INTERVISTA ALLA SCRITTRICE CLARA CECCHI

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Di seguito l’intervista integrale pubblicata su comunicaresenzafrontiere

Clara Cecchi, scrittrice e poetessa fiorentina, è molto apprezzata soprattutto in rete grazie alla collaborazione con diverse testate on line tra cui GIORNALE WOLF fondato e diretto da Clementina Gily e COMUNICARE SENZA FRONTIERE.

Negli ultimi tempi si è rivelata un affidabile editor collaborando alla revisione di due romanzi e a una raccolta di racconti. Laureata in Lettere e Filosofia, è esperta di letteratura femminile. Alcuni suoi racconti e poesie sono stati premiati in diversi concorsi letterari e pubblicati in antologie. Impegnata nel volontariato, insegna italiano ad adulti e bambini in una scuola per stranieri nel quartiere dove vive.

Quando pubblicherà un libro tutto suo?

Spero presto. Il problema è riuscire a trovare il tempo e le condizioni adatte affinché questo sogno che ho da tempo si possa realizzare.

Com’è possibile che una scrittrice come lei, cui tanti riconoscono un’alta qualità di scrittura, non abbia pubblicato ancora nulla di suo?

Le risposte potrebbero essere molteplici. Credo che alla base vi sia la mia soddisfazione di proporre qualcosa che davvero meriti d’essere pubblicato. Ciò sicuramente deriva dal mio essere una persona piuttosto esigente quindi, leggendo e rileggendo i miei scritti, trovo sempre da correggere, tirandolo alla lunga. E poi trovare un ambiente che ti permetta di pubblicare non è molto semplice.

Con “ambiente” a cosa si riferisce?

Un ambiente letterario in genere: ci sono tantissimi aspiranti scrittori più o meno validi che vorrebbero pubblicare e le case editrici disposte a rischiare non sono tante, per cui non è molto facile.

Lei ha partecipato e vinto a diversi premi letterari sia con i racconti che con la poesia: le riesce meglio scrivere in prosa o in versi?

Amo entrambi: la poesia mi viene più spontanea in determinati momenti della vita, quando mi è più difficile raccogliere le fila dei miei pensieri. Il racconto presuppone un’attenzione e un tempo maggiore: strutturare una trama, portarla avanti fino alla quadratura del cerchio richiede tempo e fatica. La poesia è invece immediata, una sorta di scatto fotografico.

Lei si è laureata in Lettere e Filosofia con una tesi su Anna Banti, scrittrice fiorentina scomparsa agli inizi degli anni ottanta. Inoltre so che predilige leggere per lo più scrittrici: perché questa predilezione alla letteratura di genere?

Prima di tutto vorrei specificare “letteratura femminile” e non “ per donne” in quanto c’è una certa differenza…

Non parliamo di Harmony o Liala…

No, pur essendo una lettrice onnivora per cui leggo di tutto, dal fumetto all’Harmony appunto. Però quando si parla di letteratura femminile, mi riferisco a una letteratura “al femminile”. Ossia una letteratura che tratti problemi legati alla condizione della donna nella società in cui vive. Questo mi è nato perché già al liceo quando si facevano i cosiddetti seminari attivi all’interno della scuola mi sono spesso impegnata in attività e ricerche che riguardassero la condizione femminile. All’epoca mi interessai della condizione delle casalinghe e con un amico andavo per strada a intervistare le donne con il suo vecchi registratore Philips, chiedendo loro come si svolgesse la loro vita, cosa gli mancasse, cosa avrebbero voluto… A volte i mariti le strattonavano via perché non avevano piacere che le mogli parlassero dei loro problemi di donna. Al di là di queste cose che risalgono agli anni settanta, quando poi sono andata all’università ho avuto questo desiderio di approfondire il mondo femminile in tutti i suoi aspetti e chiesi una tesi sull’argomento. Successivamente ho sempre continuato ad approfondire il mondo femminile non solo nella letteratura occidentale ma allargandomi a quella di altri paesi per capire come determinati problemi fossero vissuti in diverse parti del mondo

Quali sono le autrici a lei più care?

A parte la Anna Banti che è la mia scrittrice del cuore, mi piacciono le scrittrici sudamericane che trovo più affini al mio carattere. Ad esempio Isabella Allende, Marcela Serrano. Oppure le scrittrici inglesi o irlandesi.

Tuttora è in atto una discussione su Oriana Fallaci, fiorentina come lei, cosa ne pensa?

Per quanto mi riguarda, la Fallaci è una questione controversa. Inizialmente l’ho adorata – mi sono commossa e ho pianto leggendo LETTERE A UN BAMBINO MAI NATO, e mi è molto piaciuto UN UOMO. Non mi sono riconosciuta nell’Oriana dell’ultimo periodo, in particolare per certe sue idee secondo me troppo estreme, seppure le avesse maturate in base a sue esperienze personali. Non giriamoci intorno, tutti conosciamo le polemiche che sono sorte a seguito di alcune sue posizioni sull’immigrazione per intenderci…

So che a Firenze ci furono molte controversie riguardo la Fallaci

Sì, si crearono fazioni pro o contro addirittura per dedicarle una via dopo la sua scomparsa. Diciamo che l’ultima Fallaci mi ha lasciata molto perplessa. Quell’aspetto di intolleranza che traspare chiaramente dai suo ultimi testi mi hanno suscitato molti dubbi.

Lei insegna italiano agli stranieri, pensa che questa esperienza possa servirle come scrittrice?

In parte sì. Ho insegnato molti anni fa in scuole per stranieri. Quello che sto facendo oggi è volontariato in una scuola del quartiere dove abito. Sicuramente è interessante dal punto di vista linguistico, mi è sempre piaciuto studiare l’etimologia delle parole e la costruzione pulita delle frasi. Penso che da ciò derivi la mia passione per la revisione dei testi. Ma quello che più mi appaga è lo scambio culturale con queste persone che avviene mediante le conversazioni che facciamo in classe accomunando idee e tradizioni di culture diverse. Questo lo trovo soddisfacente!

Quando ci delizierà con una sua opera?

Spero presto. Sono presa da tante cose per cui non ho molto tempo da dedicare alla scrittura. Meno male che dormo poco per cui la notte riesco a scrivere con continuità, trovando la concentrazione necessaria.

Qual è il sogno di Clara Cecchi?

Diventare una scrittrice vera!

 

Vincenzo Giarritiello

ANTONIO MANNO E LE SUE “STORIE” ALL’ART-GARAGE DI POZZUOLI

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Di seguito la versione integrale dell’intervista pubblicata su comunicaresenzafrontiere

Pozzuoli: Sabato 13 aprile, per la rassegna ARTinGARAGE, curata da Gianni Biccari, all’Art Garage di Pozzuoli – Parco Bognar 21, adiacente alla stazione Metropolitana FS – si è inaugurata la mostra fotografica “STORIE”, di Antonio Manno.

