INTERVISTA AL CANTAUTORE NICOLA DRAGOTTO

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A seguire l’intervista integrale pubblicata su comunicaresenzafrontiere

Sabato 2 marzo alle ore 21 presso ‘A PUTECA ‘E LL’ARTE (direttore artistico Vania Fereshetian), a Pozzuoli in via Provinciale Pianura 16, (di fronte la stazione di servizio BA.CO.GAS.), si terrà il concerto del cantautore Nicola Dragotto.

Per l’occasione gli abbiamo posto alcune domande sulla sua attività artistica.

Nicola sono trascorsi quasi due anni dalla pubblicazione del tuo primo disco L’ULTIMA CAUSA. In questo frangente cosa è cambiato in Nicola Dragotto artista?

Più che cambiato è maturato l’approccio verso la musica e un po’ verso il mondo che mi circonda. Penso di aver raggiunto una maggior maturazione e nello stesso tempo serenità nel rapportarmi con le problematiche esistenziali da cui trarre ispirazione e humus per le mie composizioni.

Dopo tanti anni in cui il tuo riferimento artistico è stato Giorgio Gaber – non a caso ti definivi cantattore – ti sei degaberizzato, come ti piace dire, dando spazio a te stesso: un’acquisizione di autostima o una scelta conseguente all’uscita del disco?

Gaber è stato un punto di partenza in quanto, riprendendo la mia strada artistica in età matura, avevo pensato bene di dedicarmi al teatro canzone per riannodare un filo conduttore col mio essere artista. Il degaberizzarmi è legato a un momento di presa di posizione nel volermi sentire cantautore nel senso classico della parola. Però devo dire che anche negli ultimi spettacoli che ho fatto sono riuscito a raggiungere quella che mi sembra la formula vincente: una via di mezzo tra cantautore e teatro canzone. Unisco, infatti, alle mie composizioni musicali anche dei monologhi tratti dai miei precedenti spettacoli e brevi incursioni di poesia con versi di Pasolini perché mai come oggi Pasolini si sta rivelando profetico, quindi mi è sembrato giusto onorare colui che è stato non solo un faro ma sicuramente uno dei maggiori esponenti della cultura italiana di tutti i tempi.

La tua parentesi con il Be Quiet ti ha maturato a livello artistico o dobbiamo considerarla semplicemente una parentesi professionale?

L’esperienza del BE Quiet è stata unica, irripetibile di per sé, perché ritrovarsi in un locale underground, una cantina, partire da là e nel giro di sette anni approdare a un palcoscenico come quello del teatro Bellini, ritengo sia una soddisfazione unica per chi ci ha creduto e per chi ha avuto la forza di andare fino in fondo. Però adesso, pur rimanendo il Be Quiet nel mio cuore, vivo un momento di ricerca artistica personale.

Pubblicamente, anche sui social, non ti fai scrupoli di attaccare in maniera diretta un certo mondo dello spettacolo come ad esempio, hai fatto,all’indomani della serata finale di Sanremo. Sulla tua pagina Facebook hai scritto, cito testuale: “Anche quest’anno è andata. Caro Sanremo, io sono fra quelli che davvero non ti hanno onorato. Lo so, sono un peccatore. Non sono venuto alla messa. Non mi sono confessato sui social, non ho invocato questo o quel vincitore e addirittura non ti giustifico come fenomeno di costume. Non trovo utile criticare i soggetti partecipanti, sia i nuovi che i vecchi colpiti dalla sindrome di Dorian Gray. Quello che sento di criticare è la perdita del coraggio. La bellezza, la forza e la profondità di un testo sono oggetto di ghettizzazione. I mecenati hanno lasciato il posto a miopi ed avidi imprenditori dell’usa e getta. Ci si è dimenticato dei poeti: la voce del popolo, l’incarnazione della identità, dell’appartenenza. Il problema non è emergere, quanto cercare di restare a galla senza diventare uno stronzo. Il vero problema è questo andare avanti tanto per andare mentre tutto si va spegnendo lentamente, un camminare senza senso e chi va controsenso in modo ostinato e contrario, trova la risposta a tutta questa follia imperante, nella sua sola solitudine…”

Io non attacco il sistema di per sé. Per chiarirci, artisticamente credo di essere stato sempre ironico ma moderatamente misurato ed oggetto, finora in positivo, della critica altrui. Quello che non sopporto è l’atteggiamento irriverente di taluni che vivono una subnormalità aculturale definendosi o peggio, venendo definiti da cannibali addetti ai lavori e da spettatori buoi, artisti o addirittura poeti. Per me la poesia è un momento sacro che si fa carne e sangue. Il poeta è un Atlante condannato a portare sulle spalle l’imbarazzante peso della memoria del suo popolo. Credo che oggi ci sia molto edonismo da parte di sedicenti poeti e l’aspetto più triste e preoccupante è che vengono definiti tali anche dalla pletora per lo più incolta di facebucchini, che confonde frasi lanciate troppo spesso ad capocchiam nel mare magnum di internet, con la poesia.

Tu sei consapevole che tenendo questo atteggiamento ti fai nemici nell’ambiente?…

Scusa, di che ambiente parliamo? Se ci riferiamo a quello artistico puro, credo che possano soltanto sposare le mie affermazioni perché non ne faccio una questione di superiorità ma di buongusto, di educazione e di rispetto verso coloro che devono ascoltarti e leggerti e comunque non ho mai pensato di condizionare il mio lavoro e il mio pensiero su ciò che può dire o pensare di me la gente.

