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UN UOMO BUONO, una presentazione ricca di spunti di riflessione

Foto di copertina, partendo da destra: dott.ssa Raffaella Villani, Gabriella, scrittrice Annamaria Varriale, l’autore, prof.ssa Floriana Vernola, scrittrice Enza D’Esculapio

Come qualunque cosa che si reitera nel tempo acquista un sapore sempre diverso a ogni replica, lo stesso accade, almeno per me, per la presentazione di un mio libro. Nel caso specifico mi riferisco alla presentazione tenutasi martedì 18 giugno presso la Mondadori di Napoli/Piazzale Tecchio di UN BUONO – mio padre malato di Alzheimer (Edizioni Helicon) in cui ho raccontato la tragedia che vivemmo con la mia famiglia quando papà si ammalò di Alzheimer.

Durante ogni presentazione del libro, in base ai relatori, vengono evidenziati aspetti diversi sviluppati nel testo – da quello religioso a quello socio/sanitario – e la partecipazione di pubblico è condizionata sia dal luogo sia dal giorno in cui avverrà. Ci sono presentazioni ricche di pubblico altre, invece, povere. Così funziona e bisogna accettarlo serenamente. Non lasciandosi né esaltare dalla nutrita presenza di gente in sala né deprimere dalle tante sedie vuote.

Personalmente ciò che importa è la partecipazione attiva dei presenti all’eventuale dibattito che potrebbe nascere dagli interventi dei relatori e dell’autore.

La presentazione di UN UOMO BUONO di martedì scorso, è stata, lasciatemelo dire, un successo sia di pubblico sia di partecipazione al dibattito che ne è seguito dove è stato messo in particolare risalto che, malgrado in Italia dal 31 gennaio 2018 è entrata in vigore la Legge 219, ossia il testamento biologico, che permette a qualunque cittadino in grado di intedere e di volere di stabilire a monte davanti a un notaio o a un pubblico ufficiale cosa fare della propria vita se si scoprisse affetto da una grave malattia come l’Alzheimer, nel nostro paese continui a esserci un atteggiamento timido da parte della politica che, “nonostante i ripetuti solleciti della Corte costituzionale con cui ha chiesto al legislatore di intervenire in materia di fine vita, il parlamento non ha emanato una legge che preveda per le persone malate il diritto di autodeterminarsi nel proprio fine vita, inclusa la possibilità di accedere all’eutanasia“.

Ascoltare le testimonianze di chi ha vissuto o sta vivendo la nostra stessa tragedia; apprendere che a distanza di anni dai fatti che ho narrato – papà finì l’8 maggio del 2011 dopo essere stato allettato per quattro anni, ma la malattia si manifestò alla fine degli anni novanta – le problematiche continuano a essere le stesse, seppure la ricerca, pare, stia facendo passi importanti, mi fa una rabbia che non vi dico.

Quando si parla di assistenza a un ammalato di Alzheimer, o a qualsiasi ammalato che richiede attenzione e cure ventiquattratt’ore su ventiquattro, non ci si riferisce solo al malato ma al contesto familiare che gli gravita intorno che ha bisogno a sua volta di assistenza per non impazzire fino a disgregarsi.

Se esistono famiglie facoltose che possono permettersi di ricoverarlo in clinica per poi andare trovarlo minimo un paio di volte a settimana, vi sono altrettante famiglie che, al di là delle disponibilità economiche, preferiscono tenerlo in casa per stargli vicino fino all’ultimo per godere della sua presenza seppure lui o lei non è più in grado di riconoscerli. A riguardo mi sovviene una storia: un tizio andava tutti i giorni in clinica a trovare la propria moglie affetta di Alzheimer. A chi gli faceva notare che era inutile che vi andasse quotidianamente perché lei ormai non era più in grado di riconoscerlo, lui rispondeva “ma io so lei chi è!”.

Proprio perché sappiamo chi è lui o lei giacente in un letto, la cui mente è ormai svanita al punto da non riconoscerci, chiedendoci “Tu chi sei?” con gli occhi spenti, penso sia nostro dovere attivarci fino alla fine al suo fianco per non fargli mancare la presenza del nostro amore. Rispettandone la volontà di farla finita con quella vita non vita, se l’avesse manifestata per iscritto e firmata in calce.