L’esposizione durerà fino al 3 maggio e sarà visitabile dal lunedì al venerdì dalle 10 alle 22; il sabato dalle 10 alle 20; domenica chiusa. Ingresso libero.

Per l’occasione abbiamo intervistato l’autore.

Antonio quando hai scoperto la passione per la fotografia?

All’età di sedici/diciassette anni ho iniziato i primi timidi approcci. Poi a ventidue anni ho avuto l’opportunità di andare a lavorare a La spezia e in quei luoghi di una tale bellezza, come Le Cinque Terre e i tanti borghi marinari, per me sconosciuti, ho iniziato a fotografare per mostrarli ai parenti e agli amici quando tornavo a Napoli. Ovviamente non mi limitavo a fotografare i luoghi ma tra i miei soggetti rientravano anche le persone.

La tua mostra qui all’Art Garage si intitola STORIE, esattamente che tipo di storie?

Le storie della gente! Credo che dietro a ogni ritratto o scena che ritrae l’ambiente di lavoro o di vita di una persona ci sono tante storie. Principalmente la sua storia e quella di chi vive con lei, familiari o amici. Cercare di raccontarle attraverso uno sguardo, uno scatto. Ma anche attraverso il conoscersi prima di scattare la fotografia in quanto credo che prima dell’istantanea debba nascere un rapporto di fiducia tra il soggetto e chi lo ritrae.

Che tipo di approccio utilizzi per fotografare gli sconosciuti?

I miei scatti non sono i cosiddetti “scatti rubati”, non mi piace fotografare di nascosto una persona! Anche perché “rubare” una foto significa che il soggetto non sta guardando in camera e, come dice Ferdinando Scianna, “il ritratto è quando uno ti guarda”. Personalmente chiedo sempre alle persone se posso fotografarle e difficilmente mi rispondono di no. Forse perché ho un bel modo di avvicinarle…

Tu vivi di fotografia o di tutt’altro?

Sono impiegato civile presso il Ministero della Difesa, faccio il tipografo dall’età di dodici anni. Praticamente non ho mai smesso.

Auspichi di poter vivere un giorno di fotografia o preferisci rimanga un hobby?

Premesso che è difficile vivere di fotografia, a meno che non ti dedichi alle foto di cerimonia, mi piacerebbe che la mia fotografia fosse riconosciuta nel tempo. Non mi interessa arricchirmi con la fotografia, per quanto i soldi siano molto importanti, ma vorrei lasciare un’impronta di me come fotografo, anche se ciò accadesse negli anni a venire.

Preferisci fotografare solo in bianco e nero o alterni anche con il colore?

Fotografo anche a colori, ma credo che la vera fotografia sia in bianco e nero. Il colore, come molti sostengono, e io mi associo, distrae tanto: l’occhio di chi guarda si perde nelle sfumature cromatiche. Nel bianco e nero invece è il soggetto che catalizza lo sguardo del pubblico. Ovviamente ci sono poi foto che ad alcuni possono dire molto e ad altri nulla, sia fossero a colori o in bianco e nero, ma è un fatto squisitamente soggettivo che però non va trascurato.

Sei solito trattare le foto con Photoshop o preferisci lasciarle così come sono?

Se la foto mi convince così com’è, non la ritocco. Diversamente utilizzo Photoshop. Va però detto che essendo Photoshop un programma infinito, io ne conosco l’utilizzo solo per il 4-5%. Ossia per quello che mi serve a trattare una fotografia come quando si stampava in camera oscura.

Riguardo i soggetti da fotografare, hai preferenze o spazi senza confini?

Guardando le foto esposte ti accorgi che i soggetti ritratti sono per lo più persone anziane, ossia individui che secondo me hanno molto da raccontare avendo vissuto tanto. E poi, rispetto a un adolescente o a un trentenne per i quali l’apparenza ha un valore primario, una persona anziana non ha nulla da mascherare e dunque si mostra così com’è, senza “veli” fisici e morali.

Nelle tue foto risaltano molto le rughe sui volti dei soggetti, che cosa rappresentano per te le rughe?

Un fatto, una storia. Credo che le rughe siano la scrittura dell’esistenza umana. Verso di loro nutro una sorta di riverenza, ma non mi sognerei mai di ritoccarle per marcarle. Se lo facessi è come se alterassi un bel romanzo.

Da quando il digitale ha spodestato l’analogico, continui a stampare come facevi un tempo o hai abbandonato?

No, non stampo più, i costi di una stampa digitale sono abissali! Seppure pare che lentamente stia ritornando la moda del rullino in bianco e nero e di stampare in camera oscura. Magari nel tempo tornerò a farlo anch’io. Per ora, no. Ma ammetto che il fascino di veder “nascere” una foto in camera oscura non te lo toglie nessuno, è come veder nascere un figlio!

Hai già scattato la “foto della vita”?

Ci sono dieci fotografie che amo più di tutte, che sento più mie. Ma preferisco non averla ancora scattata, questo è per me una grande motivazione per fare sempre meglio.

C’è un momento che avresti voluto immortalare con uno scatto e che invece hai omesso di farlo?

Tantissimi! Uno in particolare: nel 2007 sono stato ad Auscwitz. Uscendo da un blok ad Auswitz 1 vidi in un angolo di marciapiede quattro ragazzi seduti che piangevano. Fui tentato di scattargli una foto, mi trattenni per rispetto del dolore che stavano vivendo in quel momento. Magari, se l’avessi scattata, quella sarebbe potuta essere la foto della vita…

Qual è il sogno di Antonio Manno fotografo?

Una pubblicazione con le mie foto.

Questa è la prima mostra che fai?

La prima dopo più di dieci anni.

Perché la decisione di ricomparire in pubblico dopo tanto tempo? Cosa ti ha spinto a farlo?

Pubblico molto sui social; la mia pagina Facebook è accessibile a chiunque in quanto credo che la fotografia, ma penso che il discorso possa estendersi a qualsiasi forma d’arte, vada condivisa. Per cui le mie foto, seppure virtualmente, sono sempre visibili da tutti. Ma stamparle, toccarle, vederle esposte un metro da me, per giunta in questo formato, mi fa sentire bene. È una bella scarica di adrenalina!

Progetti per il futuro?

Mi godo il momento!