Per ora L’ultima causa è stato il tuo unico disco, hai in programma di inciderne un altro?

Se trovassi una produzione volenterosa, disposta ad accogliere le mie divagazioni, ne sarei ben lieto. L’importante da parte mia è riuscire a coltivare sempre le parole giuste anche attraverso l’amore che mi viene contraccambiato per quello che cerco di donare dal mio cuore agli altri.

Nicola quanto incide la presenza della famiglia in questo tuo affrontare a viso aperto il mondo dello spettacolo?

La mia famiglia ha compreso le mie esigenze e mai come in questo momento, quando serve, mi è vicina sostenendomi. Diciamo che è passato il tempo in cui mi si chiedeva, mentre componevo, se i ceci dovessero essere cotti con l’aglio o con la cipolla. Ora la porta la si apre in silenzio e, se sto componendo, la si richiude, rimandando la domanda a data da destinarsi anche rischiando di restare digiuno!

Dallo spettacolo che il prossimo 2 marzo terrai a Pozzuoli, che Dragotto ci dobbiamo aspettare?

Il Dragotto di sempre: spontaneo, naturale, agrodolce. All’occorrenza sono critico, duro, ma anche molto irriverente verso me stesso. Quel che conta è divertirmi divertendo, invitando a riflettere e ridere di noi stessi, inventandomi il giusto registro per non annoiare chi ha deciso di investire su di me un paio di ore della propria vita.

Cosa vorresti che si dicesse di te, artisticamente parlando, quando non ci sarai più?

Ti rispondo alla Bukowski: uno stronzo di meno!

 

Vincenzo Giarritiello

DA LUX IN FABULA ELEONORA PUNTILLO, PROFESSIONE GIORNALISTA

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Di seguito la versione integrale dell’articolo pubblicato su comunicaresenzafrontiere

Sabato 9 febbraio presso Lux In Fabula, a Pozzuoli, nell’ambito della manifestazione Quattro Chiacchiere Con l’Autore, si è svolto l’incontro con Eleonora Puntillo. Giornalista dal 1961, nel corso di oltre cinquant’anni di attività ha collaborato con L’unità, Paese Sera, La Repubblica, Il Roma, Il Corriere del Mezzogiorno, Il Corriere della Sera e con la rivista Polizia e Democrazia partendo dal ruolo di cronista fino a rivestire quello di capo servizio e inviato.

In poco meno di due ore di chiacchierata, Eleonora ha raccontato svariati episodi della propria carriera giornalistica, iniziando dalla vicenda di Felice Ippolito da lei narrata nel libro FELICE IPPOLITO UNA VITA PER L’ATOMO edito da EDIZIONI SINTESI, in cui racconta dello scienziato Felice Ippolito che, per le sue vedute avveniristiche in campo energetico tese all’utilizzo dell’energia atomica, fu osteggiato e deriso dai poteri, politici e non, dell’epoca.

Stimolata dalle domande e dalle riflessioni del pubblico, commentando la funzione del giornalismo moderno, la Puntillo ha espresso il proprio parere sull’avvento di internet e del digitale; riconoscendo alle nuove tecnologie il merito di aver reso possibile a chiunque l’accesso alle notizie, ma nello stesso tempo stigmatizzandone l’abuso indiscriminato che a suo dire avrebbe svilito una professione “nobile” dando a chiunque la possibilità di fornire informazioni in rete spesso con l’intento di divulgare falsità al fine di confondere le idee al lettore.

Come si conviene a un giornalista di “vecchio stampo”, la Puntillo ha ammesso di essere rimasta indissolubilmente legata alla carta stampata raccontando di quando, inviata a seguire un processo a Salerno, la mattina prima di entrare in aula invitava i colleghi a fare un’abbondante colazione e di come questi invece si limitassero a prendere un caffè per entrare subito in sala, mentre ella si attardava al buffet mangiando di tutto e di più. Ciò comportava che a un certo orario tanti giornalisti, vittime dei morsi della fame, erano costretti a recarsi al bar per mangiare un cornetto “sereticcio”, perdendo l’anima della discussione processuale che proprio in quel momento entrava nel vivo. Viceversa lei, proprio in virtù dell’essersi saziata abbondantemente prima che iniziasse il dibattimento processuale, non essendo afflitta dalla fame, era in grado di raccogliere tutte le informazioni e al momento che dettava il pezzo comunicava dettagliatamente al giornale la notizia, a differenza degli altri colleghi i quali, preso atto di questa sua prerogativa, nei giorni a seguire incominciarono a spulciare alle sue spalle quando scriveva, approfittando della leggibilità della sua scrittura chiara e lineare. Per evitare che continuassero a copiare, essendo laureata in filosofia, iniziò a scrivere gli appunti in greco scalzando tutti.

Parlando dello sgombero del Rione Terra avvenuto il 2 marzo del 1970, e di cui tra due settimane si ricorrerà il 49° anniversario, la giornalista non ha potuto fare a meno di manifestare le proprie perplessità sull’effettiva necessità di quel provvedimento che non solo lei reputa quanto meno avventato.