L‘Alzheimer è una malattia terribile che cancella la dignità dell’ammalato e nello stesso tempo mette a dura prova la resistenza nervosa di chi gli sta accanto, spesso inducendolo a imprecare e a invocare la morte del malato quale liberazione per tutti. In quel caso non è egoismo ma estrema umanità coniugata alla disperazione di non poter far nulla se non allungargli l’agonia continuando a curarlo.

Penso che molti di noi se solo immaginassero che un giorno, a causa dell’Alzheimer o di qualsiasi altra malattia, sarebbero costretti a giacere in un letto come ebeti, costringendo i propri cari a sacrificare la propria vita per accudirli senza alcuna speranza di guarirli ma, anzi, con la consapevolezza che la sua condizione potrà solo peggiorare, soffrendo fino alla fine le pene dell’inferno, non avrebbero alcuna difficoltà a firmare il testamento biologico per autorizzare i propri familiari a “staccare la spina” laddove la loro esistenza si riducesse a una vita non vita.

Penso che in una società civile agli individui dovrebbe essere concessa tale possibilità di decisione. Ognuno di noi è padrone della propria vita. In Italia la legge c’è ma va migliorata.

Aggrapparsi alla religione o alla filosofia può aiutare fino a un certo punto chi assite un ammalato. Solo chi ha la sventura di vivere una tragedia simile può capire quel che prova chi la sta vivendo o l’ha vissuta.  Tra i tanti significati che appartanegono al verbo amare rientra anche rispettare la volontà di chi ci sta a cuore. Per cui anche porre fine alle sue sofferenze, se è questo che vuole. Non dimentichiamoci che perfino la Chiesa è contraria all’accanimento terapeutico.

Soprattutto di questo si è parlato martedì. Grazie a quanti sono intervenuti.

Per vedere il video della presentazione cliccare qui

Relatrici: Enza D’Esculapio, scrittrice; Raffaella Villani, dottoressa

Coordinatrice: Annamaria Varriale, scrittrice

Lettrice: prof.ssa Floriana Vernola

Si rigraziano Gabriella e Claudio titolari della libreria Mondadori di Napoli, Piazzale Tecchio – Stazione FS di Campi Flegrei

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Il poeta e il boss (racconto)

(Foto di copertina: Caspar David Friedrich, Due uomini che contemplano la luna (1819; olio su tela, 34,9 x 43,8 cm; Ne York, The Metropolitan Museum of Art)

All’anagrafe il suo nome era Antonio C. ma fin da ragazzino tutti lo chiamavano ‘o poeta per via della sua innata verve a comporre versi, in qualunque occasione. Quando in famiglia c’era un evento importante, i familiari gli chiedevano una frase da scrivere su un biglietto d’auguri o da declamare durante una cerimonia. Tutto ciò lo faceva sentire importante. E ancora più importante iniziò a sentirsi quando, a scuola, prima i compagni di classe e poi anche i professori, venuti a conoscenza delle sue qualità poetiche, lo avvicinavano per chiedergli qualche verso da dedicare a una ragazza o a un ragazzo, a una donna o a un uomo, a un figlio o a una figlia.

Tutto andò per il verso giusto fino a quando non iniziò a lavorare. L’impatto con la realtà lavorativa gli svelò quanto fossero distanti tra loro il mondo del lavoro e quello della poesia. Se da un lato i colleghi lo cercavano perché scrivesse loro brevi frasi da riportare sui bigliettini d’auguri, dall’altro i titolari, temendo che lui sacrificasse il lavoro per la poesia trascinando anche gli altri, lo sorvegliavano nemmeno fosse il peggiore dei criminali. E non appena si presentò l’occasione per poter tagliare il personale senza incorrere nelle maglie della giustizia, il primo che fecero fuori fu lui.

Mentre i familiari e i gli amici si preoccupavano del suo futuro, lui sembrava non darci peso. Anziché impegnarsi nella ricerca di un nuovo lavoro, trascorreva giornate intere a passeggiare per le vie della città guardandosi circospetto intorno alla ricerca dell’ispirazione, fissando su di un quadernetto che portava nella tasca dei pantaloni i pensieri che gli sovvenivano. Non aveva alcuna difficoltà a ispirarsi in una bella donna che incrociava per strada, in un barbone ubriaco sdraiato sul marciapiede o in una torma schiamazzante di ragazzi che giocavano a per strada.

