caffettiera napoletana

L’amore col caffè facciamolo con la napoletana

A Napoli ‘na tazzulella ‘e cafè non solo è un vero e proprio culto di piacere gustativo, ma un valido pretesto per fare quattro chiacchiere tra amici, tra persone che hanno interessi comuni, tra chi deve parlare di affari, tra chi si piace e quel momento rappresenta spesso il preludio a qualcosa di più intimo e bollente di un semplice caffè insieme.

C’è chi il caffè ama prenderlo la mattina appena sveglio, perché ritiene che lo aiuti a ridestarsi; chi, invece, lo preferisce dopo pranzo, perché lo aiuta a digerire. Chi ama prenderlo a lavoro, perché la pausa caffè è un momento di innegabile relax. Chi ama prenderlo da solo in casa mentre guarda la tv, sfoglia il giornale, legge un libro. O semplicemente perché ha voglia di regalarsi un momento di piacere per se stesso.

Tuttavia laddove il caffè lo si fa con la macchinetta, si usa quasi sempre la moka.

Da qualche tempo si usano pure le macchinette elettroniche per le cialde e le capsule di caffè.

Pochi sono i casi in cui il caffè viene fatto con la classica napoletana. Quella che, una volta bollita l’acqua, la si capovolge affinché l’acqua filtri nel caffè per poi colare nella caffettiera.

Un vero e proprio rito spesso attuato muniti di cuppetiello di carta da infilare sul beccuccio in modo che, mentre l’acqua filtra nel caffé, l’aroma, anziché disperdersi nell’aria, ristagni nella caffettiera insaporendo ulteriormente il caffè. Eduardo De Filippo docet.

Per anni, praticamente tutta la vita, in casa mia il caffè lo si è fatto con la classica moka a pressione.

Alcuni anni fa, mentre eravamo in un centro commerciale, con mia moglie capitammo davanti allo store di un famoso marchio di macchinette per il caffè. Incuriositi, entrammo. Sugli scaffali erano esposte macchinette di tutti i tipi, anche quelle di ultima generazione che, oltre al caffè, fanno il cappuccino schiumato come al bar.

Girando tra gli scaffali, notai che non c’erano le classiche napoletane. Chiesi a una commessa il motivo di quella mancanza. Rispose che la fabbrica era del nord Italia e in catalogo non contemplava le napoletane.

Quella risposta mi mise un tarlo nella mente che ho covato a lungo. Ad acuirlo, poco prima di natale, ci pensò un signore che una mattina entrò nel bar dove spesso mi fermo per prendere il caffè prima di iniziare la giornata di lavoro.

Notando la fretta con cui io e altri sorbivamo il caffè, disse:

<<Voi accussì nun ve pigliate ‘o cafè, ma ‘o veleno…>>

<<Come sarebbe a dire?>> domandò una signora.

<<Il caffè è uno dei veri piaceri della vita. E come tutti i piaceri, ha un rituale da compiersi prima di consumarlo… Quando fate l’amore, amate i preliminari o vi piace farlo in fretta?>>

La signora arrossì.

<<Che domande>> rispose balbettando, <<ovvio che amo i preliminari, altrimenti…>>

<<Altrimenti è come se non faceste l’amore, ma ‘na cosa frienne e magnanno ca nun sape ‘e niente…>>

<<Sì>> rispose imbarazzata.

<<E la stessa cosa è per il caffè… I’ capisco che dovete andare a lavoro. Per cui è giusto che al bar il caffè lo prendiate di corsa. Ma a casa il caffè come lo fate?>>

<<Con la macchinetta>> rispose sicura.

<<Quale?>>

<<La napoletana.>>

<<Quella che, ‘na vota ca l’acqua è bollita, se revota pe’ fa’ scennere l’acqua ncoppa ‘o cafè?>>

<<No, la moka…>>

<<Signo’, i’ di napoletana ne cunosco una sola… La moka, nun è ‘a napuletana!>> disse indignato. Fu quello che aggiunse subito dopo che il tarlo nella mente me lo fece crescere in maniera esponenziale. <<Chi produce le moka è del nord. E nun puteve essere diversamente…>>

<<Perché?>> mi intromisi incuriosito.

Lui mi guardò e poi disse:

<<La moka è a pressione e il caffè sale velocemente… La napoletana, invece, lavora per filtraggio, per cui il caffè scende lentamente e ogni goccia ca cade ‘int’ a cafettera è ‘na vrenzola ‘e piacere… La velocità è tipica delle popolazioni del nord. Vanno ‘e pressa pecché hann’ a faticà, ecco perché la macchinetta a pressione è adatta a loro. Noi napoletani, invece, la vita amiamo assaporarla, attimo per attimo. Anche quando faccimmo ‘o caffè cu ‘a napulitana, e aspettamm’ che l’acqua scende dinta a cafettera, chillu mumento è nu mumento ‘e piacere. È comme se facessemo ‘e preliminari primma ‘e fa’ l’ammore…>>

La signora lo guardò e sorrise.

<<Avete ragione>> disse.

<<Signò, ‘a vita è nu muorzo… Ce stanno mumento addò uno adda correre, pecché s’adda i’ a faticà e ce pijammo ‘o cafè al bar, ambresse ambresse, comme mò. Ma ce stanno pure mumento addò uno s’adda arrecreà: comme quando s’adda piglià ‘na tazza ‘e cafè a casa o adda fa’ l’ammore… ‘A tazze ‘e café è l’orgasmo, è ‘a fine do mumento ‘e piacere… Non a caso, quando ‘o cafè sta ascenno da moka, ce sta chi dice, “‘o cafè è sburrato”, comme a Puzzule…>>

Lei sgranò gli occhi, visibilmente turbata dalle sue parole. Lui continuò:

<<Chella ca vene primma e ce pijà ‘o cafè è ‘o piacere overo: priparà ‘a machinetta, assettasse ‘ncopp’ a na seggia o a nu divano, e aspettà che ‘o cafè è pronto. Nuje napulitane tenimmo ‘a cafettera napuletana che c’accumpagna chianu chianu a stu mumento ‘e piacere, che ce n’amma fa ‘e sta moka ca ce mette pressione pure pe’ ‘na tazza ‘e café?… E poi è pure ‘na questione politica!>>

<<In che senso?>> domandai.

<<Chille ‘e n’copp’, ca scusa ‘e fa l’Italia unita, c’hanno privato ‘e tutto chelle ca teneveme ‘e bello. Pure co café c’hanno futtuto. Mò, cu l’autonomia differenziata ce vonno da’ n’ata scoppola… E che cazzo, almeno ‘o café facimmelo comme s’adda fa: cu pacienza e passione. Almeno l’ammore facimmolo cu ‘a napulitana!>>

Quella discussione, per quanto surreale, mi stuzzicò tanto che alcuni giorni fa ho acquistato in un negozio di casalinghi nei pressi dell’ufficio dove lavoro una napoletana da tre tazze.

Devo dire che il signore del bar, nella sua estrosità concettuale, non aveva tutti i torti: fare il caffé con la napoletana è un vero e proprio rito. Sarà questo il motivo per cui il caffé ha un sapore diverso. Addirittura mi sembra più gustoso di quello fatto con la moka o preso al bar. Magari perché davvero è aromatizzato di pazienza e amore come lui sosteneva.