Ascoltare la Puntillo raccontare della propria esperienza professionale è equivalso a presenziare a una lezione di giornalismo dove il professore ha spalancato senza filtri il proprio animo agli “allievi”.

Grazie Eleonora!

POZZUOLI: TOBIA IODICE PRESENTA IL SUO SAGGIO SU D’ANNUNZIO A NAPOLI

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A seguire la versione integrale dell’articolo pubblicato su comunicaresenzafrontiere.it

Piacevole serata venerdì 8 febbraio alla Biblioteca Comunale di Pozzuoli dove si è presentato il volume COME UN SOGNO RAPIDO E VIOLENTO di Tobia Iodice, edito da CARABBA: relatori Grazia Ballicu e Matilde Iaccarino; moderatore Antonio Alosco; in rappresentanza delle istituzioni Maria Teresa Moccia di Fraia Assessore alla cultura del comune di Pozzuoli.

Il libro, un saggio in chiave romanzata, narra il soggiorno di Gabriele D’Annunzio a Napoli tra il 1891 e il 1893: in fuga da Roma dove è pressato dai creditori che, alla sua partenza, gli depredano casa, il 31 agosto del 1891 il vate, uomo sconfitto, giunge in treno a Napoli.

Dopo i continui rifiuti dell’editore Treves a pubblicare L’Innocente ritenendolo un romanzo osceno trattando di un infanticidio, grazie alla pubblicazione in appendice dello stesso sul Corriere di Napoli fondato dai suoi amici Eduardo Scarfoglio e Matilde Serao, la figura di D’annunzio come autore e come uomo si riabilita agli occhi dell’opinione pubblica tanto che non sarebbe errato presumere che da Napoli parta la sua inarrestabile ascesa nell’empireo della poesia.

Amante delle donne e della bella vita che lo portano a essere perennemente a corto di danaro, anche a Napoli il poeta non esita a indebitarsi fino al collo attribuendo le cause della propria “sventura” finanziaria a chi gli suggerì di vivere al civico 9 di viale Elena, oggi viale Gramsci, attribuendogli l’etichetta di iettatore e non alla propria sventatezza nello spendere. Questo suo aspetto superstizioso lo spinge a frequentare gli ambienti occultistici di Napoli dove spicca la figura della medium Eusapia Palladino: D’annunzio partecipa ad alcune sedute spiritiche non tanto per sondare la presunta esistenza del mondo ultraterreno ma per avere un bel terno da giocare al lotto.

Narrando questo particolare peridio dannunziano, il volume di Iodice si avvale di una ricca documentazione storica, arricchita da lunghi spezzoni dell’epistolario tra D’annunzio e la sua amante romana Barbara Leoni a cui il poeta nelle sue quotidiane lettere giura eterno amore e fedeltà quando a Napoli aveva già intessuto la relazione con Maria Gravina, moglie del conte di Anguissola, da cui ebbe Renata la sua unica figlia, e altre liaison che ne rafforzano la fama di irresistibile seduttore.

Mentre nel suo intervento la Iaccarino ha tracciato un quadro pressoché completo dell’opera, soffermandosi su come nel libro si evinca un D’annunzio ottimo imprenditore di se stesso, capace di trovare i fondi necessari per la pubblicazione dei suoi libri, la Ballicu ha messo in risalto gli aspetti tecnici della scrittura di Iodice definendola “analitica e raffinata”, evidenziando il modo in cui l’autore tratteggia in maniera precisa i vari episodi narrati offrendo al lettore tutti i riferimenti affinché si faccia un’idea chiara di quanto avveniva.

Da fine storico qual è il professore Alosco non si è limitato a moderare il tavolo ma ci ha tenuto a precisare che, contrariamente a quanto si presume, D’annunzio non era affatto un nazionalista ma un radical socialista. A sostegno di questa sua considerazione l’illustre storico ha citato la Costituzione del Carnaro, scritta da D’annunzio e promulgata l’8 settembre del 1920 a Fiume, da tanti esperti ritenuta in assoluto la più bella Costituzione finora mai redatta.

Nel suo intervento conclusivo, dopo aver ringraziato il pubblico in sala, l’Assessore Moccia di Fraia ha supposto che durante il suo soggiorno napoletano D’Annunzio avesse visitato anche Pozzuoli, ricevendo assoluta conferma dall’autore a riprova che in passato anche il capoluogo flegreo era meta ambita degli ambienti culturali dell’epoca.

La serata si è conclusa con l’attore Marco Sgamato che ha letto in maniera intensa e coinvolgente alcuni passi del libro, supportato dal commento musicale del maestro Francesco Maggio.

Vincenzo Giarritiello

A POZZUOLI PRESENTATO “ARSENALE DI MEMORIE” DI IDA DI IANNI E MATILDE IACCARINO

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Di seguito la versione integrale dell’articolo pubblicato su comunicaresenzafrontiere.it


Pozzuoli.

Penso che chiunque abbia avuto la fortuna di assistere venerdì 1 febbraio nella sala convegni di De Gemmis a Pozzuoli alla presentazione di Arsenale Di Memorie, il libro scritto a quattro mani da Ida Di Ianni e Matilde Iaccarino per Volturnia Edizioni, sarà stato scosso in maniera positiva da un “arsenale” di emozioni grazie alla sincerità con cui le due autrici hanno raccontato la genesi dei rispettivi racconti che compongono il volume – LA BAMBINA AMERICANA Ida Di Ianni e DI MADRE IN FIGLIA Matilde Iaccarino.

