L’Alchimia secondo Jung

L’Alchimia secondo Jung

Quando si parla di alchimia in molti infastiditi storcono perché ritengono l’argomento un’insulsaggine.

A dire il vero tutti i torti non hanno visto che per secoli, anzi per millenni, l’alchimia ha rappresentato uno dei sogni irrealizzati e irrealizzabili dell’uomo: tra(s)mutare il piombo in oro mediante un lungo e laborioso processo di laboratorio che prevede la fusione e la distillazione dei metalli.

Chiuso nel suo laboratorio, avvolto dai vapori che si di diffondevano dalle storte e dagli alambicchi posti sui fornelli in cui cuocevano gli elementi da cui ricavare la materia prima da porre nell’athanor, il forno degli alchimisti, per ottenere l’oro, l’alchimista conduceva una vita di solitudine e speranze vane, ponendosi alla mercé di truffatori pronti a sfruttare la sua credulità per arricchirsi alle sue spalle proponendogli formule e pietre misteriose che, se correttamente praticate e usate, gli avrebbero consentito la realizzazione del suo sogno.

Nonostante ciò solo il fatto che di alchimia se ne parli da millenni – secondo alcuni il termine alchimia deriverebbe dall’antico egitto per indicare la terra nera di quelle zone, secondo altri sarebbe invece di origine araba, al-kimia, la chimica – indicherebbe che l’alchimia è molto più di una chimera (un sogno irrealizzabile non può durare in eterno com’è invece il caso dell’alchimia). Se unitamente a ciò consideriamo i grandi uomini che nel corso dei tempi se ne sono occupati – Tommaso d’Aquino, Raimondo Lullo, Nicolas Flamel, Isaac Newton, Gianbattista della Porta, Giordano Bruno per citarne alcuni –, è evidente che non è da trascurare la probabilità che l’alchimia non fosse solo una chimere ma qualcosa di molto più serio non alla portata di tutti.

Certo c’è chi sostiene di essere riuscito nella realizzazione materiale del piombo in oro, ad esempio l’alchimista che si firmava Fulcanelli. Tuttavia anche Fulcanelli nelle sue opere – Il mistero delle cattedrali e Le dimore filosofali – lascia intendere che l’opera è molto complessa e per realizzarla lui ci impegò oltre trent’anni e alla fine ciò avvenne solo per volontà di Dio.

Secondo Eugène Canseliet, biografo e allievo di Fulcanelli, il maestro la trasmutazione del piombo in oro l’avrebbe realizzata per davvero. Ma i dubbi che ciò fosse vero sono tanti. Anche perché, seppure stando alle attuali conoscenze, è possibile produrre l’oro in laboratorio, la quantità che se ne produrrebbe sarebbe talmente irrisoria e richiederebbe dei costi notevoli per cui non varrebbe la pena impegnarsi in un’operazione del genere.

Come sarebbe stato possibile a Fulcanelli, vissuto a cavallo tra XIX e il XX secolo, operare la trasmutazione del piombo in oro visto gli alti costo, le elevate conoscenze e, soprattutto, l’imponente tecnologia che ciò richiedeva?

Non sarebbe molto più probabile invece che Fulcanelli avesse realizzato la Grande Opera, come viene definita la realizzazione alchemica, in rapporto alla propria persona, elevandosi dallo stato di uomo a quello di Super Uomo in termini psicologici tanto cari a Nietzsche?

Di alchimia se ne è occupato in maniera approfondita anche lo psicologo Carl Gustav Jung il quale all’alchimia e ai suoi simboli ha dedicato anni di studi, pubblicando due interessanti volumi, Psicologia e Alchimia e Mysterium Coniunctionis. Nel primo Jung confronta le immagini di quattrocento sogni di alcuni suoi pazienti con quelle che accompagnano i testi di alchimia. Nel secondo, invece, prende in esame l’unione degli opposti, ossia la capacità dell’individuo di accettarsi, integrando in sé quell’aspetto della propria personalità che rinnega anziché accettarlo come parte imprescindibile di sé.