 

Vincenzo Giarritiello

ANTONINO TALAMO: COME TRASFORMARE IL CORPO IN STRUMENTO DI PERCUSSIONE

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Di seguito la versione integrale dell’articolo pubblicato su comunicaresenzafrontiere

Pozzuoli – Serata dai ritmi intensi, tipicamente sudamericani, quella che si è svolta sabato 13 aprile da Lux In fabula: per QUATTRO CHIACCHIERE CON L’AUTORE, il multipercussionista Antonino Talamo, classe 1978, ha presentato il libro BATUQUE NA MAO, vero e proprio manuale per utilizzare il proprio corpo come strumento di percussione da suonarsi rigorosamente con le mani.

Contrariamente a quanto si potrebbe presumere vista l’apparenza frivola dell’argomento, in maniera molto professionale l’artista, che ha alle spalle un bagaglio di esperienze musicali di tutto rispetto – nel 2000 ha fatto parte del gruppo LA CONTRADA DI LUCIANO RUSSO; dal 2006 coordina il laboratorio di percussioni corporali BATUQUE NA MAO, da cui appunto il titolo del libro; dal 2012 al 2018 ha collaborato con la manifestazione teatrale ALTOFEST; nel 2017 con IL POZZO E IL PENDOLO e I DUELLANTI; nel 2018 con DIGNITA’ AUTONOME DI PROSTITUZIONE a Cinecittà – ha spiegato ai presenti in sala come fare per trasformare il proprio corpo in strumento di percussione e come ciò consenta agli individui un’ulteriore scoperta di se stessi.

Illustrando quali modalità adottare per far sì che i vari organi e arti del corpo – gambe, braccia, torace, bocca – si prestino all’utilizzo musicale, Talamo ha altresì spiegato che tale approccio corporale è un’ottima premessa empatica con il prossimo in quanto la consapevolezza che il corpo fisico possa prestarsi a un utilizzo diverso da quello canonico presuppone un approccio mentale di notevole elasticità; quindi coloro che riescono a entrare in questa logica altresì sono capaci di comunicare tra loro con particolare intesa essendo accomunati da una visione alternativa e alta del proprio corpo rispetto alla visione comune.

Nel suo libro Talamo non si limita semplicemente a darci delle indicazioni tecniche, ma coglie l’occasione per aprirci un varco in un mondo a noi del tutto ignoto, di stampo tipicamente sudamericano, per lo più brasiliano, con ripetuti e affascinanti richiami magici, che meriterebbe d’essere sondato con profondità e rispetto.

Attraverso il suo libro il musicista ci dice come fare!

 

Vincenzo Giarritiello

“IO SILANO…CHI SONO?” GUGLIELMO MOSCHETTI RACCONTA IL SUO ROMANZO DA LUX IN FABULA – POZZUOLI

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Serata davvero particolare quella di sabato 6 aprile nella sede di Lux In Fabula, a Pozzuoli, dove si è presentato il romanzo IO SILANO… CHI SONO? di Guglielmo Moschetti, edizioni GM.

 

Poliziotto in pensione con la passione della scrittura, prima di entrare nel merito del testo, l’autore ha tracciato in maniera certosina il proprio passato professionale, illustrando ai presenti i propri successi investigativi con l’ausilio di un filmato composto da un collage di foto e articoli di giornali dell’epoca relativi alle varie operazioni di polizia cui Moschetti ha preso parte durante la lunga carriera di poliziotto, spesso servendosi dell’intuito.

Con fare appassionato l’autore si è soffermato su ogni singolo fotogramma, raccontando nei dettagli l’operazione di polizia cui si riferiva, citando i colleghi e i superiori che vi avevano partecipato, dimostrando tra l’altro una memoria di ferro.

Tale premessa introduttiva gli è poi servita per spiegare il motivo per cui è nato il libro e i tanti altri che ha scritto, tra cui diversi manuali dell’ABC investigativo per quanti decidessero di diventare guardia giurata.

In tutte le sue opere, sia saggi che narrativa, Moschetti ripropone sempre uno spaccato del proprio passato professionale a dimostrazione che un autore, quando crea, non può prescindere dal trarre ispirazione dalla vita.

Appassionato di fantascienza, in particolare delle opere di Peter Kolosimo, Moschetti ha trasposto nel romanzo, oltre al suo passato di poliziotto, la passione per la fantascienza dando vita a un thriller fantascientifico il cui protagonista, Silano, è un agente al soldo di un’agenzia per la sicurezza del pianeta da cui riceve ordini telepaticamente: “Inviato a Napoli per una nuova missione” Silano si imbatte in un uomo che sta per suicidarsi….

Il romanzo, caratterizzato da una scrittura fluida e da una trama ben strutturata, è un susseguirsi di colpi di scena con un finale a sorpresa.

Buona Lettura!

Vincenzo Giarritiello

ANTONIO IOVINO SI RACCONTA: “IL GRUCCIONE”, UNA STORIA LUNGA OLTRE 100 ANNI

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A seguire l’intervista integrale all’imprenditore Antonio Iovino, titolare dell’agriturismo IL GRUCCIONE, pubblicata su comunicaresenzafrontiere.it

Per quanti amano gli agriturismi segnaliamo IL GRUCCIONE, sito a Pozzuoli in Via San Gennaro 63; tel. 0815206719. Posizionato sulla sommità della collina delimitante la strada che da Napoli si inerpica all’Accademia Aereonautica di Pozzuoli per poi declinare a capofitto verso il capoluogo flegreo, Il Gruccione si affaccia, all’esterno, sul mare, offrendo un panorama da sogno e, all’interno, sul cratere di Agnano.

Oltre a gustare i piatti tipici della tradizione flegrea e Puteolana cucinati con prodotti autoctoni, i clienti hanno l’opportunità di assaggiare l’ottimo vino delle Cantine Antonio Iovino, acquistabile presso il punto vendita aziendale unitamente a tutta una serie di prodotti agricoli di rigorosa produzione locale. Per conoscere il segreto del successo di questa realtà economica flegrea, abbiamo intervistato il proprietario Antonio Iovino.

 

Come nasce IL GRUCCIONE?

Nasce dopo un lungo percorso di lavoro familiare protrattosi per oltre un secolo. La mia famiglia produce vino dal 1892. Prima mio nonno e poi mio padre producevano il cosiddetto “vino del contadino”: producevamo uve di Piedirosso e Falanghina che successivamente imbottigliavamo completando la filiera vinicola. Nel 2003 il sottoscritto ha imbottigliato la prima bottiglia di vino DOC Antonio Iovino. Ho il marchio DOC dei Campi flegrei e rientro nel disciplinare del DOC dei Campi Flegrei, per cui il marchio è registrato. Abbiamo iniziato prima con l’attività vitivinicola, poi si è affiancata quella agricola con la semina di prodotti di stagione. Da qui è nata l’idea di affrontare la sfida legata all’agriturismo, cucinando i nostri prodotti e abbinandoli alle pietanze del nostro menù.