Le storie, entrambe autobiografiche, narrano rispettivamente del complesso rapporto tra la Di Ianni e il padre, e Matilde e sua madre.

Il padre di Ida, figlio di quella società contadina arcaica dove l’uomo era il “padrone” e la donna la “serva”, quando la moglie stava per partorirla, organizzò in casa un buffet per brindare con gli amici alla nascita del maschio; cacciandoli via con rabbia quando gli fu comunicato che era nata “una bellissima bambina”.

Con le lacrime agli occhi, spesso interrompendosi per contenere l’emozione, la Di Ianni non ha esitato a condividere con il folto pubblico in sala momenti drammatici della propria esistenza. In particolare quello di questo padre/padrone che giunse a tinteggiare di scuro i vetri delle finestre di casa per impedire alla moglie di guardare fuori.

Un arsenale di memorie forti quello di Ida, addolcito dal ricordo di questa figura paterna invadente e possessiva che però, quando si presentò al colloquio con i professori di liceo, nonostante lei avesse già diciotto anni, non esitò a rivolgersi loro chiedendo “come va la mia bambina?”; dissolvendo in un attimo con quella frase amorevole tutto quel costrutto di autoritarismo che lo permeava, rivelando un animo estremamente dolce.

Il titolo del racconto della Di Ianni prende spunto dal periodo che lei e la sua famiglia vissero in America. Fase esistenziale anche quella non semplice in quanto nessuna delle donne di casa, a partire dalla giovane nonna, accettò il trasferimento oltre oceano.

Momento particolarmente forte della serata è stato quando Ida ha pubblicamente confessato di aver perdonato il padre solo nel momento in cui si ammalò e lei lo accudì facendogli da badante fino alla fine.

Non meno forte per impatto emotivo è stata Matilde Iaccarino parlando della genesi del proprio racconto, un dialogo scritto alcuni mesi dopo la scomparsa della madre con cui non aveva affatto un rapporto semplice ma alla quale deve la propria passione per i libri e il carattere forte e determinato.

Con malinconia l’autrice ha narrato l’episodio che gli raccontava spesso la mamma di quando, poco dopo la guerra, sua madre la portava a vedere il luogo in cui si rifugiavano per ripararsi dai bombardamenti. Indignata per la sporcizia e la promiscuità che lo caratterizzavano, come “risarcimento” pretese in regalo un libro. Da lì non smise più di leggere e i libri sono poi stati il collante per eccellenza attraverso cui lei e Matilde hanno comunicato durante il loro conflittuale rapporto: “hai letto questo libro? Cosa ne pensi? Dovresti leggerlo…”

Con orgoglio Matilde ha narrato che da ragazza la mamma era talmente ribelle da non farsi scrupoli da entrare da sola in un bar per prendere un caffè, suscitando l’indignazione della gente del posto che lo raccontava al padre. Quando questi si lamentò con la moglie, si sentì rispondere: “la ragazza l’ho fatta con due gambe per cui può andare dove le pare!”. Da quel momento “mio nonno non disse più niente!”

Come per la Di Ianni con il padre, anche per Matilde la scrittura ha funto da arcolaio su cui dipanare la matassa dei ricordi dando un senso alle ombre che offuscavano il rapporto materno; un mezzo per rielaborare non solo il lutto derivante dalla scomparsa della madre, ma per comprendere, mentre i ricordi fluivano sulla carta, che in realtà quei conflitti erano sintomo del rispetto e dell’amore che nutrivano reciprocamente l’una per l’altra; che il loro era un normalissimo rapporto madre/figlia.

Se la Di Ianni ha sofferto per la presenza di un padre tiranno che giunse a ripudiarla perché non nacque maschio, Matilde ha sofferto la presenza di una madre che, rimasta vedova prematuramente, dovendo sopperire anche alla figura paterna, non si può escludere abbia strutturato il proprio ruolo in virtù di tale assenza dandole affettivamente meno di quanto avrebbe voluto donarle.

Oltre alle autrici meritano di essere segnalati gli interventi dei due relatori, la poeta Angela Schiavone e il professor Magliulo: la Schiavone ha tracciato per grandi linee le trame dei racconti, soffermandosi per lo più a parlare delle autrici che ben conosce essendo loro amica, tagliandosi un ruolo più da moderatrice che non da relatore; Magliulo ha esaltato l’indiscusso valore sociale del libro definendolo “non un libro privato ma pubblico perché narra il costume italiano, ossia come fino a pochi anni fa la donna fosse ancora vista da molti uomini come una creatura inferiore” e, oggi che finalmente sembra essere riuscita a conquistarsi una propria autonomia, sempre più spesso è vittima della violenza maschile a riprova che molti uomini, non accettando tale condizione di libertà, non si fanno scrupoli di comportarsi come quegli stessi musulmani contro cui inveiscono perché impongo alle donne il burqa, il silenzio e la violenza fisica se disubbidiscono.