In questa logica il rapporto maschio/femmina sarebbe rappresentato dall’unione della coscienza con l’inconscio/anima. Ciò determinerebbe uno hiero gamos, matrimonio sacro, dove dall’unione del Re con la Regina (la coscienza e l’inconscio/anima) nasce il figlio sacro, il rebis, che racchiuderebbe in sé la natura maschile e quella femminile.

A seguito dei suoi studi Jung giunse alla conclusione che l’alchimia rappresentasse lo sviluppo interiore dell’individuo dallo stato inconscio a quello cosciente, armonizzando lentamente il proprio io con il mondo esterno attraverso un percorso di studi dove la filosofia assume un ruolo apicale.

Citando uno dei tanti testi alchemici Jung propone un brano in cui si esortano gli individui a leggere e rileggere i testi alchemici, seppure inizialmente risultasse difficile comprenderli, perché il segreto dello svelamento dell’arcano starebbe proprio nella costanza con cui ci si approccia allo studio che, alla lunga, in maniera del tutto inconscia attiverà nello studioso dei meccanismi interiori rendendolo sempre più vicino alla comprensione dei testi e dunque allo svelamento del mistero rappresentato da se stesso.

La purificazione interiore avverrebbe attraverso la lettura dei testi di filosofia la cui funzione, com’è noto, consiste nel contribuire alla crescita interiore dell’individuo. Tale processo psicologico lo troveremmo rappresentato nel dogma dell’Immacolata Concezione dove, diversamente da quanto si crede, con il termine concezione non si indicherebbe il concepimento di un figlio da parte della Madonna senza commettere peccato, bensì l’acquisizione di un pensiero puro che darà vita all’Uomo Nuovo. In questa logica la Madonna rappresenterebbe la conoscenza sacra i cui dettami consentirebbero all’uomo di elevarsi a figlio di Dio.

Secondo Wikipedia il termine concepimento, sinonimo di concezione, deriva dal latino cum capere, cioè “accogliere in sé” o “prendere insieme” ed indica l’atto del concepire un figlio. Il prodotto del concepimento prende il nome di concepito. Tuttavia, come riferisce il vocabolario dei sinonimo e contrari Treccani, il termine concepire non è riferito soltanto al concepimento di un figlio ma anche ad accogliere nel proprio animo, nel proprio intelletto.

Attraverso la lettura e, soprattutto, attraverso lo studio alimentiamo in noi una concezione. Per cui è ovvio che leggendo e studiando testi il cui fine è quello di contribuire alla crescita interiore dell’individuo, alla fine ci riscopriremmo diversi da quello che eravamo prima che ci approcciassimo a essi.

Dunque il dogma dell’Immacolata Concezione si presterebbe a una seconda chiave di lettura: per diventare figli di Dio bisogna purificare il proprio pensiero. E ciò sarebbe possibile solo nutrendolo leggendo e studiando le opere dei filosofi, come appunto afferma più di un testo alchemico citato da Jung.

Secondo questa visione psicologica il laboratorio dell’alchimista sarebbe rappresentato dall’inconscio dello studioso il quale, attraverso le letture e lo studio della filosofia, attiverebbe in sé un processo di crescita interiore che alla lunga culminerà nella trasmutazione del piombo in oro, ovvero dell’individuo dallo stato umano a quello “divino”.

