L’ultima cosa che i suoi occhi stanchi di dolore videro fu lo sguardo commosso dei veterinari che le avevano provate tutte per strapparlo alla morte, dopo le orrende ferite inferte da mani di mostro per appropriarsi della sua pelliccia. Non si sa se per rivenderla o per il semplice gusto di scuoiarlo vivo. Abbandonato agonizzante sul marciapiede, il caso volle che a trovarlo in quelle pietose condizioni fosse un veterinario del canile municipale che subito lo avvolse in una coperta e lo portò in ambulatorio per cercare di curarlo con il sostegno dei colleghi.

IN RICORDO DI LEONE VITTIMA DELLA CRUDELTA’ UMANA

L’ultima cosa che i suoi occhi stanchi di dolore videro fu lo sguardo commosso dei veterinari che le avevano provate tutte per strapparlo alla morte, dopo le orrende ferite inferte da mani di mostro per appropriarsi della sua pelliccia. Non si sa se per rivenderla o per il semplice gusto di scuoiarlo vivo. Abbandonato agonizzante sul marciapiede, il caso volle che a trovarlo in quelle pietose condizioni fosse un veterinario del canile municipale che subito lo avvolse in una coperta e lo portò in ambulatorio per cercare di curarlo con il sostegno dei colleghi.

Per la tenacia con cui l’animale rispondeva alle cure, tradendo la propria voglia di vivere a ogni costo, lo avevano ribattezzato Leone. Fasciato di bende come una mummia, aveva lottato per quattro giorni tra la vita e la morte, alimentando la speranza che ce l’avrebbe fatta a sopravvivere. Purtroppo non fu cosi. Nel momento in cui esalò l’ultimo respiro, mani amorose ne ricomposero il corpo per poi fotografarlo e diffondere la foto sui social a testimonianza che, fortunatamente, nel mondo non vivono solo criminali e mostri. Ma anche anime sensibili che riconoscono agli animali pari dignità degli esseri umani. […]

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Dopo aver portato a termine senza tanti patemi la Napoli-Pompei, prima di stabilire se fosse il caso o meno di iscrivermi alla maratona di Napoli che si sarebbe corsa a febbraio del 2014, mi iscrissi alla Coast to Coast/Sorrento-Amalfi di metà dicembre: 32 km di cui oltre 20 lungo i tornanti e i saliscendi della costiera amalfitana.

Coast to Coast/Sorrento-Amalfi, una sconfinata emozione

Dopo aver portato a termine senza tanti patemi la Napoli-Pompei, prima di stabilire se fosse il caso o meno di iscrivermi alla maratona di Napoli che si sarebbe corsa a febbraio del 2014, mi iscrissi alla Coast to Coast/Sorrento-Amalfi di metà dicembre: 32 km di cui oltre 20 lungo i tornanti e i saliscendi della costiera amalfitana.

Finora quella resta in assoluto la gara più bella a cui abbia partecipato. Bella non tanto per lo scenario mozzafiato in cui si svolse – quando sei in gara, soprattutto in una tosta come la Coast To Coast, concentrato come sei a gestire le energie per non rischiare di restare a secco di benzina prima dell’arrivo, del panorama te ne preoccupi relativamente – quanto per le emozioni che mi regalò.

Ancora oggi quando ripenso a quei 32 km mi coglie una profonda emozione.

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Due settimane fa ci ha improvvisamente lasciati Gioia, la gattina randagia che adottammo – sarebbe più corretto dire “ci adottò” visto che i gatti scelgono loro il padrone. Una scomparsa improvvisa che ha lasciato un vuoto che nessuno immaginava fosse così intenso al punto da apparire quasi incolmabile.

Probabilmente molti, leggendomi, penseranno che stia esagerando. Se davvero così fosse, costoro sappiano che non li biasimo perché il primo a stupirsene sono io stesso.

Gioia la micetta bellella

Due settimane fa ci ha improvvisamente lasciati Gioia, la gattina randagia che adottammo – sarebbe più corretto dire “ci adottò” visto che i gatti scelgono loro il padrone. Una scomparsa improvvisa che ha lasciato un vuoto che nessuno immaginava fosse così intenso al punto da apparire quasi incolmabile.