La sua presenza discreta e nello stesso tempo tangibile per via del suo fisico possente – era alto un metro e novanta e aveva un fisico da culturista, pur non avendo messo mai piede in palestra – per le vie dei quartieri, in particolar modo quelli dove la malavita era radicata, inizialmente suscitò preoccupazione al punto che le “vedette” lo seguivano come un’ombra temendo che fosse un Killer di un clan rivale o un infiltrato della polizia.

Quando fu chiaro a tutti che non era né l’uno né l’altro, ma solo uno “spostato”, uno che non ci stava con la testa, che scriveva poesie mentre camminava, tutti iniziarono a guardarlo con simpatia. Qualcuno addirittura iniziò a volergli bene.

Essendo una persona istruita qualcuno gli propose di dare lezioni ai ragazzini dei quartieri. Lui fu ben felice di fungere da istitutore e iniziò a collaborare con la parrocchia e con le associazioni di volontariato per il recupero dei ragazzi a rischio.

Tutto andò per il meglio fino a quando il figlio di un boss che seguiva con costanza le sue lezioni non iniziò anche lui ad appassionarsi alla poesia in maniera viscerale divenendo la sua “ombra” durante le sue lunghe e solitarie passeggiate che faceva per i vicoli.

Una mattina due uomini dai tratti somatici cruenti lo avvicinarono nei pressi di un bar e lo invitarono a seguirli. Intuendo che non poteva rifiutarsi, seppure a malincuore, ubbidì. Lo condussero in una palazzina dalla facciata fatiscente. Salirono la scalinata dagli enormi lastroni in pietra ed entrarono in un appartamento enorme, arredato in stile moderno che stonava con l’esterno sgarrupato dell’a’edificio. Era la residenza del boss del quartiere che lo attendava seduto su un trono dalle bordature di oro zecchino

<<Benvenuto, prufessò>>.

<<Grazie>>.

<<Prufessò, a me nun piace perdere tiempo, dunque vi spiego subito perché siete qui>>.

<<Posso immaginarlo>>.

<<Ah, sì? Me fa piacere, accussì mi risparmiate ‘e perdere tiempo: vuje ‘a cca ve n’ata i’!>>.

<<Perché a vostro figlio piace la poesia?>>.

<<Pe’ meza vostra, mio figlio nun se sape fa rispettà!>>:

<<Vostro figlio ha un animo nobile, ha la poesia nel cuore>>.

<<E ‘sta cosa nun va bene>>.

<<Perché?>>.

Il boss scese dal trono, gli si fece incontro, lo prese per il braccio e lo portò davanti a un enorme specchio ovale.

<<Che vedite dinto ‘o specchio?>> domandò.

<<Voi e io>>.

<<Sulamente chesto?>>

<<Che altro dovrei vedere?>>

<<Na perzona elegante e nu pezzente!>>

<<Il pezzente sarei io?>>

<<E chi, sennò? Guardate comme site cunciate: tutto spuorco, paretite nu barbone!>>

<<L’abito non fa il monaco>>.

<<E chi l’ha ditta ‘sta strunzata?>> Il boss scoppiò a ridere, una risata grassa. <<Prufessò, l’abito fa il monaco pecché quand’ l’ommo veste elegante significa ca tene e sorde>>.

<<Per voi contano solo i soldi nella vita?>>

<<Pecché, ce sta coccosa cchiù importanete de’ sorde?>> Tacque e osservò a lungo le loro immagini riflesse nello specchio. <<Prufessò, nun voglio ca mio figlio fa ‘a stessa fina vostra. A ccà ve n’ata i’!>>.

<<Se mi rifiutassi?>>.

<<Significa ca teneti curaggio, ca ‘a morte nun ve fa appaura!>>.

<<Perché dovrei temere di morire? La morte è solo un cambiamento di stato, l’anima è immortale.>>

Il boss lo fissò a lungo. <<Dunque nun ve ne volete andare?>>

<<No!>> rispose deciso.

<<E va bene>>. Il boss si rivolse ai due guardaspalla che gli avevano portato il poeta. <<Accompagnate il signore alla porta>>.

Quando fu in strada il poeta tirò un lungo respiro. Poi si incamminò tra i vicoli. Era così preso dai suoi pensieri che non si avvide della motocicletta che sopraggiungeva alle sue spalle a folle velocità. Si voltò solo quando sentì il rombo assordante riecheggiargli nelle orecchie. Fu un attimo. L’ultima cosa che vide fu la motocicletta piombargli addosso e sbalzarlo lontano dopo un volo durante il quale gli passò davanti tutta la vita.