foto di copertina

ALLA RICERCA DELLA PIETRA FILOSOFALE: DAI TEMPLI EGIZI, ALLE CATTEDRALI GOTICHE, ALLA CAPPELLA DI SAN SEVERO

Nella nota introduttiva al suo romanzo NOTRE DAME DE PARIS datata 20 ottobre 1832, riproposta nell’edizione italiana del 1951 edita da Rizzoli, lo scrittore francese Victor Hugo, rivolgendosi ai lettori, commentando l’aggiunta nel romanzo di tre capitoli inediti, scrive: ecco finalmente l’opera sua intera, come la vagheggiò, come la fece, buona o cattiva, duratura o caduca, ma quale egli la vuole. I capitoli ritrovati avranno indubbiamente uno scarso valore agli occhi di quanti, molto giudiziosamente del resto, null’altro cercarono in Notre-Dame di Parigi se non il dramma e il romanzo. Ma, forse, ci sono altri lettori che non trovarono inutile indagare il pensiero estetico e filosofico celato in questo libro; persone che, leggendo Notre-Dame di Parigi, si sono compiaciute di scoprire sotto il romanzo qualcosa di diverso dal romanzo stesso, e di seguire, ci si consentano queste espressioni un po’ ambiziose, il sistema dello storiografo e lo scopo dell’artista, attraverso la creazione, quale che sia, del poeta.

Queste parole ci riportano alla memoria la terzina del canto IX-63 de L’Inferno de La Divina Commedia di Dante, che suona come un vero e proprio ammonimento ai lettori: O voi ch’avete li ‘ntelletti sani, mirate la dottrina che s’asconde sotto ‘l velame de li versi strani.

Prendendo spunto da questi versi molti autori, a partire dal 1800, hanno ipotizzato che Dante appartenesse a una società segreta, precisamente ai Fedeli d’Amore, e che la Beatrice de La Commedia, non fosse Beatrice Portinari, come tuttora ritiene l’ortodossia letteraria, bensì l’immagine umanizzata della conoscenza sacra proveniente da un remoto passato, che, svelata, rivelerebbe agli uomini verità nascoste sul reale destino dell’umanità in totale contrapposizione con quelle ufficiali divulgate dalla Chiesa.

Il primo che cercò di sondare il pensiero recondito ne La Didivina Commedia, ipotizzando che Beatrice non fosse affatto una figura di donna reale ma la maschera scelta da Dante per diffondere le proprie idee antipapali e eretiche, senza suscitare l’ira della chiesa, fu Gabriele Pasquale Giuseppe Rossetti il quale, tra il 1826/27, pubblicò COMMENTO ANALITICO ALLA “DIVINA COMMEDIA”; quindi nel 1842 LA BEATRICE DI DANTE-RAGIONAMENTI CRITICI.

Nella sue opere su Dante il Rossetti ipotizza che ne La commedia il poeta abbia adottato  un linguaggio criptico, comprensibile solo a chi appartenesse a quella specifica realtà politica e culturale cui egli aderiva, per scambiarsi messaggi e idee con gli altri affiliati a questo gruppo denominato Fedeli d’Amore.

Come accade sempre quando, rispetto a un’opera, si azzardano ipotesi contrastanti quelle ufficiali proposte e imposte dall’ortodossia accademica, il Rossetti si procurò non pochi nemici. Eppure la sua visione trovò l’apprezzamento di Giovanni Pascoli.

Altro autore che individuò un messaggio criptico nelle opere di Dante fu Ugo Foscolo. Nella prefazione del suo saggio IL LINGUAGGIO SEGRETO DI DANTE E DEI FEDELI D’AMORE, edito da LUNI EDITRICE, Luigi Valli scrive: Nel 1825 Ugo Foscolo, ponendo col suo genio su nuove basi l’interpretazione di Dante, gettati da parte i vecchi commenti, affermava limpidamente lo stretto legame fra La Divina Commedia e La Monarchia: affermava che La Commedia è pervasa da un profondo spirito rinnovatore politico e religioso, che ha un segreto contenuto mistico e profetico, che essa è una grande profezia esposta in un sistema occulto. 

Alla setta politico-religiosa dei Fedeli d’Amore, oltre a Dante, sarebbero appartenuti tra gli altri Guinizelli, Cavalcanti, Boccaccio e Petrarca per citare i più famosi. Ognuno di questi poeti avrebbe scritto le proprie poesie servendosi di un linguaggio criptico comprensibile solo a chi fosse dotato di conoscenze particolari e intuito necessari per la loro interpretazione. Tutti gli altri, leggendole, ne avrebbero colto solo il significato letterale e la bellezza dei versi che, bisogna dirlo, in alcuni casi, proprio perché la poesia era un messaggio criptato diretto agli affiliati, lasciava a desiderare.

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