Ha chiuso la serata l’intervento dell’assessore alla cultura del comune di Pozzuoli Maria Teresa Moccia Di Fraia la quale non ha nascosto la propria emozione per quanto aveva ascoltato, dicendosi felice che al tavolo sedessero quattro insegnanti – le due autrici e i relatori – “visto che oggi tale figura è sempre più svilita da una società in cui si è perso il senso delle parole”. Di riflesso l’assessore ha citato Lessico Famigliare di Natalia Ginzburg, invitando alla ristrutturazione del lessico affinché si desse nuovamente peso alle parole visto che oggi molte sembrano aver perso il proprio valore.

Vincenzo Giarritiello

QUATTRO CHIACCHIERE CON ENZO GIARRITIELLO

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Sabato 10 novembre ha preso il via a Pozzuoli, presso l’associazione culturale Lux In Fabula, la rassegna Quattro Chiacchiere Con L’Autore, una serie di incontri quindicinali con scrittori, poeti, pittori, autori vari in cui ogni artista si racconta.

Ha inaugurato la manifestazione lo scrittore Vincenzo Giarritiello il quale, intervistato dalla poetessa Luisa De Franchis, ha raccontato la genesi dei suoi due primi romanzi, L’Ultima Notte e Signature Rerum-il sussurro della sibilla , di cui si sono letti alcuni estratti; dei laboratori di scrittura creativa per ragazzi che ha tenuto nel corso degli anni in una libreria per ragazzi a Pozzuoli, al IV Circolo didattico di Pozzuoli e alla sezione femminile del carcere minorile di Nisida.

Sollecitato dalla De Franchis, l’autore si è a lungo soffermato su quest’ultima esperienza, definendola in assoluto “la più tosta ma anche la più formativa a livello umano” tra le proprie esperienze legate alla scrittura.

Entrando nel merito della propria attività di scrittore – oltre a L’ULTIMA NOTTE e SIGNATURE RERUM, ha pubblicato la raccolta di racconti LA SCELTA con le Edizioni Tracce di Pescara –, esortato dalle domande della De Franchis sui suoi interessi ermetici che si riflettono in maniera evidente in entrambe le opere, in particolare in SIGNATURE RERUM  al cui inizio è posta una frase di Giamblico tratta da I Misteri Egiziani, (invece quelli che sono migliori di noi conoscono tutta intera la vita dell’anima e tutte le vite precedenti di essa […]) ,  l’autore ha parlato della propria formazione culturale di matrice ermetica,  spiegando che vivere in una terra ricca di storia e, soprattutto, di mistero, come i campi flegrei, è per lui motivo di profonda riflessione e studio sulla vita e su se stesso.

In particolare, riferendosi al mito della sibilla Cumana, argomento di spunto per Signature Rerum, l’autore ha espresso la propria convinzione che l’acropoli di Cuma incarni una sorta di cammino iniziatico visto che l’itinerario si dipana dalle tenebre alla luce:  si parte dall’oscurità dell’antro della sibilla per poi lentamente salire fin su al tempio di Giove, transitando per quello di Apollo posto a metà del percorso.  Schema che ritroviamo tracciato in tante opere di matrice iniziatica tra cui La Divina Commedia di Dante.

La serata è stata allietata dalla presenza del cantautore Nicola Dragotto che, intervallandosi ai relatori, ha suonato alcuni brani tratti dal suo cd L’Ultima Causa.

Il prossimo incontro sarà sabato 24 novembre con il saggista/ studioso di religioni Enzo Di Bonito.

IL TRIBUTO DI POZZUOLI ALLA REGISTA MARIA DI RAZZA

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Pozzuoli non poteva scegliere modo migliore per onorare una propria “figlia”, la regista Maria Di Razza premiata al Festival del Cinema di Venezia 2018 per il cortometraggio animato Goodbye Marilyn: venerdì 9 novembre nella sala Consiliare di Palazzo Migliaresi gremita di pubblico, in presenza dell’Assessore alla Cultura Maria Teresa Di Fraia e dell’esperto di cinema Giuseppe Borrone, raggiunti a fine serata dal Sindaco di Pozzuoli Vincenzo Figliolia trattenuto altrove da impegni istituzionali, è stato tributato il giusto riconoscimento a una donna che ha saputo trasformare la propria passione per il cinema in attività costruttiva e vincente, affiancando umilmente il proprio nome a quello della Loren tra i puteolani finora distintisi nel mondo del cinema.

Già autrice di tre cortometraggi animati altrettanto apprezzati dalla critica – Forbici sul femminicidio; Facing off sull’ossessione del rifacimento estetico del proprio corpo; (In) felix sul dramma della Terra dei fuochi – del cortometraggio Ipazia dedicato alla filosofa greca  trucidata dal fanatismo cristiano, con Goodbye Marilyn la Di Razza ha attualmente raggiunto l’apice della propria carriera cinematografica.

Durante la serata, culminante con la proiezione di Goodbye Marilyn, sono stati proiettati in sequenza cronologica i primi tre cartoni della regista dalla caratteristica di essere muti ma dotati di immagini potenti che denunciano il degrado a vari livelli in cui versa la nostra società. In modo particolare (In)Felix – film a cui la Di Razza ha ammesso d’essere molto legata, ringraziando pubblicamente il disegnatore Domenico Di Francia e l’animatore  Costantino Sgamato entrambi presenti in sala – è un’aperta accusa dell’inquinamento criminale in atto nella Terra Dei fuochi. Il film trae ispirazione dalla relazione finale del geologo Giovanni Balestri sulle condizioni di quel territorio: secondo Balestri entro il 2064 i rifiuti tossici avranno avvelenato le falde acquifere, determinando la sparizione di ogni forma di vita in quelle zone!

