’ esaltazione dei sensi. I cuori vibrarono in un ritmo assordante che si placò allorché l’ultimo sussulto di piacere scosse i due amanti.

Esausti, si accasciarono felici nell’acqua cristallina.

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IL LIBRO: LE MIE RAGAZZE-RAGAZZE ROM SCRIVONO

le mie ragazze

Le chiamerò semplicemente le mie ragazze perché dopo gli incontri tenuti nell’IPM di Nisida da fine giugno agli inizi di luglio del 2006 per impartire loro qualche nozione di scrittura creativa, non posso che considerarle tali. Ovviamente mie non va inteso come aggettivo possessivo, bensì deve intendersi in chiave spirituale.

Nelle sei settimane in cui ci siamo incontrati, ognuna di loro, a modo suo, mi ha dato qualcosa. Ognuna di loro col suo sorriso, la sua tristezza, la sua voce, il suo silenzio mi ha aiutato a capire, anche se solo in minima parte, un mondo a me noto solo attraverso le immagini stereotipate di bambini/e, ragazze/i ferme/i ai semafori che cercano di lavarti il vetro del parabrezza o di venderti un pacchetto di fazzolettini di carta vestiti in maniera trasandata e puzzolente; di gruppi di donne con neonati tra le braccia accovacciate per a terra mangiare con le mani sudice cibi di dubbia qualità e provenienza, la cui vista da lontano ti disgusta al punto da indurti ad attraversare la strada.

Sembrerà strano ma Le Mie Ragazze mi obbligarono a cercare di comprendere quest’esistenza volutamente vissuta senza pentimenti ai margini della società. Frutto di una cultura popolare per noi inammissibile che riconosce nel vagabondaggio, nell’accattonaggio e, molto spesso, nel furto gli unici mezzi di sostentamento. Una cultura dove i bambini piccoli sono un mezzo per attuare tali principi in quanto non sono perseguibili dalla legge.

Le mie ragazze non avevano più di diciassette anni. Alcune erano davvero belle, altre avevano un fascino magnetico. Quando discutevamo, la loro allegria era così contagiosa che a stento riuscivo a frenare l’ilarità per non dare di me un’immagine faceta, rischiando di perdere l’ascendente che avevo su di loro. Forse qualcuna ha iniziato anche a volermi bene, o a vedermi con occhi “diversi”…

Quest’ultimo aspetto lo percepivo dall’intensità di alcuni sguardi… In quei momenti mi sentivo in imbarazzo!

Quando iniziai gli incontri avevo messo in conto anche quella possibilità in quanto alla loro età qualsiasi ragazza è già donna. Figuriamoci loro che non sanno cosa significhi l’infanzia; che non appena hanno le loro prime regole vengono date in spose affinché mettano al mondo dei figli; che in quel caso specifico restano a lungo imprigionate senza alcuna possibilità d’incontrare un coetaneo, se non sotto stretta sorveglianza e in momenti particolari.

Rientrando a casa, ripensando a quegli sguardi di desiderio e alle frasi allusive che spesso li accompagnavano, sorridevo lusingato. Ma il compiacimento si arrestava lì. Esistono limiti che alla mente non è concesso oltrepassare!

Le mie ragazze erano belle! E ancor più belle erano l’ultimo sabato che ci vedemmo. Dai lori volti traspariva speranza di libertà per via della discussione in parlamento sull’approvazione dell’indulto. Qualcuna già sognava di riabbracciare il marito e i figli – avete letto bene, “il marito e i figli”; qualcun’altra sognava di cambiare vita; qualcun’altra, più realisticamente, sperava di rientrare in carcere il più tardi possibile perché “rubare appartiene al mio DNA”. Disse proprio così!

Fu bello condividere con loro quelle settimane, leggere sui lori volti e nei loro sguardi le continue mutazioni delle loro anime. E’ stato bello sapere che per un momento le loro menti hanno pensato in maniera diversa dal solito, meditando sugli errori commessi, (cosa che già facevano prima di incontrare me, ma in maniera differente. Almeno così dissero…).

Fu bello essere lì con loro illuminandomi dei loro sorrisi, commuovendomi delle loro lacrime, raccogliere nel mio cuore i loro pentimenti, la loro rabbia, la loro voglia di vivere, di amare, di sentirsi donne.

Fu bello ricevere i loro baci sulle guance prima di andare via per sempre.

Fu commovente sentire alle mie spalle, mentre m’incamminavo per l’ultima volta verso l’uscita, la voce di una di loro sussurrare “Addio istruttore!”

Se volete leggere l’intero diario di quelle 6 settimane non vi resta che acquistare il libro. Sono convinto che non ve ne pentirete.

Buona lettura!

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