Probabilmente molti, leggendomi, penseranno che stia esagerando. Se davvero così fosse, costoro sappiano che non li biasimo perché il primo a stupirsene sono io stesso.

Da che ero bambino, fino all’età di oltre vent’anni, ho vissuto in casa prima con un cane e un gatto e poi con un altro cane. Quindi vivere con un animale domestico per me è un’abitudine, eppure la scomparsa di Gioia mi ha profondamente turbato come invece non fu quella degli altri.

Forse perché mentre loro morirono di vecchiaia, Gioia è scomparsa all’improvviso nel giro di quattro giorni a causa di un linfoma che le aveva perforato la cistifellea procurandole un travaso di bile, come scoprimmo quando fummo costretti a ricoverarla di urgenza in un ospedale per animali.

Dal primo istante che a fine settembre di 6 anni fa fece la sua comparsa sul balcone di casa perché la sfamassimo – a prendersi cura di lei fu mia moglie – Gioia diventò subito un membro della famiglia e tale è stata e sarà per sempre.

Mai fummo sfiorati dal pensiero, soprattutto d’estate quando partivamo per le vacanza, di lasciarla da sola tanto era abituata a stare in strada. Ovunque andassimo, se in casa non c’era qualcuno che si occupasse di lei, la caricavamo nel trasportino e la portavamo con noi. […]

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Quando, bambino, camminando per i boschi in compagnia del nonno, si divertiva a staccare una foglia da un ramo o un ramo da un albero, o a cogliere un fiore dal prato, l’anziano lo rimproverava:

La voce della natura

Quando, bambino, camminando per i boschi in compagnia del nonno, si divertiva a staccare una foglia da un ramo, un ramo da un albero, a cogliere un fiore da un prato, l’anziano lo rimproverava:

<<Perché vuoi far del male alla natura? Non lo capisci che, così facendo, l’albero soffre?>>

<<Ma nonno è solo un albero!>> rispondeva stupito.

<<No, è una creatura vivente!>>

<<Ma se non parla né cammina?>>

<<Come puoi esserne sicuro, tu conosci la natura? Sai distinguerne le infinite voci e movimenti?>> […]

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Condannata a vivere

Condannata a vivere

Il racconto che segue appartiene alla raccolta di racconti L’UOMO CHE REALIZZAVA I SOGNI pubblicata con Amazon a dicembre 2019.

Mentre nella sala congressi del lussuoso albergo di Davos era in corso la conferenza sulla globalizzazione e sul preoccupante aumento demografico nei paesi sottosviluppati, in un remoto casolare di montagna, al confine tra Svizzera e Italia, un gruppo di sconosciuti discuteva intorno ad un tavolo rotondo. Il lampadario sospeso a mezz’aria proiettava sulle pareti le grottesche ombre dei presenti. Il fuoco del camino riscaldava l’ambiente. La discussione durò tutta la notte. All’alba, quando i primi raggi di un tiepido sole svelavano le cime innevate delle alpi, i partecipanti all’assise si alzarono soddisfatti stringendosi calorosamente le mani. Ognuno fissava compiaciuto il proprio segretario riporre nella ventiquattrore le copie del documento messo a punto.

Sul marciapiede il manifesto pubblicitario ritraeva l’uomo nel lettino d’ospedale, il volto pallido e scarno, lo sguardo spento, la maschera dell’ossigeno sul viso, la flebo nel braccio. La scheletrica mano stringeva quella della donna dall’aria triste al suo fianco. Entrambi fissavano con dolore l’obiettivo fotografico. A margine del manifesto, la didascalia recitava: CONDANNATO A VIVERE. Di lato alla foto era scritto: Philip J… nato il 23.06.1980; affetto da tumore linfatico. MALATO TERMINALE. […]

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Il racconto che segue trae spunto da un episodio veramente accaduto molti anni fa in un paese dell’entroterra campano. Il protagonista, ribattezzato dagli amici “il cavaliere” per i suoi modi distinti, purtroppo non c’è più, resta la sua indimenticabile simpatia.