Per quanto riguarda Goodbye Marilyn, trattandosi della trasposizione cinematografica dell’omonimo romanzo di Francesco Barilli edito da BeccoGiallo Editore dove si immagina l’ultima intervista di una Marilyn Monroe novantenne a un giornalista, la necessità dell’utilizzo vocale ha spinto la regista a scegliere come doppiatori Maria Pia Di Meo voce italiana di Meryl Streep e il giornalista di Sky Gianni Canova. La bellezza della pellicola è accentuata dalla colonna sonora curata da Antonio Fresa.

Al termine delle proiezioni, la di Razza è stata onorata pubblicamente dal sindaco Figliolia con un breve ma commosso discorso, culminato in un abbraccio fraterno essendo i due amici.

Nei saluti di commiato la regista ha precisato che nel film  la frase finale rivolta da Marilyn al giornalista, “La prego, non mi faccia apparire ridicola”, è la stessa proferita da Marilyn Monroe nella sua ultima intervista prima di suicidarsi.

A conclusione un lungo applauso ha salutato la Di Razza che non ha nascosto le proprie ambizioni da Oscar per il 2020, a conferma che i vincenti pensano sempre in grande.

A questo punto non resta che incrociare le dita augurandole IN BOCCA AL LUPO!

LA BOTTEGA DEI SEMPLICI PENSIERI: COSTRUIRE UN MONDO SENZA DIVERSITA’

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Martedi 25 settembre, nell’ambito di Malazé, il festival ArcheoEnoGastronomico in corso di svolgimento nei campi flegrei dal 15 al 25 settembre, presso Villa Avellino – Residenza Storica, a Pozzuoli, a partire dalle 19.30 si svolgerà un incontro con lassociazione La Bottega Dei Semplici Pensieri il cui scopo è quello di inserire i ragazzi down in maniera stabile nel mondo del lavoro, attraverso una serie di laboratori di formazione nell’ambito del catering, del bar e della ristorazione che, laddove non si raggiungesse l’obiettivo primario, rappresentano ugualmente una sorta di “percorso terapeutico”, favorendo l’acquisizione da parte dei ragazzi di maggiore indipendenza e autostima.

In quel contesto l’associazione presenterà il progetto Brindisi Solidale che “prevede la nascita di un piccolo apecar modificato dove i ragazzi possono offrire un brindisi agli eventi o a matrimoni, se gli sposi vogliono festeggiare in maniera solidale, a fronte di una donazione.

Al fine di conoscere meglio La Bottega, abbiamo posto alcune domande a Mariolina Trapanese presidente dell’associazione.

 

Signora lo scopo principale della vostra associazione prevede l’adeguata formazione e il successivo inserimento nel mondo del lavoro dei ragazzi down: come nasce tale iniziativa che è sia un onere che un onore sociale?

Nasce da un’esperienza personale di avere un figlio con un deficit intellettivo. Quindi insieme con altre mamme ci siamo incontrate al termine di un ciclo scolastico. Oltre le scuole superiori – i ragazzi hanno frequentato l’istituto alberghiero -, non vedevamo nessun tipo di futuro per i nostri figli. E non volevamo vanificare la loro esperienza scolastica. A questo punto abbiamo detto “ok, diamoci da fare” e abbiamo messo in piedi tutta una serie di attività, attraverso dei progetti, che potessero migliorare sempre di più la loro formazione avvenuta già in età scolare. In questo modo abbiamo creato la nostra associazione, ponendoci l’ambizioso scopo di creare una scuola di formazione per ragazzi diversamente abili. Seppure non le nascondo che le difficoltà sono tante!

Difficoltà di che tipo? 

Purtroppo come associazione non abbiamo una sede adeguata per il tipo di lavoro che facciamo.  Quindi, per il momento, ci adoperiamo con progetti extrasede. Del resto, come lei stesso vede, qui dove stiamo non possiamo fare granché (attualmente la sede dell’associazione è situata  in un appartamento su piano rialzato in un condominio sito in  Corso Italia 388,  a Quarto n.d.r.). Abbiamo fatto la richiesta per avere un bene confiscato al fine di poter disporre di una struttura ricettiva che ci consentisse di creare sia laboratori di formazione che eventi in maniera del tutto autonoma.

Malgrado non abbiate una sede confacente alle vostre necessità, comunque riuscite e fare cose pregevoli come appunto inserire nel mondo del lavoro alcuni dei vostri ragazzi.

Per quanto concerne l’inserimento nel mondo del lavoro, abbiamo cominciato con Garanzia Giovani e tre dei nostri ragazzi sono riusciti a ottenere un contratto di lavoro per sei mesi. Oltre ciò, abbiamo messo a punto dei progetti, tra cui Raccogliendo Mi Trasformo dove i ragazzi stazionano su un campo agricolo dal momento della semina. Questo progetto lo facciamo in collaborazione con l’Università di Agraria di Napoli, presso il centro di sperimentazione a Castel Volturno. I ragazzi seminano il mais e da quel momento in poi seguono tutto il percorso relativo alla trasformazione e crescita del seme in pannocchia. Lo scorso anno ci siamo occupati della produzione della farina di polenta. Quest’anno vogliamo andare oltre, creando dei biscotti. In virtù di ciò ci siamo accordati con delle aziende. Nel caso specifico Casa Infante che accoglie i nostri ragazzi nei suoi laboratori e li avvia, con l’ausilio di tutor, all’autonomia della preparazione dei biscotti. Questo è uno dei traguardi che abbiamo raggiunto nell’anno in corso.