Buon caffè alla napoletana con la napoletana!

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MIO PADRE, L’ANTESIGNANO DEI 10.000 PASSI AL GIORNO E DEGLI ESERCIZI CON LA SEDIA

Nella prefazione alla seconda edizione de L’INTERPRETAZIONE DEI SOGNI, quasi alla fine, Freud scrive: […] Questo libro ha infatti per me anche un altro significato soggettivo, che mi è riuscito chiaro solo dopo averlo portato a termine. Esso mi è apparso come un brano della mia autobiografia, come la reazione alla morte di mio padre, dunque all’avvenimento più importante, alla perdita più straziante nella vita di un uomo. Dopo aver riconosciuto questo fatto, mi sono sentito incapace di cancellarne le tracce […].

La frese mi ha particolarmente scosso non fosse altro perché alla tragedia che vivemmo quando papà si ammalò di Alzheimer, su suggerimento di un amico che si interessa di psicologia, dedicai un libro (UN UOMO BUONO – MIO PADRE MALATO DI ALZHEIMER).

Non so se averlo scritto abbia effettivamente sortito in me una funzione catartica, come sosteneva invece con convinzione il mio amico che mi spinse a scriverlo. Di sicuro mi è servito a conoscere un aspetto di me stesso che, diversamente, mi sarebbe rimasto ignoto.

È superfluo dire che quotidianamente volgo il mio pensiero a papà. Spero che davvero, dopo le tante sofferenze patite nel corso della malattia, la sua anima possa aver finalmente trovato la giusta pace.

Di tanto in tanto mi capita di sognarlo. Quando accade, ho la sensazione che voglia rassicurarmi di essermi vicino, che veglia su di me.

Come ho raccontato nel libro, papà era uno sportivo convinto.

Da quand’era ragazzo fino alla soglia dei sessant’anni, ossia fino a quando non iniziarono a manifestarsi i primi sintomi della malattia, ha sempre giocato a calcio, fatto ginnastica da camera la mattina non appena si svegliava. Ma soprattutto amava fare lunghe passeggiate e quando era a casa, dopo pranzo, se non aveva modo di scendere per fare una camminata, per almeno mezz’ora andava avanti e indietro per casa per smaltire quanto aveva mangiato.

Ed è proprio a seguito del valore che papà attribuiva alla camminata che ultimamente penso spesso a lui.

Le festività natalizie, si sa, sono emozionanti soprattutto perché ci si raduna con la famiglia per stare tutti insieme, dando vita a estenuanti maratone pappatorie seduti intorno alla tavola, in casa o a ristorante.

Tra Natale e capodanno, siamo capaci di mettere su in pochi giorni un bel po’ di chili. Preoccupandoci solo dopo le feste come fare per smaltirli.

È questo il periodo dell’anno in cui le palestre vedono levitare in maniera esponenziale il numero di iscrizioni e migliaia sono coloro che cliccano sui siti di medicina sportiva per informarsi su come fare per dimagrire senza spendere tanti soldi.

Negli ultimi tempi si stanno affermando le teorie secondo cui basterebbero 150 minuti alla settimana di attività sportiva o che bisognerebbe camminare per almeno 10.000 passi al giorno per tenersi in forma. Aggiungendo l’ultima novità, gli esercizi con la sedia da fare comodamente in casa.

Sia la camminata lunga sia gli esercizi con la sedia entrambi papà li praticava da che era giovane per tenersi in forma. A riguardo mamma non si stancava mai di raccontare divertita un aneddoto di quando andarono a Roma in viaggio di nozze.

Dopo aver dormito per la prima volta insieme, la mattina, quando si svegliò, mamma non trovò papà al proprio fianco nel letto. Sentendo dei sospiri provenire dal pavimento e vedendo le gambe di papà agitarsi in aria, temendo che lui si stesse sentendo male, si alzò di scatto per vedere cosa stesse accadendo. Quale non fu la sua sorpresa quando, nell’affacciarsi dal talamo, posò lo sguardo su papà disteso sul pavimento che pedalava con le gambe in aria facendo la bicicletta.

A quello spettacolo, mamma si rinfilò sotto le lenzuola e iniziò a ridere a più non posso. Da allora, per quasi quarant’anni, papà non smise mai di fare ginnastica da camera tutti i santi giorni.

Papà lavorava a Piazza Mercato. Nonostante il negozio aprisse alle 9, scendeva di casa prima delle 7. Prendeva la metropolitana a Cavalleggeri e scendeva a Mergellina per poi farsela a piedi fino a Piazza Mercato, percorrendo Via Caracciolo, Via Partenope e Via Marina o Corso Garibaldi per un totale di almeno 4/5 km al giorno.

Tutto ciò papà lo attuava senza essersi consultato con alcun esperto di sport o aver effettuato una ricerca approfondita in rete, all’epoca internet non esisteva. Era semplicemente convinto che l’attività sportiva facesse bene e la praticava per ricavarne benefici fisici e mentali.

Per quanto riguarda le diete, non gli si addicevano. Papà era un’ottima forchetta. Sia a cena, quando rientrava da lavoro, sia la domenica, quando mamma cucinava qualcosa di speciale e di superfluo per celebrare il giorno di festa, onorava la tavola non disdegnando di fare il bis.

Fermo restando che a lavoro per pranzo aveva sempre con sé la marenna – lo sfilatino o il cozzetiello di pane con il companatico – che mamma gli preparava tutte le mattine prima che scendesse di casa.

Tuttavia, nonostante amasse mangiare senza preoccuparsi delle eccessive quantità nel piatto, grazie alla sua tenacia di sportivo convinto, papà ha sempre avuto un fisico prestante e atletico, suscitando l’ammirazione e l’invidia di tanti che alla sua stessa età o addirittura molto più giovani di lui erano imbolsiti se non addirittura obesi.

A distanza di tanti anni, oggi che leggo o ascolto esaltare i benefici salutari della camminata lunga e degli esercizi casalinghi, non posso fare a meno di sorridere pensando a papà.

Senza possedere alcuna nozione scientifica, in tempi non sospetti, posso ben dire che è stato un antesignano di quella che oggi sta diventando una vera e propria moda.

Non so se, come afferma Freud, davvero la morte di un padre rappresenti la perdita più straziante per un uomo.

Di certo in queste ultime settimane non passa giorno che non pensi a papà e a quelle sue passioni che mi sembravano delle manie esagerate. In realtà erano un sano stile di vita che però non è bastato ad arginare e sconfiggere quel mostro di nome Alzheimer che se l’è portato via tra atroci sofferenze fisiche e mentali!

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DISCORSO DI FINE ANNO: PAROLE, PAROLE, PAROLE…

 

 Il 31 maggio dell’anno appena trascorso ho compiuto sessant’anni e di discorsi di fine anno dei Presidenti della Repubblica ne ho sentiti un bel po’.Partendo da Pertini fino a quello di ieri sera, il decimo di Mattarella che segna un record. Napolitano si fermò a nove: dopo aver detto più volte no a una sua eventuale rielezione sia per motivi di età sia perché la riteneva un’anomalia costituzionale – sarebbe stato il primo Presidente della Repubblica a ricoprire un doppio mandato cosa, sembra, non prevista dalla Costituzione -, cedette alle pressioni dei parlamentari della “vecchia” politica per evitare che al Colle salisse Stefano Rodotà sostenuto dal M5S.