La cambiale (racconto)

l racconto che segue trae spunto da un episodio veramente accaduto molti anni fa in un paese dell’entroterra campano. Il protagonista, ribattezzato dagli amici “il cavaliere” per i suoi modi distinti, purtroppo non c’è più, resta la sua indimenticabile simpatia.

Asciugandosi con il fazzolettino la fronte imperlata di sudore, la cartella di finta pelle stretta sotto braccio, l’uomo scorse attentamente i cognomi degli inquilini sulle targhette del citofono. Individuato il nome che cercava, stringendo tra le dita il kleenex, pigiò il pulsante.

“Chi è?” risuonò la voce di donna.

“Sono l’esattore comunale, cerco il sig. …?”

Il cancello si aprì automaticamente.

Mentre si accingeva ad entrare nell’atrio, l’ufficiale giudiziario tornò sui suoi passi e risuonò al citofono.

“Sì?” chiese nuovamente la voce di donna.

“Che piano?”

“Terzo!”

L’ascensore era guasta da una vita, fu costretto a salire a piedi. Affannando per le rampe, fermandosi a ogni pianerottolo per riprendere fiato, l’uomo si domandava perché chi aveva progettato quei prefabbricati avesse ideato delle scale così erte. […]

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Dal primo momento che era scoppiata la pandemia, pur essendo un medico generico, come tanti suoi colleghi si era messo a disposizione per assistere gli ammalati. Con la mascherina sul viso andava a casa di ogni paziente e lo curava attenendosi scrupolosamente ai protocolli prescritti dal ministero.

L’araba fenice

Dal primo momento che era scoppiata la pandemia, pur essendo un medico generico, come tanti suoi colleghi si era messo a disposizione per assistere gli ammalati. Con la mascherina sul viso andava a casa di ogni paziente e lo curava attenendosi scrupolosamente ai protocolli prescritti dal ministero.

Malgrado si impegnasse con tutto se stesso per sconfiggere quella che i media avevano definito la “peste del XXI secolo”, molti anziani, dopo una dolorosa agonia distesi sulle barelle in terapia intensiva e in subintensiva, erano deceduti senza nemmeno il conforto di avere accanto i propri cari, costretti a salutarli attraverso i display dei telefonini facendo loro una videochiamata aiutati dagli infermieri.

Da fervido credente nella scienza, del tutto agnostico, alternava sarcasmo e fastidio verso chi affermava che il virus fosse la punizione inviata da Dio in terra per punire l’umanità dei propri peccati. Quando ascoltava una simile affermazione, di riflesso gli veniva di rispondere che, se davvero fosse stato così, non si capiva perché il male mietesse vittime tra gli anziani e quanti era affetti da patologie pregresse, anziché scatenarsi contro chi compiva i peggiori crimini. […]

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Il seguente racconto fa parte de La Scelta, la racconta di racconti che pubblicai con le Edizioni Tracce

Chiunque avesse conosciuto Eusebio il pescatore ne parlava con devoto rispetto, ammonendo chi lo definiva “un uomo di mare!” che “Eusebio è il mare!”

Breve storia di Eusebio il pescatore

Il seguente racconto fa parte de La Scelta, la racconta di racconti che pubblicai con le Edizioni Tracce

Chiunque avesse conosciuto Eusebio il pescatore ne parlava con devoto rispetto, ammonendo chi lo definiva “un uomo di mare!” che “Eusebio è il mare!”

L’intera esistenza trascorsa a regolare il proprio respiro col flusso e riflusso delle maree, induceva Eusebio ad affermare: “Solo vivendo il mare ci si rende conto che la vita e la morte sono cucite insieme da un esile filo, pronto a spezzarsi in qualunque momento, e senza preavviso!”, indicando l’orizzonte lontano.

In quelle parole sussurrate mentre intrecciava le reti o armeggiava intorno a una nassa, non traspariva né tristezza né amarezza. Solo accettazione per un destino segnato ancora prima di nascere.