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Se non erro avete fatto anche dei corsi per pizzaioli

Abbiamo tenuto un corso per pizzaioli alla Multicenter School. Successivamente i ragazzi hanno fatto esperienze in alcune pizzerie napoletane. Purtroppo tutto si conclude con l’esperienza. Il passaggio successivo che prevede l’integrazione a tempo indeterminato nel mondo del lavoro è molto lontano. Almeno per quel che riguarda il nostro territorio. Questo è il motivo per cui ci siamo dato come obiettivo uno step successivo che contempla la nascita della cooperativa sociale per concretizzare il percorso di formazione compiuto dai ragazzi. A riguardo sempre con la Multicenter School abbiamo creato all’interno dell’istituto un angolo bar, nominato Ke-bar, che in realtà è un’aula di formazione dove i nostri ragazzi, mediante turnover, si alternano al banco in modo da migliorare sempre di più le loro conoscenze, capacità lavorative e il rapporto con l’utenza. A riguardo mi lasci dire che, ragionando con il direttore della scuola, convenimmo che tale esperienza è formativa non solo per i nostri ragazzi, ma anche per gli stessi studenti della Multicenter in quanto li educa ad avere un approccio normale verso ragazzi con deficit di apprendimento.

Le istituzioni vi supportano adeguatamente?

Per alcuni aspetti sicuramente ci sono vicine – approvano, ci danno i patrocini. Ultimamente abbiamo vinto un bando europeo, Benessere giovani, sia con il Comune di Quarto che con quello di Pozzuoli.

Il bando è inerente alle attività specifiche che svolgete, nel senso è legato alla formazione professionale di cui parlavamo prima?

No, creiamo anche altri tipi di laboratori in quanto ci piace ragionare a trecentosessanta gradi per offrire sia l’apertura mentale sia la possibilità di mettere in moto fantasie. Secondo me, la cultura, comunque la tocchi, è una forma di crescita! Con il comune di Quarto metteremo in piedi un laboratorio di mosaico e si chiamerà Mosaicheart con l’ausilio di una docente cui seguirà una mostra dove esporremo le opere dei ragazzi.

Prima mi accennava alle difficoltà che avete nell’interagire con le istituzioni

Purtroppo con le istituzioni non riesco ancora a trovare il giusto interlocutore al fine di ottenere una sede adeguata per tutto ciò che facciamo. Questa è la cosa che più mi addolora. In sei anni che operiamo, penso che abbiamo dimostrato abbondantemente la nostra serietà ed efficacia. E penso che meriteremmo un minimo di attenzione in più da parte delle varie istituzioni, anziché essere sballottati da un ufficio all’altro, uscendone sempre con un pugno di mosche! Da più di anno e mezzo abbiamo fatto richiesta al comune di Quarto di un bene confiscato gestito dal comune. Ma finora non c’è stato nemmeno il varo del bando cui potremmo almeno partecipare. Consideri che all’epoca in cui il Comune fu commissariato, ebbi modo di pqrlare con il commissario, era il vice Prefetto di Napoli, il quale ebbe  modo di apprezzare il progetto, affermando che meritava attenzione.

Mentre invece qual è l’atteggiamento dell’attuale amministrazione?

Per il momento non ho avuto modo di incontrarmi né con il sindaco né con qualche altro rappresentante. Mi hanno detto di aspettare il bando che sarebbe uscito di lì a poco. Per ora nulla. Tuttavia non le nascondo che in noi sta maturando il pensiero e la volontà di spostarci dal territorio flegreo, o almeno da Quarto, per andare verso Napoli. Non è detto che lì non troveremmo maggiore attenzione da parte di chi di dovere.

I ragazzi di cui vi interessate sono locali?

Assolutamente no! Ormai la Bottega è conosciuta per cui da noi vengono non solo dalla zona flegrea ma da Napoli, Secondigliano, Fuorigrotta, Lago Patria. Siamo una realtà ben nota nell’ambiente. Tenga presente che quando inaugurammo il Ke-bar, per il servizio che fece per quell’occasione, il giornalista Giuseppe De Caro fu premiato a livello nazionale. Inoltre abbiamo avuto modo di collaborare anche con l’AIS, l’associazione italiana sommelier, consentendo alla Bottega di crescere e migliorare.

Non le è mai venuto il dubbio che le difficoltà istituzionali possano derivare dal vostro non essere in alcun modo politicizzati, anziché derivare da antipatici intralci burocratici?

Voglio proprio sperare di no! Per le questioni che stiamo trattando credo che l’obiettivo di tutti debba andare al di là delle mere questioni di partito. I ragazzi e le famiglie che si rivolgono a noi lo fanno unicamente perché sanno che cosa facciamo e le opportunità che offriamo loro. Se poi anche in questo contesto entrassero in gioco le beghe politiche, vuol dire che in questo paese, mi riferisco all’Italia in generale, davvero non c’è speranza. Non solo per chi è diverso, ma per tutti. Qui si parla di civiltà e penso che la civiltà debba prescindere dalle casacche di partito. O almeno, dovrebbe!