Le vostre ricette sono tipiche dei Campi Flegrei o “toccate” anche altre realtà culinarie?

Per quanto ci riguarda siamo legatissimi al territorio flegreo, quindi ci preoccupiamo di attenerci scrupolosamente alla tradizione flegrea. Nello stesso tempo abbiamo dato vita a una cucina rivisitata, che di base si attiene a quella del territorio, adattandola a modo nostro. Ad esempio, quando è il periodo dei mandarini, ci siamo inventati uno spaghetto con mandarini e alici del golfo di Pozzuoli che è una bontà, glielo assicuro!

Pozzuoli e i campi flegrei richiamano al mare: la vostra cucina tratta solo piatti di terra o anche di mare?

Come lei vede le nostre terrazze si affacciano non solo sul golfo di Pozzuoli ma anche su quello di Napoli. Per cui in ambito culinario siamo fortunati perché possiamo offrire pure piatti di pesce, ma esclusivamente pesce azzurro. Ossia pesce povero e del golfo di Pozzuoli: alici, parametro, cozze flegree abbinandoli ai nostri prodotti agricoli.

Il pesce lo proponete in qualunque stagione o solo in determinati periodi dell’anno?

Solo in periodi particolari e con il pescato consentito del Golfo di Pozzuoli!

Quindi se uno volesse venire da voi per gustare un piatto di pesce deve venire in estate…

Sì perché quello è il periodo delle cozze, delle alici puteolane e del parametro.

Tra i tanti prodotti tipici del territorio flegreo, negli ultimi tempi si sta riscoprendo la cicerchia, voi la trattate?

La cicerchia è un legume tipicamente bacolese. Noi siamo legati alla tradizione puteolana, trattiamo altri tipi di legumi, ad esempio il fagiolo piccolo dei campi flegrei.

Suo figlio Giuseppe è chef: la decisione di estendervi dalla produzione vinicola alla ristorazione è una conseguenza della scelta professionale di suo figlio, oppure Giuseppe ha preso spunto dall’evoluzione dell’azienda di famiglia?

Essendo giovane mio figlio ha tratto spunto e vantaggio dall’iniziativa imprenditoriale che abbiamo intrapreso a livello familiare. Da anni faccio parte di un’associazione nazionale della Coldiretti. Provenendo da una famiglia contadina, anche mio figlio ha nell’animo la passione per la terra ed è stato eletto nella Coldiretti come un agri-chef. Inoltre è vicepresidente regionale degli agriturismi campani.

Sul lago d’Averno avete rilevato uno storico vigneto che apparteneva a un glorioso marchio di vini flegrei che purtroppo non esiste più, cosa producete?

Prima di rispondere, faccio una premessa: i nostri vigneti sono tutti storici e rientrano in un disciplinare speciale della regione Campania. Siamo tre le prime dodici aziende storiche della Campania! Il vigneto del lago d’Averno cui lei si riferisce è un vigneto antico su cui sono piantate viti di 80/100 anni fa. Purtroppo una storica cantina che ha fatto da apripista nel settore dei vini flegrei ha chiuso e io ho voluto rilevare quei vigneti perché non morissero e continuassero a dare l’ottimo vino che tutti conoscono.

Voi producete solo Piedirosso e Falanghina o anche altri tipi di vini?

Esclusivamente Piedirosso e Falanghina DOP dei Campi Flegrei. Se lei prende una bottiglia del nostro vino “Cantine Iovino Antonio”, sull’etichetta leggerà, “prodotto all’origine”. Significa dalla vite alla bottiglia finita. Noi non compriamo uva, né commercializziamo vino e quant’altro. I prodotti che offriamo ai nostri clienti sono tipici del territorio e di nostra esclusiva produzione! I nostri vini hanno partecipato a importanti fiere, distinguendosi sempre per l’alta qualità: siamo stati al Vinitaly, al ProWine di Dusseseldorf, a Radici del sud a Bari. Lo scorso anno, tramite l’ambasciata italiana presso il Parlamento Europeo a Bruxelles, in occasione della festa della Repubblica Italiana, gli europarlamentari italiani, incluso il Presidente Tajani, hanno brindato con il nostro Piedirosso annata 2016! Oltre a questa bella soddisfazione che attesta la qualità dei nostri vini, un ulteriore attestato di qualità lo abbiamo avuto da Gambero Rosso e da Guido Veronelli. Senza contare i tanti articoli su riveste specializzate che testimoniano la bontà e la tipicità dei nostri vini.

Voi qui nell’agriturismo avete anche un punto vendita, qual è il prodotto che va per la maggiore?

Ovviamente il vino e poi tutti i prodotti ortofrutticoli stagionali. Lei quando viene a fare la spesa da noi non troverà mai delle primizie, come spesso accade altrove. Noi seminiamo, raccogliamo e vendiamo in base ai tempi di semina e di maturazione richiesti per natura dai singoli ortaggi. Ad Aprile abbiamo seminato il pomodoro puteolano e quello vesuviano con il pizzo. A marzo abbiamo seminato le zucchine che inizieranno a sbocciare verso giugno.

Quali sono i progetti per il futuro?

Migliorarci sempre come azienda vinicola in quanto anche il vino, come tutte le cose della vita, è in continua evoluzione. Rispetto ad altri marchi standardizzati nella loro produzione, annata per annata i nostri vini cambiano in quanto, essendo come azienda legati moltissimo al territorio e al clima, la nostra produzione vinicola è soggetta a questi fattori. Penso che il rispetto con cui ci rapportiamo alla natura, non forzandola nella maturazione, ma rispettandone i tempi di semina e germogliazione, garantisce la bontà dei nostri prodotti. Noi non sottomettiamo la natura alle nostre esigenze commerciali forzandola, bensì ci affidiamo completamente a lei. I nostri prodotti riflettono gli umori della terra. Devo dire che fino a oggi siamo stati ben ripagati!

Qual è il sogno di Antonio Iovino?

Che questo territorio, uno dei più belli al mondo, si sviluppasse turisticamente anziché limitarsi a essere transito obbligato per chi va alle isole, facendo conoscere finalmente nel mondo la bellezza dei campi flegrei!

Vincenzo Giarritiello

RELAZIONE TENUTA AL CONVEGNO “POZZUOLI E’ MEMORIA”

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Di seguito la relazione che ho tenuto venerdì 4 aprile al convegno POZZUOLI E’ MEMORIA, nell’ambito della rassegna “Giovedì Letterari al Museo del Mare” in svolgimento al MMN (Museo del Mare di Napoli).

Il video integrale del mio intervento.