Mattarella è il secondo Presidente con doppio mandato e probabilmente non sarà l’ultimo a conferma che, quando fa comodo, anche la Costituzione può essere interpretata a proprio uso e consumo.

In quarantadue anni di discorsi di fine anno, ossia da quando compii diciott’anni, alcuni davvero belli – soprattutto quelli di Pertini, ex partigiano che il fascismo lo aveva combattuto per davvero, rischiando la vita, il quale non si stancava mai di ripetere “Il fascismo per me non può essere considerato una fede politica… il fascismo è l’antitesi di tutte le fedi politiche […], perché opprime le fedi altrui” -, se un quinto di questi discorsi si fossero tradotti in fatti oggi l’Italia sarebbe uno dei paesi politicamente e socialmente più vivibili al mondo.

Se invece il nostro paese non brilla né per sviluppo economico né per democrazia, e ogni anno va sempre peggio, checché ne dica chi ci governa col sostegno della stampa “amica”, significa che le belle parole spese nei tanti discorsi di fine anno, non appena si spegne il televisore per iniziare il cenone, si volatilizzano nei fumi del vino che tracanniamo a tavola aspettando la mezzanotte, nei fuochi d’artificio sparati per salutare il nuovo anno, nei veglioni tra karaoke, balli, trenini e facendo quattro salti in dolce compagnia sul letto o sul ribaltabile di un auto per tenere fede all’auspicio che “chi lo fa a capodanno lo fa tutto l’anno”!

All’indomani di ogni discorso, ascoltando le reazioni politiche, nessun leader politico si mostra in contrasto con quanto asserito dal Capo dello Stato. Finanche quelli della maggioranza di governo plaudano alle parole del Presidente, seppure da esse trasparisse un monito all’esecutivo a occuparsi seriamente dei problemi della povera gente, a non attuare politiche razziste bensì di accoglienza nei confronti degli stranieri, a ripudiare la guerra impegnandosi per la pace, a investire più soldi per la sanità, la ricerca e l’istruzione e meno per gli armamenti.

È quanto, mi pare, abbia affermato ieri sera Mattarella nel suo discorso. Eppure la Meloni lo ha condiviso in pieno, seppure le politiche del suo governo, sia per quanto riguardo il sociale sia l’immigrazione sia il sostegno alla guerra in Ucraina e al genocidio perpetrato da Israele a Gaza contro i palestinesi, le contraddicano.

Senza contare i vari ministri, rappresentanti dell’esecutivo e deputati, in maniera trasverrsale da destra a sinistra passando per il centro, con guai giudiziari o che non brillano per capacità né per lucidità mentale, ma che siedono comunque negli scranni del governo e del Parlamento: SantanchéLollobrigida e l’ex ministro della Cultura San Giuliano che fu costretto a dimettersi a seguito della liaison con l’imprenditrice pompeiana Maria Rosaria Boccia, vicenda che tuttora potrebbe mettere in ulteriore imbarazzo la Meloni, solo per citarne alcuni!

È vero, il discorso di fine anno del Capo dello Stato ha lo scopo di fare il bilancio dell’anno che sta per concludersi e tracciare il cammino da seguire nel nuovo anno per migliorare il paese e la vita dei cittadini.

Ma, visto che ogni anno in Italia va sempre peggio – aumento dei femminicidi, delle morti sul lavoro, della disoccupazione, della violenza nelle città, aumento delle tariffe delle varie utenze, adeguamento consistente degli emolumenti dei ministri non eletti ma non degli stipendi dei lavoratori comuni e delle pensioni se non per pochi spiccioli, senza contare i vaneggiamenti di Salvini sulla realizzazione del Ponte sullo Stretto mentre in Italia i trasporti ferroviari, soprattutto al sud, sono allo sfascio, – c’è da chiedersi se il discorso di fine anno del Capo dello Stato abbia ancora un senso.

Non sarebbe bello se un anno che verrà il Presidente dello Repubblica, chiuque egli fosse, si rifiutasse di tenerlo motivando la decisione come protesta nei confronti di una politica, a prescindere da chi governa, incapace di occuparsi per davvero del paese e degli italiani?

Sarebbe certamente bello ma irrealizzabile in quanto creerebbe un’insanabile spaccatura tra i poteri dello Stato con ripercussioni pericolose per la già traballante stabilità del nostro paese.

Che anche quest’anno appena iniziato Dio ce la mandi buona.

Buon anno a tutti!

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STUTATELO ‘STO TELEFONO, OVVERO “‘O PESCE FETE DA’ CAPA”.

Che il cellulare è ormai diventato un’appendice del corpo umano è cosa nota. Così com’è noto che sempre più persone non riescono a fare a meno di utilizzarlo centinaia di volte nell’arco della giornata per telefonare, scattare foto e selfie, consultare internet, interagire sui social o vedere quanti like ha ottenuto il loro ultimo post su Facebook o la loro storia su Instagram.

Questo atteggiamento, ritetuno da sociologi e psicologi, vero e proprio sintomo di una patologia mentale, deriverebbe dal bisogno che ognuno di noi ha di sentirsi protagonista nella vita: più numerosi sono i like più alta è la notorietà in rete, più ci si illude di essere importanti.

Bandire una crociata contro i telefonini, però, non significa condannarli – il telefonino è uno strumento – bensì punire chi ne fa un uso indiscriminato, a volte criminale.

Quanto è accaduto il 22 dicembre nell’aula del Senato, alla presenza del Presidente della Repubblica, durante il concerto dei Natale diretto dal maestro Riccardo Muti ha del paradossale. Non fosse altro perché si presume che chi ricopre la carica di deputato dovrebbe possedere qualità etiche/morali superiori alla massa dei cittadini che rappresenta.

Durante il concerto è iniziato a suonare un cellulare cui poco dopo se n’è aggiunto un altro costringendo il maestro a sospendere l’esibizione per invitare chi avesse il telefonino acceso a spegnerlo con una frase in napoletano che rimarrà negli annali del Senato: “Stutatelo ‘sto telefono!”.

I presenti in aula hanno riso alla battuta che in realtà era un rimprovero alla bassezza morale dei responsabili dell’increscioso episodio. Anche se non c’era certo bisogno di quest’ultima perla dei nostri parlamentari per prendere conscienza che nell’emiciclo del Parlamento italiano siedono personaggi che offendono la nazione come la cronaca dimostrerebbe.

Non dimentichiamo che in passato c’è stato chi fu sorpreso a navigare su siti di escort mentre sedeva in aula.

L’episodio induce a chiedersi con che criterio si debba pretendere che gli spettatori di un cinema, di un teatro, gli studenti in aula e chi sta lavorando non facciano uso del telefonino quando un membro del Parlamento non ha la sensibilità di spegnere il proprio durante un evento importante?