Eusebio, come ogni uomo di mare, era cosciente della sorte che l’attendeva, ma non se ne preoccupava più del dovuto perché sapeva che “il mare, prima o poi, inghiotte ciò che rese!” […]

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papà

BUON ONOMASTICO PAPÀ

Mio padre si chiamava Ciro, oggi avrebbe festeggiato l’onomastico. Per ricordarlo pubblico degli stralci del romanzo inedito a lui dedicato in cui racconto il dramma che affrontammo quando si ammalò di Alzheimer, alternando la narrazioni della bufera che dovemmo fronteggiare per circa 10 anni, di cui gli ultimi 4 furono un vero incubo, con episodi a mio avviso significativi della sua vita e della nostra al suo fianco.

[…] In vita sua papà di rospi ne aveva dovuti ingoiare tanti. Uno dei più difficili fu sicuramente quando, poco più che ragazzo, fu costretto ad abbandonare gli studi: terminate le scuole di avviamento, iniziò a frequentare l’istituto d’arte per appagare la propria passione per l’arte e il disegno.

Dopo pochi mesi di scuola, il padre, ex sommergibilista, che lavorava come operaio presso un presidio del Ministero della Difesa a Portici, gli comunicò che doveva lasciare la scuola e trovarsi un lavoro per contribuire al sostentamento della famiglia perché con il suo solo stipendio non ce la si faceva a tirare avanti.

Papà era il secondogenito, il primo maschio di quattro femmine e due maschi: seppure a malincuore, obbedì.

Quelle rare volte che affrontavamo l’argomento e gli chiedevo il motivo per cui non avesse cercato di convincere il nonno a lasciargli continuare gli studi, la sua risposta era sempre la stessa:

<< All’epoca era difficile campare, i soldi non bastavano mai. La guerra, oltre alla morte e alla distruzione, aveva seminato tanta fame. Davanti alla necessità, nella vita bisogna sacrificarsi: mettere da parte i sogni e pensare alle cose serie! >>.

Confesso che, ogni volta che gli sentivo ripetere quelle parole, mi veniva da chiedergli:

<< Perché, adoperarsi per la realizzazione di un sogno non è una cosa seria? >>.

Percependo nella sua risposta una leggera sfumatura di amarezza, tacevo per non gravare ulteriormente il tormento del suo animo.

Ho sempre creduto che l’aver dovuto rinunciare all’istituto d’arte per papà avesse rappresentato la più cocente delle delusioni. Più volte mi sono chiesto se in cuor suo fosse mai stato tentato di rispondere al nonno: “Mi dispiace, io voglio continuare a studiare perché sento che quella è la mia strada!”. Ma non l’abbia fatto per il rispetto che nutriva nei suoi confronti e anche perché la situazione finanziaria in famiglia era veramente disastrosa.

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UNA PIZZA CON PAPÀ, TRENTACINQUE ANNI DOPO

Ieri mattina, approfittando che era il secondo giorno di zona gialla e ci si poteva spostare da un comune all’altro senza l’incubo che le forze dell’ordine ti fermassero e ti chiedessero l’autocertificazione per giustificare dove andavi, decisi di farmi un giro per Napoli.

Con la mascherina sul viso, presi la metro e scesi a Piazza Amadeo per passare dalla Feltrinelli e dare uno sguardo alle novità librarie.

Malgrado il cielo fosse parzialmente nuvoloso, visto che non pioveva, una volta uscito dalla libreria, decisi di allungarmi a piedi fino e Piazza Garibaldi per prendere la metro alla stazione centrale e rientrare a casa.

Alla fine di Corso Garibaldi fui colto da un moto di nostalgia ripensando all’epoca in cui lo percorrevo in senso inverso in compagnia di papà per andare a lavoro, quando fui assunto come stagionale presso il negozio di giocattoli dove lui lavorava da che era ragazzo.

In quell’attimo con la mente riandai al giorno in cui, durante la pausa pranzo, andammo mangiare insieme una pizza in un locale storico nei pressi del capolinea della circumvesuviana: io ordinai una margherita, lui la solita marinara.

Quando finimmo, mi chiese se volessi qualche altra cosa. “Una marinara” risposi.

Ricordo con quanta gioia mi fissò mentre divoravo la seconda pizza e il divertimento con cui raccontò l’episodio ai colleghi quando rientrammo.

“Giarritiè, a stu figlio tuo è meglio a lo fa nu vestito che a lo invità a pranzo” disse divertito Orlando il cassiere.

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