Da ragazzino mi piaceva molto ascoltare le storie risalenti all’epoca della seconda guerra mondiale. In particolare mi piacevano quelle in cui si narrava di persone che avessero fatto qualcosa di speciale, ma di cui si era persa ogni traccia, le quali mi diventavano familiari grazie alla potenza affabulatrice dei narratori, quasi sempre i nonni. Pur conoscendole a memoria quelle storie, non appena mi si presentava l’occasione, chiedevo di raccontarmele di nuovo. Se mi si rispondeva “ma già la conosci”, replicavo, “mi piace, voglio sentirla ancora”.

Negli anni ho maturato la convinzione che ogni individuo, per quanto umile fosse la sua condizione sociale, ha un’interessante storia personale da raccontare. L’importante è trovare chi sappia raccontarla e il mezzo per diffonderla.

In virtù di ciò, quando Carla De Ciampis e Fulvio Mastroianni mi proposero di collaborare con “Comunicare Senza Frontiere”, il loro sito web, accettai a patto che mi fosse concessa l’opportunità di dare voce non solo a persone di un certo spessore culturale e sociale, ma anche a quelle comuni. Fu così che mi inventai il ciclo di interviste che va ormai avanti da quasi un anno, durante il quale ho intervistato non solo artisti di professione tipo gli scrittori Davide Morganti e Nando Vitali, i registi Maria Di Razza e Sandro Dionisi, il cantautore Nicola Dragotto, la geologa Ann Pizzorusso autrice di TWITTANDO DA VINCI, una sorta di Codice Da Vinci in chiave scientifica, Gaetano Bonelli fondatore e curatore del Museo di Napoli,  il maestro d’arte Antonio Isabettini e Rosario Mattera, questi ultimi entrambi al nostro tavolo questa sera, solo per citarne alcuni senza far torto a tutti gli altri, ma anche a chi si diletta artisticamente o è impegnato nel volontariato, il cui operato passa sotto traccia perché non riesce a trovare i canali giusti che gli garantiscono la meritata visibilità e dunque la possibilità di lasciare nel tempo un’impronta di ciò che ha fatto al di là delle contingenze quotidiane.

Questo fu uno dei motivi per cui con Claudio Correale e Enzo Di Bonito decidemmo di dar vita alla rassegna QUATTRO CHIACCHIERE CON L’AUTORE. A essa hanno partecipato persone che svolgono tutt’altra professione per vivere, ma sono accomunate dalla passione per l’arte a trecentosessanta gradi. Si va da chi ama scrivere a chi dipinge, a chi fotografa, a chi si preoccupa di mettere in risalto aspetti storici del territorio ignoti ai più. È il caso di Aldo Cherillo che tenne un’interessantissima conferenza sul lago d’Agnano prosciugato pochi anni dopo l’unità di Italia, ma la cui esistenza è tutt’oggi testimoniata dallo sbocco a mare presso il Dazio di Bagnoli di un rigagnolo di acqua termale che per oltre un chilometro scorre sottoterra in un canale artificiale proveniente dalle terme di Agnano, inglobando lungo il suo percorso gli scarichi di molti edifici abusivi sorti negli anni, traducendosi in fogna, affogando la storia nella…

Poiché due più due fa quattro, approfittando della mia collaborazione con Comunicare Senza Frontiere, mi assunsi l’impegno di tenere una cronaca completa della rassegna, evento per evento, senza escludere di intervistare qualcuno dei protagonisti.

In breve ciò si sta rivelando di un’efficacia straordinaria per garantire visibilità ai partecipanti grazie alla condivisione attraverso i vari social, Facebook in primis, degli articoli e delle interviste fatti da me.

Contrariamente a quanto si pensa, i vituperati social non sono esclusivamente strumenti da aborrire a prescindere in quanto si prestano a un utilizzo sconsiderato, spesso criminale, da parte di molti frequentatori. Come qualsiasi strumento, la loro funzione è neutrale. A determinarne la “tendenza”, è sempre chi se ne serve.

È per me motivo di gioia, dopo aver pubblicato e condiviso un pezzo, essere contatto dai diretti interessati per ringraziarmi. La felicità che percepisco nella loro voce o la gioia che traspare dai loro sguardi mi ripagano ampiamente dell’impegno profuso nell’offrirgli una piccola vetrina.

Ancora oggi tante persone guardano con sufficienza o addirittura con scherno chi si adopera culturalmente, definendolo un illuso o addirittura un fallito. In pochi immaginano quanta fatica costi scrivere un raccontino di mezza pagina o una breve poesia che abbiano un senso. Pochi sono in grado di apprezzare l’impegno di chi dipinge o di chi fotografa. Oppure la tenacia e la pazienza di chi fa ricerche al fine di riportare alla luce e tenere viva la storia del territorio.

Il lavoro che sto svolgendo lo considero una sorta di archivio in cui raccolgo gli articoli e le interviste sia in rete che su carta, riproponendoli integralmente sul mio blog e stampandoli per poi conservarli in faldoni, affinché non vadano dispersi e dimenticati.

Il lavoro sinergico con Lux In fabula  e Comunicare Senza Frontiere è finalizzato non solo a far conoscere e dare voce a quanti a livello amatoriale si impegnano artisticamente e culturalmente, ma anche a lasciare nel tempo una testimonianza tangibile del loro lavoro.

Entrando nel merito del valore artistico dei protagonisti, personalmente mai stroncherò chi pratica l’arte per puro diletto seppure fosse evidente che non è  portato: praticandola a mia volta, so bene quanto valore abbiano il sostegno e l’incoraggiamento morale degli altri quando si decide di rendere pubbliche le proprie creazioni.

È vero, fare cultura è una cosa seria, e sicuramente c’è chi, pur non avendo un particolare talento artistico, si ostina a voler praticare l’arte a ogni costo in quanto facendolo trova una ragione di vita. Stroncare senza “se” e senza “ma” lo ritengo privare una persona della fiducia in se stessa, della speranza e della dignità, rischiando di gettarla in un baratro senza fondo da cui difficilmente risalirà.

A chi non ha le qualità necessarie per essere un nuovo Picasso, un nuovo Dante o un nuovo Henri Cartier-Bresson non si deve mai dire “lassa sta’, nun è arta toia!”. Bisogna invece spronarlo, dicendogli “bravo, si vede che hai talento. Affinalo con lo studio e con la pratica e vedrai che alla lunga anche tu otterrai dei buoni risultati!”.

Ovviamente così facendo si corre anche il rischio di imbattersi in chi invece pensa d’essere un novello Michelangelo o D’Annunzio, e, se solo ti permettessi di dargli dei consigli o di fargli delle annotazioni garbate per aiutarlo a crescere artisticamente, ti guarderà risentito dall’alto in basso come se tu non capissi a quale genio ti trovi davanti.