Inoltre non dimentichiamo che alcuni rappresentanti delle istituzioni utilizzano i social non solo per motivi politici ma anche per postare qualsiasi cosa facciano o mangino nell’arco della giornata per accativarsi le simpatie dell’elettorato, Salvini docet.

Concludendo, non serve prendersela con i giovani né con la gente comune se fanno un uso indiscriminato del telefonino quando chi dovrebbe dare il buon esempio si comporta peggio.

In questa nostra bistrattata società si confonde la ricchezza materiale con quella intellettuale e spirituale. Se la ricchezza di un individuo testimoniasse la sua propensione a saper fare business, non è detto che quelle stesse capacità sono adatte alla gestione del res publica. Né la sua abilità negli affari garantisce che, una volta sceso in politica, egli non sfrutti il proprio intelletto per favorire se stesso, le proprie aziende, gli amici e gli amici degli amici, fregandosene del bene comune. Esattamente quello che tuttora in tanti imputano fece Silvio Berlusconi quando decise di scendere in politica.

Al di là delle singole vicende personali, quanto è accaduto nell’emiciclo del Senato il 22 dicembre mortifica la nazione. Non siamo certo ai livelli del 24 maggio del 2010 quando la maggioranza dell’epoca votò compatta che davvero Berlusconi pensava che Ruby rubacuori fosse la nipote di Mubarak, nè si deve fare di tutta l’erba un fascio – qualche mosca bianca tra gli scranni parlamentari c’è certamente – , ma quanto è avvenuto è comunque il segnale che in Parlamento vi è, in maniera del tutto trasversale, una classe politica di basso livello etico e morale.

E’ proprio il caso di dire che ‘o pesce fete da’ capa, (il pesce inizia a puzzare dalla testa).

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A Villa Cerillo si è presentato il romanzo “DELITTO AL TEMPIO DI SERAPIDE” di Vincenzo Giarritiello

Di seguito l’articolo apparso su QuiCampiFlegrei.it della presentezione del mio ultimo romanzo DELITTO AL TEMPIO DI SERAPIDE (Edizioni Helicon)

Venerdì 25 ottobre nel suggestivo scenario di Villa Cerillo, a Bacoli, si è presentato il romanzo DELITTO AL TEMPIO DI SERAPIDE (Edizioni Helicon), dello scrittore flegreo Vincenzo Giarritiello. Relatrici la poeta Cinzia Di Francia e la poeta/scrittrice Annamaria Varriale. Letture delle poete Rossella Santoro e Maria Grazia Rossi.

Il romanzo, ambientato a Pozzuoli, con ripetuti “sconfinamenti” a Napoli, segna l’esordio come giallista dell’autore di UN UOMO BUONO – mio padre malato di Alzheimer – un libro che ha riscosso e continua a riscuotere successo di pubblico e di critica -, e della coppia Costa/Caiazzo, rispettivamente commissario e ispettore del commissariato di Pozzuoli.

L’autore tra la poeta/scrittrice Annamaria Variale e la poeta Cinzia Di Francia

La trama, appassionante e avvincente, proietta il lettore nel mondo dell’occulto, consentendo all’autore di spaziare con la fantasia dando vita a personaggi e situazioni surreali. Ma grazie alle conoscenze di storia locale della Di Francia abbiamo scoperto che quanto da lui scritto inconsapevolmente rispecchia una realtà di Pozzuoli che pochi conoscono.

Senza giri di parole la Di Francia ha affermato che la figura della janara Nunziatina, una delle protagoniste del romanzo, in un passato nemmeno tanto lontano, a Pozzuoli esisteva davvero. Precisamente la zona della metropolitana era un luogo dove si ritrovavano le janare, ossia le streghe, per celebrare i loro riti e cavalcare le “scope”.

L’autore tra le poete Rossella Santoro e Mariagrazia Rossi

Anche la Varriale ha affrontato, seppure in maniera marginale, le tematiche del mondo dell’occulto che fanno da sfondo al romanzo, tematiche che l’autore già affrontò nel 2018 in SIGNATURE RERUM (Kindle), ambientato tra Pozzuoli e Bacoli.

La relazione della scrittrice si è focalizzata soprattutto sulla figura dello scrittore mettendone in risalto la scrittura essenziale e diretta, nonché la prolificità produttiva. Sottolineando quanto la fluidità e semplicità della sua scrittura rendano facile e veloce la lettura delle trecento pagine del libro. Specificando che, pur limitandosi a descrivere in maniera superficiale i personaggi, la felice impostazione dei dialoghi consente al lettore di “vederli” perfettamente nel loro aspetto fisico e psicologico.

La discussione imperniata sul mondo dell’occulto e sulle janare è stata il pretesto perché in sala si sviluppasse un dibattito con il pubblico e c’è stato chi, narrando la propria drammatica esperienza vissuta con un tumore al cervello, ha ipotizzato scientemente che le janare potessero essere prede di allucinazioni dovute a problemi neurologici, come accadde a lui stesso fino a quando non gli venne asportata la massa che premeva sul cervello, o all’assunzione di sostanze psicotrope come era il caso di don Juan narrato da Castaneda.

Alla domanda conclusiva se sentiremo ancora parlare della coppia Costa/Caiazzo, l’autore ha risposta che il secondo romanzo è praticamente già pronto, ma questa volta la trama non sfiora minimamente il mondo dell’occulto. Viceversa nel terzo, a cui ha iniziato già a lavorare, l’occultismo ricomparirà in maniera ancora più incisiva rispetto a quanto avviene in DELITTO AL TEMPIO DI SERAPIDE.

La serata si è conclusa con il classico firma copie.

Buona lettura

Per vedere il video integrale della presentazione, cliccare qui

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“DELITTO AL TEMPIO DI SERAPIDE. UN GIALLO AMBIENTATO NELLA POZZUOLI ESOTERICA

Di seguito la recensione al mio nuovo romanzo DELITTO AL TEMPIO DI SERAPIDE (Edizioni Helicon) su QuiCampiFlegrei.it

Ci mancava un giallo ambientato a Pozzuoli. Finalmente lo abbiamo grazie allo scrittore flegreo Vincenzo Giarritiello.

Città ricca di suggestioni millenarie, Pozzuoli è la scenario naturale in cui ambientare una storia intrisa di intrigo e mistero. Un luogo che non ha nulla da invidiare alla Vigata di Montalbano, alla Napoli del commissario Ricciardi e dei Bastardi di Pizzo Falcone, alla città di Aosta di Nero Schiavone, alla Parigi del commissario Maigret, alla Londra di Sherlock Holmes e a tante altre città di famosi detective di romanzi gialli di ieri e di oggi. Pozzuoli ha una sua personalissima storia ed era giusto che in un racconto fungesse da protagonista anziché da comprimaria alla città di Napoli.

DELITTO AL TEMPIO DI SERAPIDE (Edizioni Helicon) si apre con il rinvenimento del cadavere martoriato da pugnalate di una donna nuda all’interno del macellum, meglio noto come Tempio di Serapide. 

A indagare sul delitto sarà il commissario Antonio Costa del commissariato di Pozzuoli, coadiuvato dall’ispettore Procolo Caiazzo. Tutti gli indizi fanno presumere che la vittima fosse di origini slave e possa essere stata uccisa durante una messa nera.