I funerali furono fatti con una colletta degli abitanti del quartiere. La chiesa era stracolma. A celebrare il rito funebre fu lo stesso prete che segnalava al poeta i ragazzi da recuperare.

<<Chiunque abbia fatto questo, non immagina il male che ha arrecato a se stesso. Antonio era un sant’uomo. E quando si toccano i santi, si tocca Dio. E Dio non solo è amore ma è anche vendetta!>> disse concludendo la sua omelia.

Alcuni giorni dopo i funerali, il boss iniziò a sognare il poeta demaclargli le sue poesie in maniera ossessiva. Quel sogno diventò un incubo tanto che il boss non riusciva più a dormire.

Stanco e spossato dalla vita insonne, il boss una mattina chiamò suo figlio.

<<Da domani sostituisci il poeta>>.

<<In che senso?>> domandò il ragazzo incredulo.

<<Ti occuperai tu di insegnare a leggere e a scrivere ai ragazzi del quartiere. Se davvero hai la poesia nell’anima, come lui diceva, non ti sarà difficile sostituirlo>>.

<<Sei stato tu!>> mormorò fissando il padre con lo sguardo iniettato di sangue. <<Sei stato tu a ucciderlo! Perché?>>.

<<Le domande non servono a niente. Da domani tu prenderai il suo posto>>.

<<Sì, ma a una condizione>>.

<<Quale?>>

<<Indosserò i suoi abiti!>>

Il boss lo fissò a lungo in silenzio. <<Va bene>> disse alla fine.

Quando il figlio andò via, il boss si avvicinò al mobile alle sue spalle. Aprì un cassetto, prese la pistola che vi era custodita, se la puntò alla tempia e tirò il grilletto. Lo sparò riecheggiò nella casa, ma lui era ancora vivo.

Con la pistola tra le mani si parò davanti allo specchio. Il vetro non rifletteva la sua immagina.

<<Ma allora sono morto>> mormorò tra i denti.

<<No, non sei morto>>. Il poeta apparve al suo fianco. <<Te l’avevo detto, la morte è solo un cambiamento di stato. L’anima è immortale.>> Con lo sguardo indicò il corpo riverso sul pavimento in una pozza di sangue.

<<E ora che succederà?>> domandò il boss fissando il proprio cadavere.

<<Nulla. Fortunatamente ti sei lasciato intimorire dal sognarmi ripetutamente e alla fine hai messo da parte le tue reticenze e la tua prosopopea, permettendo a tuo figlio di seguire la sua strada. Ti sembrerà strano ma con questo gesto hai salvato te stesso. Ma non basterà per garantirti una vita serena nella prossima esistenza>>.

<<Cosa devo fare?>>

<<Andare in sogno a tutti quelli che erano ai tuoi ordini e infondere nelle loro anime pensieri d’amore>>.

<<Pensi davvero che basterà loro sognarmi per abbandonare il crimine?>>.

<<I sogni sono il linguaggio dell’anima. Tu coltiva i loro sogni con messaggi d’amore e vedrai come cambieranno strada.>>

<<Grazie!>> mormorò il boss.

<<Non devi ringraziare me ma te stesso!>>

<<Me stesso?>> domandò incredulo.

<<Anche tu da ragazzo, come tuo figlio, sognavi di essere un poeta, ma poi il tuo sogno lo hai chiuso a chiave nel cassetto perdendolo di vista.>>

<<Sì, è vero, mio padre mi impose di diventare un boss come lui e non ho mai più né scritto né letto poesie.>>

<<Ma la tua anima il tuo sogno da ragazzo non lo ha mai perso di vista e, con tua moglie avete concepito vostro figlio, quel sogno lo ha trasfuso in lui perché si realizzasse.>>

Il boss sorrise.

<<Te l’ho detto>> continuò il poeta <<l’anima non muore mai e con lei i nostri sogni. La morte non esiste, è solo un cambiamento di stato. Così come quando, dopo morti, ritorneremo a vivere in nuovi corpi, così i nostri sogni cambieranno di stato realizzandosi nelle vite successive o attraverso noi stessi o mediante i nostri figli. Gli uomini non sono altro che sogni in eterna espansione in quanto la vita non è altro che un sogno infinito.>>

Detto ciò sia lui che il boss si dissolsero come nebbia al sole.

Il nuovo giorno stava per nascere, un nuovo sogno stava per cominciare.