Chi si impegna con umiltà nel fare qualcosa di costruttivo per sé e per gli altri, a mio avviso va sostenuto sempre. Non gli si devono mai tarpare le ali, seppure vola basso. Offrirgli un supporto che gli garantisca di lasciare una traccia nel tempo di sé credo possa incentivarlo a coltivare e ad affinare il talento e, dunque, ad alimentare propria la crescita interiore perché diventi una persona migliore.

Nell’epoca attuale in cui c’è sovrabbondanza di mezzi di comunicazione, è paradossale che si dia spazio sempre ai soliti “noti”. Metterne qualcuno a disposizione anche degli “sconosciuti” affinché ci si possa ricordare di loro e di ciò che fecero, credo debba essere un dovere della società multimediale qual è la nostra.

Dare voce e visibilità a chi non riesce a ottenerle è quello che cerchiamo di fare con questo nostro lavoro.

Speriamo di riuscirci!

DA LUX IN FABULA, SERATA DEDICATA AL FOTOGRAFO ALDO ADINOLFI

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Pozzuoli. Sabato 30 marzo, per la rassegna QUATTRO CHIACCHIERE CON L’AUTORE, da Lux In Fabula il fotografo Aldo Adinolfi ha proiettato una serie di foto digitalizzate divise in tre categorie. Si è iniziato con quelle che ritraevano i pescatori di Pozzuoli.

Quindi si è passati a scatti riguardanti i tanti viaggi compiuti da Aldo per il mondo insieme a un gruppo di amici storici, tra cui lo studioso Enzo Di Bonito. Per finire con una vera e propria chicca: foto scattate durante lo sgombero del Rione Terra agli inizi degli anni settanta quando aveva poco più di quindici anni.

Seppure la fotografia sia per Aldo un’incontenibile passione – chi lo conosce, difficilmente può immaginarselo senza la macchina fotografica appesa al collo – egli ha iniziato il suo lavoro nella pubblica amministrazione proprio come fotografico per conto dell’ufficio dei Beni Culturali, ritraendo strutture architettoniche. Successivamente spostato in altri ambiti, si è dedicato alla fotografia come passatempo, facendo reportage di viaggio in cui ha ritratto gli indiani d’America dal New Mexico al Canada. Oppure i luoghi della terra Santa.

Nei suoi scatti Adinolfi predilige immortalare i volti delle persone, essendo la fotografia nata proprio con questo intento.

Per essendo umile e schivo, Aldo ha affrontato la serata con il piglio giusto, spiegando la genesi di ogni scatto con dettagliata precisione, soffermandosi finanche sui tempi di esposizione utilizzati per ogni singolo scatto che commentava.

Alla domanda se fosse “un nikonista o un canonista”, nel senso se amasse fotografare con una Nikon o con una Canon, non ha esitato a rispondere “nikonista”; spiegando che la Nikon nasce come fabbrica di macchine fotografiche, mentre la Canon inizialmente produceva accessori: “Tuttora è possibile adattare gli obiettivi di una vecchia Nikon alle attuali digitali, mentre per ogni Canon devi comprare quegli appositi!”.

La serata si è conclusa con un gradito buffet offerto dall’artista.

 

Vincenzo Giarritiello

 

FEDERICO RIGHI E LE SUE FOTO SUI VIAGGIATORI DELLA CUMANA ESPOSTE A POZZUOLI

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Pozzuoli: Sabato 30 marzo, per la rassegna ARTinGARAGE curata da Gianni Biccari, all’Art Garage di Pozzuoli – Parco Bognar 21, adiacente alla stazione Metropolitana FS – si è inaugurata la mostra fotografica “I FLEGREI: a state of mind”, di Federico Righi. L’esposizione si protrarrà fino al 12 aprile e sarà visitabile dal lunedì al venerdì dalle 10 alle 22; il sabato dalle 10 alle 20; domenica chiusa.

Per l’occasione abbiamo intervistato l’autore.

Federico la tua mostra si intitola, “I FLEGREI: A STATE O THE MIND”, ossia “i flegrei: uno stato mentale”, cosa vuoi esattamente intendere con ciò?

Viaggio moltissimo nei treni della cumana che, soprattutto quelli vecchi, evocano dei pensieri che riportano all’epoca del grand tour. Riallacciandomi al discorso del grand tour ho immaginato i flegrei non come un popolo, ma come una condizione mentale che fosse la stessa di chiunque a quell’epoca venisse nei campi flegrei e restava affascinato respirandone l’aria, ammirandone i colori e i sapori, emozionalmente rapito dai sussulti della terra, come accadde a Goethe durante il suo viaggio in questi luoghi.

Quindi una condizione mentale inconscia…

Sì, ma che si riflette nei volti, negli sguardi delle persone. Secondo me il flegreo è una sorta di dio sceso in terra che, qualunque cosa gli accada, ha la forza di reagire, di combattere, di ricominciare.

I tuoi scatti sono rubati, o coordinati con i soggetti ritratti?

I miei scatti seguono la scia della street photography che, secondo me, è la vera fotografia, ossia immortalare l’istante. Non a caso Cartier Bresson diceva, “la fotografia è il momento decisivo”. Occhio, cuore e mente si devono trovare sulla stessa linea dell’obiettivo e devono scattare quel momento anziché un altro. Io credo di aver abituato il mio occhio a guardare i movimenti degli sguardi delle persone e aver raggiunto una condizione tale da percepire quando è l’istante in cui posso scattare per coglierne l’essenza da imprimere per sempre sulla foto.

Ti è mai capitato che qualcuno si sentisse infastidito dall’essere fotografato?

Una sola volta e, ascoltate le ragioni, ho accettato di cancellare la foto dalla memoria.

La tua passione nasce da ragazzino o è maturata nel tempo?

Il primo scatto l’ho fatto con la macchina di papà a cinque anni. A undici già sviluppavo le mie fotografie. Quindi ho abbandonato per poi riprendere da grande seguendo il mio maestro Augusto De Luca, fino a tagliarmi un mio spazio al punto da essere riconosciuto dalla comunità fotografica.

Vivi di fotografia?

No, sono un funzionario dello stato. La fotografia è un hobby, se così si può dire, che mi ha dato e mi sta dando tante soddisfazioni.

Questa è la tua prima mostra?

Come personale, sì. In passato ho partecipato a diverse collettive. Faccio anche installazioni, come ad esempio quella di Aversa contro la violenza sulle donne che ebbe un buon seguito.

Che cosa rappresenta per te la fotografia?

Un elemento che porta il ricordo. La fotografia cristallizza l’istante rendendolo eterno! E poi è uno strumento per la documentazione per cui ha tante sfaccettare che spaziano dal reportage, alla narrativa, alla storia.

Prossimi progetti?