Partendo da queste tracce Costa e Caiazzo indagheranno nella comunità slava tra Pozzuoli e Napoli; faranno la conoscenza di Nunziatina, una veggente che vive nelle campagne di Cigliano, e della signorina Franchini, una donna pregna di fascino, amante dell’occulto e degli uomini giovani; loro malgrado si troveranno faccia a faccia con personaggi della Napoli bene alla ricerca di forti emozioni praticando giochi erotici particolari; si confronteranno con i pescatori del porto di Pozzuoli che, nella loro semplicità, si riveleranno un valido sostegno nel corso delle indagini.

Scritto in un linguaggio asciutto e veloce, supportato da dialoghi convincenti dove spesso il napoletano spadroneggia, il romanzo si interseca nelle strade e nelle piazze del capoluogo flegreo con ripetuti sconfinamenti a Napoli, toccando spesso il Rione Terra nelle cui grotte la fervida fantasia dell’autore fa celebrare, in un passato lontano, rituali magici per evocare il demonio e dare vita ai morti.

L’abbinamento alla seria e professionale figura del commissario Costa con quella ruspante e machista dell’ispettore Caiazzo si rivela un gustoso cocktail in grado di strappare più di un sorriso al lettore, facendo sorgere il dubbio su chi dei due è la spalla dell’altro. Le leggere venature erotiche che arricchiscono il romanzo sono conseguenza del carattere irriverente di Caiazzo, amante delle donne e dei piaceri della vita che, nella sua ruvidità, al momento opportuno sa rivelarsi uomo garbato e ricco di charme in grado di fare presa su qualsiasi tipo di donna.    

La trama lineare e avvincente del romanzo, in cui le sorprese si incalzano intervallandosi con spaccati sulla vita privata di Costa e della sua compagna Lucia, accompagnerà il lettore verso l’imprevedibile epilogo che, a seguito dei tanti tasselli disposti dall’autore lungo il percorso narrativo come pezzi di un puzzle da ricomporre, gli apparirà possibile seppure incredibile.

Siamo certi che questa non sarà la prima e unica avventura che vedrà come protagonisti Costa e Caiazzo del commissariato di Pozzuoli.

È facile dire di un suicida, “non ci stava con la testa”; oppure, “stava vivendo un momento difficile”; o ancora, “non ha avuto la forza di reagire”. Difficile è considerarne i gesti, gli sguardi, il tono della voce e le frasi che sussurra prima di compiere il gesto estremo. Se ponessimo la giusta attenzione a questo poker di messaggi inconsci molto probabilmente saremmo in grado di individuarlo e potremmo correre in suo aiuto prima che sia troppo tardi.

Suicidio, quando l’anima va in tilt.

Il suicidio è un gesto estremo, sintomo di un malessere interiore che l’individuo non era più un grado di sopportare. Se, poi, chi lo compie trascina con sé nell’incognita della morte anche chi ama – è accaduto l’altro ieri mattina in un quartiere di Rimini dove una donna di quarant’anni si è gettata dal tetto di un condominio di cinque piani con in braccio il figlio di sei anni, entrambi sono morti sul colpo – compie, paradossalmente, anche un estremo atto d’amore in quanto, nella sua logica malata, è convinto che senza di sé la persona amata resterebbe per sempre sola soffrendo le pene dell’inferno.

Ho usato il termine logica malata perché quando si compie un gesto estremo è segno che chi lo compie ha perso i lumi della ragione. Nel caso sopraccitato pare che la donna fosse preda della depressione, un male subdolo che erode lentamente le certezze e l’autostima di chi ne è affetto fino a farlo sentire inutile, immeritevole di vivere. La sua origine sarebbe la risposta psicologica a un evento traumatico che mina le fondamenta su cui edifichiamo la vita: la fine di un amore in cui credevamo, la perdita del lavoro che ci garantiva la dignità di esistere, stress e altro.

Al di là delle cause scatenanti, solo chi ha avuto la sventura di confrontarsi con lo spettro della depressione, seppure di sfuggita, sa bene che spesso i depressi non palesano alcun segnale esteriore che lasci intuire il loro malessere. Al massimo possono apparire infelici, svogliati, stanchi. Ma, non appena glielo si fa notare, si illuminano con un freddo sorriso per smentirti, affermando: “tutto bene, sono solo un po’ stanco!”.

Eppure basterebbe un minimo di attenzione per comprendere quando ci si trova al cospetto di un’anima malata. Purtroppo, persi nei vertiginosi ritmi imposti dalla società, quasi sempre lanciamo un’occhiata fugace al prossimo, senza minimamente curarci di lui, impegnati come siamo nel dover raggiungere ad ogni costo gli obiettivi che ci eravamo preposti perché se non li realizzassimo ci sentiremmo dei falliti.

Con questo non voglio assolutamente insinuare che la donna che si è suicidata a Rimini, così come tanti altri suicidi, non fosse oggetto d’attenzione da parte dei propri cari. Ma, come ben sa chi ha dovuto lottare contro la depressione, nel momento in cui nella mente iniziano ad affacciarsi strani pensieri si cerca l’aiuto degli altri. Seppure con fare incerto, tanto che spesso la richiesta d’aiuto è scambiata per mera ricerca di compassione o bisogno di attirare su di sé l’attenzione. Per questo molti depressi nascondono il proprio malessere interiore. A nessuno piace sentirsi criticato, offeso, deriso, considerato un incapace, un disadattato.

Il malessere interiore, però, lo si può nascondere fino a che si è ancora in una condizione mentale dove i fragili equilibri che regolano l’Io non si rompono del tutto. Fino allora si è ancora in grado di badare a se stessi. Tuttavia è proprio in quei momenti che occorrerebbe avere accanto chi sappia farci sentire importanti e utili, sappia dare un senso alla nostra vita, sappia fungere da pilastro a cui appoggiarci nel momento in cui stiamo per crollare.

Quando tutto questo viene a mancare e i medicinali, se assunti, iniziano ad alimentare nella mente strani pensieri – uno degli effetti collaterali degli antidepressivi è l’insorgenza di manie suicide – il passo verso il baratro è quasi inevitabile.

È facile dire di un suicida “non ci stava con la testa”, “stava vivendo un momento difficile”, “non ha avuto la forza di reagire”. Difficile è considerarne i gesti, gli sguardi, il tono della voce e le frasi che sussurra prima di compiere il gesto estremo. Se ponessimo la giusta attenzione a questo poker di messaggi inconsci molto probabilmente potremmo correre in suo aiuto prima che sia troppo tardi.

Come ho già detto spesso il depresso sa nascondere il proprio malessere mostrandosi ilare, solare, di buona compagnia. Per cui a nessuno verrebbe in mente che quella stessa persona starebbe pianificando di farla finita.

Sì, pianificare! Il suicidio lo si studia nei minimi dettagli. Questi sono i pensieri strani a cui mi riferivo all’inizio di questo breve scritto. Quando si è stanchi di vivere ci si inizia a guardare intorno, cercando il modo più sicuro per farla finita: si misurano con lo sguardo le altezze dei palazzi per stabilire da dove converrebbe buttarsi per essere certi che il volo risulti letale; si consultano i siti internet per individuare il metodo meno doloroso e più sicuro per porre fine alla propria esistenza.