Le foto qui esposte mi sono valse il PREMIO AUTORE REGIONE CAMPANIA e hanno determinato che il prossimo congresso FIAF, federazione italiana associazioni fotografiche, si svolgesse al MAN di Napoli. E poi ho in preparazione diversi cose che vedranno la luce nei prossimi anni.

In bocca al lupo

Crepi!

Vincenzo Giarritiello

AMEDEO CARAMANICA PRESENTA IL SUO NUOVO LIBRO “I DINAMICI SFIGATI DI BAGNOLI”

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A margine l’intervista integrale pubblicata su comunicaresenzafrontiere 


Pozzuoli, Venerdì 29 marzo presso la LIBRERIA MEDEA di Marco Bellavista, si è presentato il romanzo I DINAMICI SFIGATI DI BAGNOLI di Amedeo Caramanica, edito da PAOLO LOFFREDO. Professore d’italiano in pensione, Caramanica è un arzillo ottantatreenne allegro e disponibile, dallo sguardo furbo, con cui è un piacere conversare.

Prima dell’inizio della serata gli abbiamo posto alcune domande sulla sua attività di scrittore.

Professor Caramanica come nasce I DINAMICI SFIGATI DI BAGNOLI che si presenta questa sera?

Scrivo da più di quarant’anni. Fino a quando la casa editrice Loffredo non ha chiuso, ho scritto libri per la scuola. Contemporaneamente scrivevo testi teatrali, per lo più commedie. Poi ho iniziato a scrivere spy story in cui non tralasciavo di inserire una venatura di poliziesco, mia vera grande passione. Un giorno, mentre ero in metropolitana, nel treno salì un gruppo di poliziotti in borghese che iniziarono a prendersi in giro: quelli che dedussi erano di Napoli etichettavano simpaticamente come sfigati i colleghi di Bagnoli. Così nacque l’idea di quest’ossimoro “i dinamici sfigati”.

Professore ci parli un attimo dei testi teatrali che ha scritto.

Ne ho scritti più di una trentina e sono stati letti da Nino Taranto, dai fratelli Giuffrè i quali mi hanno scritto, spingendomi a continuare in questa mia passione. Addirittura, prima che morisse, mi scrisse perfino Eduardo De Filippo. Seppure non sia riuscito a sfondare in questo settore, i miei testi sono stati rappresentati da tante compagnie amatoriali. Io stesso ne dirigo una.

Da ragazzo quali erano i suoi scrittori preferiti?

La mia formazione è di natura classica. Da ragazzo ho letto Verga, Manzoni, Pirandello, i classistici latini e greci da cui ho poi tratto l’indirizzo per la mia scrittura che si fonda sulla frase “miscere utile dulci”, mescolare l’utile al dolce, cui alla fine deve seguire la catarsi, ossia il lettore deve capire che tra il bene e il male chi vince è sempre il bene.

Per il suo romanzo si è rifatto ai Bastardi di Pizzofalcone di Maurizio De Giovanni?

Pur avendo letto tantissimi autori di polizieschi, Andrea Camilleri e Maurizio De Giovanni sono quelli che mi hanno attratto per il loro modo di impostare le storie in maniera diretta, senza fronzoli, tanto da prestarsi a una successiva trasposizione televisiva che non snaturasse l’essenza della trama e dei personaggi. Ovviamente tra i film e i romanzi preferisco questi ultimi perché la lettura è un coinvolgimento diretto mentre la visione di un film, per quanto possa coinvolgerti emotivamente, alla fine è comunque distaccata. La visione di un film ipnotizza lo spettatore, rendendolo schiavo di ciò che vede e ascolta. Invece la lettura obbliga la mente a ragionare tenendola viva!

Prima dei dinamici sfigati, quali altri libri ha scritto?

Ho scritto una decina di testi scolastici. In particolare mi sono dedicato alla storia e ho pubblicato quattro corsi di storia. Ricordo con piacere che quando scrissi I PASSI DELL’UOMO, spronato dai colleghi affinché scrivessi un libro in un linguaggio comprensibile ai ragazzi delle scuole medie visto che fino e allora i libri di testo erano scritti da pressori universitari o delle superiori, il libro fu il terzo in assoluto come vendite in tutta Italia, su trentacinque testi, distinguendosi proprio per il linguaggio semplice comprensibile agli alunni delle medie.

Quando decide di scrivere un poliziesco, la storia, la trama e, soprattutto, il finale ce li ha già in mente o si manifestano man mano che scrive?

Vado passo passo perché il lettore, mentre legge, deve provare le stesse emozioni da me provate mentre scrivevo. Ovviamente una struttura di base in mente già ce l’ho, ma solo quando inizierò a scrivere saprò come si svilupperà l’intreccio. Diciamo che mi affido al momento…

Dobbiamo aspettarci un seguito dei dinamici sfigati?

Probabilmente sì…

Vincenzo Giarritiello

ANN PIZZORUSSO, UNA GEOLOGA SULLE TRACCE DI LEONARDO DA VINCI

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Pubblichiamo l’intervista integrale apparsa su comunicaresenzafrontiere

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A seguito della presentazione del suo saggio TWITTANDO DA VINCI avvenuta sabato 23 marzo da Lux In Fabula, a Pozzuoli, abbiamo intervistato l’autrice, la geologa americana Ann Pizzorusso la quale ci ha accolto nella sua bella casa al Petraio con vista sul golfo di Napoli.

Dopo un caffè e una chiacchierata informale in cui ci siamo piacevolmente confrontati sui rispettivi interessi culturali, scoprendo di averne molti in comune, siamo entrati nel vivo dell’intervista.

“Twittando Da Vinci” può essere definito una sorta di Codice Da Vinci in chiave saggistica, dove si suppone che in alcuni suoi dipinti, nel caso specifico LA VERGINE DELLE ROCCE, Leonardo abbia voluto lanciare un messaggio occulto legato alle influenze che determinati minerali e luoghi specifici avrebbero sugli individui, comprensibile solo a chi possiede la chiave di decrittazione. Quando le è venuta questa intuizione?

È difficile rispondere. Essendo geologa, i miei studi vertevano esclusivamente su quest’argomento. Di storia dell’arte non sapevo assolutamente niente, così come non conoscevo l’italiano. Tuttavia la mia formazione professionale e la mia curiosità mi hanno spinta a studiare tutti i disegni di Leonardo in cui compaiono particolari geologici, sentendo poi la necessità di scrivere sulle rocce che lui ritraeva nei suoi dipinti. Scrissi per circa tre ore senza nemmeno rendermi esattamente conto di cosa stessi annotando. Alla fine mi avvidi di aver messo su carta le mie convinzioni che Leonardo fosse anche un geologo poiché le rocce che disegnava erano caratterizzate da una tale minuzia di particolari che solo un geologo poteva registrare. La cosa straordinaria fu che un giorno, cadendo dalla libreria, un libro si aprì nella pagina dove era ritratta LA VERGINE DELLE ROCcE esposta a Londra. Osservando il quadro pensai che l’autore non potesse essere Leonardo giacché le rocce ritratte non erano reali, diversamente da quelle che fino allora avevo visto in altri suoi quadri. Misi a confronto il quadro esposto a Londra con quello che è a Parigi e scoprì che quest’ultimo è un capolavoro di minuzie geologiche. Mostrai le foto dei due quadri ad alcuni amici geologi i quali convennero con me che c’era un’enorme differenza tra di loro. A quel punto mi misi in contatto con un critico d’arte a Londra e gli esposi la mia teoria. Dopo aver osservato i due quadri in base alle mie indicazioni scientifiche, anche lui convenne che quello di Londra poteva non essere opera di Leonardo. Quindi mi rivolsi a James Beck che all’epoca era uno dei massimi esperti di storia dell’arte il quale mi disse, “sono vent’anni che vado dicendo che il quadro esposto a Londra non è di Leonardo!”. Lui lo diceva in rapporto a tutta una serie di particolari stilistici che differenziano i due dipinti, io lo sostenevo per il modo diverso in cui erano ritratti i particolari geologici. Unendo i due pareri, si amplificava tale convinzione!

Quando ha scoperto che nel quadro esposto a Parigi Leonardo aveva riprodotto in maniera esatta particolari geologici, s’è chiesta perché lo avesse fatto?

Credo fosse per un motivo di propaganda religiosa. Lui stava dipingendo la Vergine delle Rocce per i Francescani i quali erano in conflitto con i domenicani. Leonardo ha scelto di ritrarre la Vergine nella grotta perché simbolicamente questo luogo è un simbolo di fertilità femminile. Lui voleva dipingere il quadro ma senza entrare a far parte del conflitto tra i due ordini. Leonardo sapeva perfettamente che da millenni la grotta era associata al grembo femminile e a tutto ciò che ne deriva. La vergine delle rocce racchiudeva il trionfo del simbolismo, della generosità e della scienza naturale. Lui ha messo tutto insieme!

Lei ha trovato difficoltà che la sua tesi fosse accettata in campo accademico?

No! Diversamente dalla storia dell’arte che poggia sulle opinioni, la mia è una ricerca su basi scientifiche, dunque incontrovertibili. Io mi sono limitata a fare notare un aspetto derivante dalle mie conoscenze di geologa, tutto il resto lo lascio agli studiosi di storia dell’arte. Osservando i due dipinti, quello di Londra e quello di Parigi, ci si accorge che sono completamente diversi l’uno dall’altro. Durante un congresso di geologi a Frasassi cui parteciparono i più grandi geologi del mondo, diversamente dai loro interventi molto schematici e ortodossi, quando toccò a me parlare, li invitati a guardare le grotte con occhi diversi, inserendo nella mia relazione non solo la storia dell’arte ma perfino la metafisica. Loro mi ascoltarono esterrefatti perché gli mostrai un approccio diverso alla scienza che fino a quel momento non avevano affatto considerato. Parlai loro di Dante e della Divina Commedia, dei luoghi dove anticamente si riteneva vi fosse l’accesso agli inferi; del culto dell’acqua e dello stillicidio che era un rituale con cui gli antichi raccoglievano in enormi vasi le gocce d’acqua che cadevano dalle stalattiti perché quell’acqua aveva davvero poteri taumaturgici, come hanno poi dimostrato analisi di laboratorio, in quanto ricca di minerali e di particolari batteri. Nello stesso tempo le donne andavano in questo luogo per passarsi l’acqua sul seno ritenendo che in quel modo aumentavano la formazione di latte materno, questo perché il colore dell’acqua dello stillicidio è bianco come quello del latte. Queste caverne erano chiamate non a caso lattaio. Tutte cose che fino a quel momento i miei colleghi geologi non avevano considerato, ma che sono nate con l’uomo a dimostrazione che gli antichi avevano un bagaglio di conoscenze, seppure istintive, che noi abbiamo completamente perso, che non possono essere trascurate dalla scienza.

Possiamo dire che lei è riuscita a colorare di poesia un argomento algido, privo di emozioni?

Potremmo, certo. Ma ci tengo a precisare che il mio non è assolutamente un lavoro di fantasia, anche se credo che la scienza debba rapportarsi, per quanto sia possibile, allo stato di coscienza degli antichi per comprendere il perché si comportassero come se la terra fosse una creatura vivente, una divinità, una Madre! La metafisica mi piace, ma non mi sono mai azzardata a superare il confine che separa la realtà dalla fantasia proprio perché non voglio correre il rischio di alterare la verità con supposizioni errate. La scienza è matematica!

So che sta scrivendo un libro sugli etruschi: perché quest’amore per un popolo tanto misterioso di cui, ancora oggi, si sa poco o niente?

Quando ho iniziato a studiare per scrivere il mio libro mi sono resa conto che gli etruschi erano molto legati alla natura e alla terra. Qualunque cosa dovessero fare, prima di incominciarla, interpretavano i segni della natura come lampi e tuoni. Prima di edificare un tempio o una città, i sacerdoti benedicevano la terra e tracciavano segni sul terreno per delimitare esattamente dove costruire. Gli etruschi prestavano molta attenzione al volo degli uccelli giacché erano conviti che fossero molto sensibili ai campi magnetici in quanto, come poi la scienza ha dimostrato, hanno al centro della testa un cristallo di magnetite che gli consente di allontanarsi da un luogo per poi ritornarvi con precisione. Quando lessi che la terra ha campi magnetici positivi e negativi in grado di influenzare nel bene o nel male la salute e il comportamento degli uomini, chiesi a un amico di ingrandirmi una mappa geomagnetica dell’Italia, evidenziando i luoghi in cui gli etruschi avevano edificato le loro città. Quando fu fatto, osservando la mappa, rimasi scioccata: tutte le città etrusche furono edificate in zone dove le energie magnetiche erano negative e che, stando a un recente studio scientifico, sono in grado di influire positivamente sugli uomini!

Ascoltandola mi verrebbe da dire, “i veri primitivi non erano loro, i nostri progenitori, ma siamo noi”…

Probabile. Vede, l’era ipertecnologizzata in cui viviamo, paradossalmente, ha fatto sì che molte facoltà mentali dell’uomo si atrofizzassero, rendendolo istintivamente inferiore rispetto all’uomo antico il quale la natura non la sfruttava o la violentava, ma la rispettava sentendosi parte integrante con essa!

Quando sarà pronto il libro sugli etruschi?

Per il prossimo anno.

Allora ci diamo appuntamento al 2020…

Ok, l’aspetto!