Tali accortezze non sono solo mirate ad accertarsi che saremmo in grado di riuscirvi davvero, ma anche perché vogliamo che chi amiamo e ci ama soffra soltanto per la nostra scomparsa. Senza doversi curare di noi per il resto dei suoi giorni nel caso in cui, anziché morire, restassimo invalidi.

L’anima ha pudore, le sue grida d’aiuto sono sussurri sopraffatti dalle stridenti e volgari urla dell’egoismo materiale. Questo, secondo me, è il vero dramma. Il suicida ne è una vittima. Criticarlo, giudicarlo è una mancanza di rispetto.

Se si ha fede, bisogna pregare per la sua anima. Se si è atei, bisogna tacere nel rispetto del suo gesto estremo. Tutto il resto sono chiacchiere vuote di significato.

Le esternazioni del Ministro Sangiuliano, il quale durante la serata finale del Premio Strega, alla conduttrice che lo intervistava, promise che avrebbe poi letto i libri per cui aveva votato, suscitando lo stupore della stessa, sono l’emblema di una classe politica che alla cultura attribuisce valore zero o poco più.

MISTERI, ANZI MINISTRI ITALIANI

È comprensibile che i colleghi di governo e gli alleati politici nonché i media filogovernativi minimizzino sulle gaffe e gli strafalcioni geografici e storici del Ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano. Tuttavia sarebbe il caso che gli stessi cercassero per un momento di porsi nei panni di quei tanti candidati a un concorso pubblico o a un qualsiasi esame. Cosa devono pensare questi ultimi, che se sbagliano una o più domande di un quiz vedono minata in maniera irreparabile il proprio passaggio alla fase successiva del concorso o compromesso il voto finale, di un Ministro della Cultura che localizza Times Square a Londra invece che a New York o che attribuisce la scoperta dell’America “alle teorie di Galileo”, peccato che Galileo nacque nel 1564 mentre l’America fu scoperta nel 1492.

È vero, tutti possiamo incorrere in una gaffe, ma se poi la stessa persona le reitera qualche dubbio sullo stato reale del suo livello culturale ci coglie, alimentando il dubbio che probabilmente è inadatta a ricoprire quel ruolo. A meno che non lo ricopra per grazia ricevuta, ma da chi e, soprattutto, perché?

Quando ci si trova al cospetto di situazioni del genere sorgono forti dubbi che in Italia i cittadini sono davvero uguali tra di loro come sancisce l’articolo 3 della Costituzione.

Sono ormai più di trent’anni che in questo paese la cultura viene derisa, umiliata da una certa classe politica che sembra nutrire verso di essa una sorta di fastidioso rigetto. Non è un caso se alcuni anni fa l’allora Ministro Giulio Tremonti affermò “la cultura non si mangia.

Le esternazioni del Ministro Sangiuliano, il quale durante la serata finale del Premio Strega, alla conduttrice che lo intervistava, promise che avrebbe poi letto i libri per cui aveva votato, suscitando lo stupore della stessa che non potè fare a meno di chiedersi in che modo avesse votato visto che non li aveva letti, sono l’emblema di una classe politica che alla cultura attribuisce valore zero o poco più.

Il problema è che molti italiani, scoprendosi ignoranti alla stregua di un Ministro della Repubblica, si sentono in pace con la coscienza e dunque giustificati a non leggere manco un libro nell’arco dell’anno. Non comprendendo che l’ignoranza del popolo è il propellente che sta trascinando speditamente il paese incontro a un passato che credevamo sepolto per sempre.

Le gaffe di Sangiuliano, unitamente a quelle di altri Ministri di questo governo secondo cui i poveri mangiano meglio dei ricchiLollobrigida, altro campione di gaffe – non devono soltanto far ridere ma prima di tutto devono far riflettere sul reale livello culturale di una parte dell’attuale classe politica italiana.

Come si può bocciare un candidato a un concorso o mettere in discussione un maturando o un laureando perché sbaglia una risposta se poi abbiamo un Ministro, per giunta della cultura, che dimostra di avere un livello culturale alquanto discutibile?

Misteri, anzi ministri italiani.

 

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UN UOMO BUONO, una presentazione ricca di spunti di riflessione

Foto di copertina, partendo da destra: dott.ssa Raffaella Villani, Gabriella, scrittrice Annamaria Varriale, l’autore, prof.ssa Floriana Vernola, scrittrice Enza D’Esculapio

Come qualunque cosa che si reitera nel tempo acquista un sapore sempre diverso a ogni replica, lo stesso accade, almeno per me, per la presentazione di un mio libro. Nel caso specifico mi riferisco alla presentazione tenutasi martedì 18 giugno presso la Mondadori di Napoli/Piazzale Tecchio di UN BUONO – mio padre malato di Alzheimer (Edizioni Helicon) in cui ho raccontato la tragedia che vivemmo con la mia famiglia quando papà si ammalò di Alzheimer.

Durante ogni presentazione del libro, in base ai relatori, vengono evidenziati aspetti diversi sviluppati nel testo – da quello religioso a quello socio/sanitario – e la partecipazione di pubblico è condizionata sia dal luogo sia dal giorno in cui avverrà. Ci sono presentazioni ricche di pubblico altre, invece, povere. Così funziona e bisogna accettarlo serenamente. Non lasciandosi né esaltare dalla nutrita presenza di gente in sala né deprimere dalle tante sedie vuote.

Personalmente ciò che importa è la partecipazione attiva dei presenti all’eventuale dibattito che potrebbe nascere dagli interventi dei relatori e dell’autore.

La presentazione di UN UOMO BUONO di martedì scorso, è stata, lasciatemelo dire, un successo sia di pubblico sia di partecipazione al dibattito che ne è seguito dove è stato messo in particolare risalto che, malgrado in Italia dal 31 gennaio 2018 è entrata in vigore la Legge 219, ossia il testamento biologico, che permette a qualunque cittadino in grado di intedere e di volere di stabilire a monte davanti a un notaio o a un pubblico ufficiale cosa fare della propria vita se si scoprisse affetto da una grave malattia come l’Alzheimer, nel nostro paese continui a esserci un atteggiamento timido da parte della politica che, “nonostante i ripetuti solleciti della Corte costituzionale con cui ha chiesto al legislatore di intervenire in materia di fine vita, il parlamento non ha emanato una legge che preveda per le persone malate il diritto di autodeterminarsi nel proprio fine vita, inclusa la possibilità di accedere all’eutanasia“.

Ascoltare le testimonianze di chi ha vissuto o sta vivendo la nostra stessa tragedia; apprendere che a distanza di anni dai fatti che ho narrato – papà finì l’8 maggio del 2011 dopo essere stato allettato per quattro anni, ma la malattia si manifestò alla fine degli anni novanta – le problematiche continuano a essere le stesse, seppure la ricerca, pare, stia facendo passi importanti, mi fa una rabbia che non vi dico.

Quando si parla di assistenza a un ammalato di Alzheimer, o a qualsiasi ammalato che richiede attenzione e cure ventiquattratt’ore su ventiquattro, non ci si riferisce solo al malato ma al contesto familiare che gli gravita intorno che ha bisogno a sua volta di assistenza per non impazzire fino a disgregarsi.

Se esistono famiglie facoltose che possono permettersi di ricoverarlo in clinica per poi andare trovarlo minimo un paio di volte a settimana, vi sono altrettante famiglie che, al di là delle disponibilità economiche, preferiscono tenerlo in casa per stargli vicino fino all’ultimo per godere della sua presenza seppure lui o lei non è più in grado di riconoscerli. A riguardo mi sovviene una storia: un tizio andava tutti i giorni in clinica a trovare la propria moglie affetta di Alzheimer. A chi gli faceva notare che era inutile che vi andasse quotidianamente perché lei ormai non era più in grado di riconoscerlo, lui rispondeva “ma io so lei chi è!”.

Proprio perché sappiamo chi è lui o lei giacente in un letto, la cui mente è ormai svanita al punto da non riconoscerci, chiedendoci “Tu chi sei?” con gli occhi spenti, penso sia nostro dovere attivarci fino alla fine al suo fianco per non fargli mancare la presenza del nostro amore. Rispettandone la volontà di farla finita con quella vita non vita, se l’avesse manifestata per iscritto e firmata in calce.

L‘Alzheimer è una malattia terribile che cancella la dignità dell’ammalato e nello stesso tempo mette a dura prova la resistenza nervosa di chi gli sta accanto, spesso inducendolo a imprecare e a invocare la morte del malato quale liberazione per tutti. In quel caso non è egoismo ma estrema umanità coniugata alla disperazione di non poter far nulla se non allungargli l’agonia continuando a curarlo.

Penso che molti di noi se solo immaginassero che un giorno, a causa dell’Alzheimer o di qualsiasi altra malattia, sarebbero costretti a giacere in un letto come ebeti, costringendo i propri cari a sacrificare la propria vita per accudirli senza alcuna speranza di guarirli ma, anzi, con la consapevolezza che la sua condizione potrà solo peggiorare, soffrendo fino alla fine le pene dell’inferno, non avrebbero alcuna difficoltà a firmare il testamento biologico per autorizzare i propri familiari a “staccare la spina” laddove la loro esistenza si riducesse a una vita non vita.

Penso che in una società civile agli individui dovrebbe essere concessa tale possibilità di decisione. Ognuno di noi è padrone della propria vita. In Italia la legge c’è ma va migliorata.

Aggrapparsi alla religione o alla filosofia può aiutare fino a un certo punto chi assite un ammalato. Solo chi ha la sventura di vivere una tragedia simile può capire quel che prova chi la sta vivendo o l’ha vissuta.  Tra i tanti significati che appartanegono al verbo amare rientra anche rispettare la volontà di chi ci sta a cuore. Per cui anche porre fine alle sue sofferenze, se è questo che vuole. Non dimentichiamoci che perfino la Chiesa è contraria all’accanimento terapeutico.

Soprattutto di questo si è parlato martedì. Grazie a quanti sono intervenuti.

Per vedere il video della presentazione cliccare qui

Relatrici: Enza D’Esculapio, scrittrice; Raffaella Villani, dottoressa

Coordinatrice: Annamaria Varriale, scrittrice

Lettrice: prof.ssa Floriana Vernola

Si rigraziano Gabriella e Claudio titolari della libreria Mondadori di Napoli, Piazzale Tecchio – Stazione FS di Campi Flegrei

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Il poeta e il boss (racconto)

(Foto di copertina: Caspar David Friedrich, Due uomini che contemplano la luna (1819; olio su tela, 34,9 x 43,8 cm; Ne York, The Metropolitan Museum of Art)

All’anagrafe il suo nome era Antonio C. ma fin da ragazzino tutti lo chiamavano ‘o poeta per via della sua innata verve a comporre versi, in qualunque occasione. Quando in famiglia c’era un evento importante, i familiari gli chiedevano una frase da scrivere su un biglietto d’auguri o da declamare durante una cerimonia. Tutto ciò lo faceva sentire importante. E ancora più importante iniziò a sentirsi quando, a scuola, prima i compagni di classe e poi anche i professori, venuti a conoscenza delle sue qualità poetiche, lo avvicinavano per chiedergli qualche verso da dedicare a una ragazza o a un ragazzo, a una donna o a un uomo, a un figlio o a una figlia.

Tutto andò per il verso giusto fino a quando non iniziò a lavorare. L’impatto con la realtà lavorativa gli svelò quanto fossero distanti tra loro il mondo del lavoro e quello della poesia. Se da un lato i colleghi lo cercavano perché scrivesse loro brevi frasi da riportare sui bigliettini d’auguri, dall’altro i titolari, temendo che lui sacrificasse il lavoro per la poesia trascinando anche gli altri, lo sorvegliavano nemmeno fosse il peggiore dei criminali. E non appena si presentò l’occasione per poter tagliare il personale senza incorrere nelle maglie della giustizia, il primo che fecero fuori fu lui.

Mentre i familiari e i gli amici si preoccupavano del suo futuro, lui sembrava non darci peso. Anziché impegnarsi nella ricerca di un nuovo lavoro, trascorreva giornate intere a passeggiare per le vie della città guardandosi circospetto intorno alla ricerca dell’ispirazione, fissando su di un quadernetto che portava nella tasca dei pantaloni i pensieri che gli sovvenivano. Non aveva alcuna difficoltà a ispirarsi in una bella donna che incrociava per strada, in un barbone ubriaco sdraiato sul marciapiede o in una torma schiamazzante di ragazzi che giocavano a per strada.

La sua presenza discreta e nello stesso tempo tangibile per via del suo fisico possente – era alto un metro e novanta e aveva un fisico da culturista, pur non avendo messo mai piede in palestra – per le vie dei quartieri, in particolar modo quelli dove la malavita era radicata, inizialmente suscitò preoccupazione al punto che le “vedette” lo seguivano come un’ombra temendo che fosse un Killer di un clan rivale o un infiltrato della polizia.

Quando fu chiaro a tutti che non era né l’uno né l’altro, ma solo uno “spostato”, uno che non ci stava con la testa, che scriveva poesie mentre camminava, tutti iniziarono a guardarlo con simpatia. Qualcuno addirittura iniziò a volergli bene.

Essendo una persona istruita qualcuno gli propose di dare lezioni ai ragazzini dei quartieri. Lui fu ben felice di fungere da istitutore e iniziò a collaborare con la parrocchia e con le associazioni di volontariato per il recupero dei ragazzi a rischio.

Tutto andò per il meglio fino a quando il figlio di un boss che seguiva con costanza le sue lezioni non iniziò anche lui ad appassionarsi alla poesia in maniera viscerale divenendo la sua “ombra” durante le sue lunghe e solitarie passeggiate che faceva per i vicoli.

Una mattina due uomini dai tratti somatici cruenti lo avvicinarono nei pressi di un bar e lo invitarono a seguirli. Intuendo che non poteva rifiutarsi, seppure a malincuore, ubbidì. Lo condussero in una palazzina dalla facciata fatiscente. Salirono la scalinata dagli enormi lastroni in pietra ed entrarono in un appartamento enorme, arredato in stile moderno che stonava con l’esterno sgarrupato dell’a’edificio. Era la residenza del boss del quartiere che lo attendava seduto su un trono dalle bordature di oro zecchino

<<Benvenuto, prufessò>>.

<<Grazie>>.

<<Prufessò, a me nun piace perdere tiempo, dunque vi spiego subito perché siete qui>>.

<<Posso immaginarlo>>.

<<Ah, sì? Me fa piacere, accussì mi risparmiate ‘e perdere tiempo: vuje ‘a cca ve n’ata i’!>>.

<<Perché a vostro figlio piace la poesia?>>.

<<Pe’ meza vostra, mio figlio nun se sape fa rispettà!>>:

<<Vostro figlio ha un animo nobile, ha la poesia nel cuore>>.

<<E ‘sta cosa nun va bene>>.

<<Perché?>>.

Il boss scese dal trono, gli si fece incontro, lo prese per il braccio e lo portò davanti a un enorme specchio ovale.

<<Che vedite dinto ‘o specchio?>> domandò.

<<Voi e io>>.

<<Sulamente chesto?>>

<<Che altro dovrei vedere?>>

<<Na perzona elegante e nu pezzente!>>

<<Il pezzente sarei io?>>

<<E chi, sennò? Guardate comme site cunciate: tutto spuorco, paretite nu barbone!>>

<<L’abito non fa il monaco>>.

<<E chi l’ha ditta ‘sta strunzata?>> Il boss scoppiò a ridere, una risata grassa. <<Prufessò, l’abito fa il monaco pecché quand’ l’ommo veste elegante significa ca tene e sorde>>.

<<Per voi contano solo i soldi nella vita?>>

<<Pecché, ce sta coccosa cchiù importanete de’ sorde?>> Tacque e osservò a lungo le loro immagini riflesse nello specchio. <<Prufessò, nun voglio ca mio figlio fa ‘a stessa fina vostra. A ccà ve n’ata i’!>>.

<<Se mi rifiutassi?>>.

<<Significa ca teneti curaggio, ca ‘a morte nun ve fa appaura!>>.

<<Perché dovrei temere di morire? La morte è solo un cambiamento di stato, l’anima è immortale.>>

Il boss lo fissò a lungo. <<Dunque nun ve ne volete andare?>>

<<No!>> rispose deciso.

<<E va bene>>. Il boss si rivolse ai due guardaspalla che gli avevano portato il poeta. <<Accompagnate il signore alla porta>>.

Quando fu in strada il poeta tirò un lungo respiro. Poi si incamminò tra i vicoli. Era così preso dai suoi pensieri che non si avvide della motocicletta che sopraggiungeva alle sue spalle a folle velocità. Si voltò solo quando sentì il rombo assordante riecheggiargli nelle orecchie. Fu un attimo. L’ultima cosa che vide fu la motocicletta piombargli addosso e sbalzarlo lontano dopo un volo durante il quale gli passò davanti tutta la vita.

I funerali furono fatti con una colletta degli abitanti del quartiere. La chiesa era stracolma. A celebrare il rito funebre fu lo stesso prete che segnalava al poeta i ragazzi da recuperare.

<<Chiunque abbia fatto questo, non immagina il male che ha arrecato a se stesso. Antonio era un sant’uomo. E quando si toccano i santi, si tocca Dio. E Dio non solo è amore ma è anche vendetta!>> disse concludendo la sua omelia.

Alcuni giorni dopo i funerali, il boss iniziò a sognare il poeta demaclargli le sue poesie in maniera ossessiva. Quel sogno diventò un incubo tanto che il boss non riusciva più a dormire.

Stanco e spossato dalla vita insonne, il boss una mattina chiamò suo figlio.

<<Da domani sostituisci il poeta>>.

<<In che senso?>> domandò il ragazzo incredulo.

<<Ti occuperai tu di insegnare a leggere e a scrivere ai ragazzi del quartiere. Se davvero hai la poesia nell’anima, come lui diceva, non ti sarà difficile sostituirlo>>.

<<Sei stato tu!>> mormorò fissando il padre con lo sguardo iniettato di sangue. <<Sei stato tu a ucciderlo! Perché?>>.

<<Le domande non servono a niente. Da domani tu prenderai il suo posto>>.

<<Sì, ma a una condizione>>.

<<Quale?>>

<<Indosserò i suoi abiti!>>

Il boss lo fissò a lungo in silenzio. <<Va bene>> disse alla fine.

Quando il figlio andò via, il boss si avvicinò al mobile alle sue spalle. Aprì un cassetto, prese la pistola che vi era custodita, se la puntò alla tempia e tirò il grilletto. Lo sparò riecheggiò nella casa, ma lui era ancora vivo.

Con la pistola tra le mani si parò davanti allo specchio. Il vetro non rifletteva la sua immagina.

<<Ma allora sono morto>> mormorò tra i denti.

<<No, non sei morto>>. Il poeta apparve al suo fianco. <<Te l’avevo detto, la morte è solo un cambiamento di stato. L’anima è immortale.>> Con lo sguardo indicò il corpo riverso sul pavimento in una pozza di sangue.

<<E ora che succederà?>> domandò il boss fissando il proprio cadavere.

<<Nulla. Fortunatamente ti sei lasciato intimorire dal sognarmi ripetutamente e alla fine hai messo da parte le tue reticenze e la tua prosopopea, permettendo a tuo figlio di seguire la sua strada. Ti sembrerà strano ma con questo gesto hai salvato te stesso. Ma non basterà per garantirti una vita serena nella prossima esistenza>>.

<<Cosa devo fare?>>

<<Andare in sogno a tutti quelli che erano ai tuoi ordini e infondere nelle loro anime pensieri d’amore>>.

<<Pensi davvero che basterà loro sognarmi per abbandonare il crimine?>>.

<<I sogni sono il linguaggio dell’anima. Tu coltiva i loro sogni con messaggi d’amore e vedrai come cambieranno strada.>>

<<Grazie!>> mormorò il boss.

<<Non devi ringraziare me ma te stesso!>>

<<Me stesso?>> domandò incredulo.

<<Anche tu da ragazzo, come tuo figlio, sognavi di essere un poeta, ma poi il tuo sogno lo hai chiuso a chiave nel cassetto perdendolo di vista.>>

<<Sì, è vero, mio padre mi impose di diventare un boss come lui e non ho mai più né scritto né letto poesie.>>

<<Ma la tua anima il tuo sogno da ragazzo non lo ha mai perso di vista e, con tua moglie avete concepito vostro figlio, quel sogno lo ha trasfuso in lui perché si realizzasse.>>

Il boss sorrise.

<<Te l’ho detto>> continuò il poeta <<l’anima non muore mai e con lei i nostri sogni. La morte non esiste, è solo un cambiamento di stato. Così come quando, dopo morti, ritorneremo a vivere in nuovi corpi, così i nostri sogni cambieranno di stato realizzandosi nelle vite successive o attraverso noi stessi o mediante i nostri figli. Gli uomini non sono altro che sogni in eterna espansione in quanto la vita non è altro che un sogno infinito.>>

Detto ciò sia lui che il boss si dissolsero come nebbia al sole.

Il nuovo giorno stava per nascere, un nuovo sogno stava per cominciare.