Al di là dell’introduzione dei vostri ragazzi nel mondo del lavoro, avete altri obietti?

Educare gli altri, i cosiddetti normodotati, a vedere i nostri ragazzi come una risorsa e non un peso per la società.

Cosa farete martedì sera a Villa Avellino?

Proporremo il nostro progetto Brindisi Solidale che prevede la nascita di un piccolo apecar modificato dove i ragazzi possano offrire un brindisi a eventi e matrimoni, se gli sposi volessero festeggiare in maniera solidale, a fronte di una donazione. Per noi martedì sera rappresenta la prova del nove perché per la prima volta i ragazzi si muoveranno in assoluta autonomia fuori dalle tranquille mura di una scuola. E contestualmente lanciare un messaggio sociale che non si riducesse solo agli alunni della Multicenter,  ma venisse recepito dal mondo esterno, facendosi notare e apprezzare come risorse lavorative.

locandina

Avete altri progetti in corso di realizzazione?

Sì, un altro che si chiama “semplicemente chef”  a cui collaborano quattro istituti alberghieri. Si tratta di un contest dedicato esclusivamente a ragazzi diversamente abili: i ragazzi della bottega sono stati preparati da uno chef; quelli della scuola dai loro professori. Ci siamo ritrovati l’anno scorso in un evento organizzato a Gambero Rosso a Nola. Le assicuro che è stata un’esperienza bellissima, entusiasmante. Anche per chi pratica questo mondo ad alto livello come appunto a Gambero Rosso che ci ha accolti e ha potuto valutare di persona che cosa significa dedicarsi ai ragazzi e prepararli.

Lei è convinta che il mondo esterno sia pronto a un confronto di questo genere?

Sì perché già ci hanno chiamato in altri circostanze e i ragazzi ne sono sempre usciti a testa alta.

Nel loro percorso formativo come e da chi sono accompagnati i ragazzi della vostra bottega?

Il nostro punto di partenza era ed è quello di costruire un lavoro integrato. Lo stiamo realizzando grazie alla fortuna di aver incontrato alcuni anni fa cinque/sei ragazzi che vennero da noi tramite la Caritas per esercitare il servizio civile. Da allora questi ragazzi non sono più andati via perché sono rimasti affascinati  dall’idea di una crescita comune. Grazie a questo rapporto sinergico tra il ragazzo normodotato e il diversamente abile, attraverso un lavoro di formazione che prevede per entrambi  la presenza di un tutor, puntiamo a realizzare entro il  2019 la operativa sociale. Questo progetto prevede che i ragazzi normodotati siano integrati ai nostri progetti, divenendo collaboratori dei nostri ragazzi. Una cosa del genere la vedrete già in opera martedì all’Apecar di Villa Avellino.

Signora qual è Il suo sogno nel cassetto?

Vedere realizzata la scuola di formazione e la villa per eventi gestita dai ragazzi. E ovviamente vedere i ragazzi volare via  da questo nido rappresentato dalla bottega per inserirsi con tutti i crismi nel mondo del lavoro e del quotidiano senza alcuna difficoltà!

 

Terminata l’intervista, la signora Trapanese mi presenta due  sue collaboratrici, Elvira e Martina. Ponendosi tra loro, scattiamo la foto che correda l’intervista. Dopo i saluti di commiato, mentre mi accompagna alla porta, la signora mi offre una confezione di biscotti prodotti dai ragazzi della bottega affinché li assaggi: sono ottimi!

 

ALTOFEST: SE LA POLITICA ALZA MURI, LA CULTURA LI ABBATTE

ALTOFEST (1)

Mercoledì 19 settembre, nell’ambito della XIII° edizione di  Malazè – il festival ArcheoEnoGastronomico che è in corso di svolgimento nei campi flegrei dal 15 al 25 settembre -, presso la corte d’ingresso di Villa Avellino – Residenza Storica, a Pozzuoli, si è tenuto un lab con Anna Gesualdi e Giovanni Trono, rappresentati di Altofest, il festival di arti performative, i quali, durante il dibattito moderato da Fabio Borghese, hanno illustrato a un pubblico ristretto ma interessato, cosa è Altofest e quali sono le sue finalità.

Altofest, ci spiega Giovanni Trono, è un progetto che inizia a prendere forma nel 2008, all’epoca della crisi del sistema bancario, per fronteggiare il vuoto di pubblico venutosi a creare nei teatri conseguente al crack finanziario in corso sull’intero pianeta, con l’intento riaccostare le persone al teatro, portando gli artisti tra la gente.

Ufficialmente il festival ha inizio nel 2011 con il coinvolgimento diretto dei cittadini del centro storico di Napoli.

La peculiarità di Altofest è quella di generare una sinergia tra cittadini e artisti, un vero e proprio scambio culturale, tipo quelli che avvengono tra scuole di diverse nazioni: i cittadini ospitano gli artisti nelle proprie case per una decina di giorni; gli artisti esprimono le proprie perfomance nei luoghi che li ospitano, rielaborando la partitura dello spettacolo in rapporto all’ambiente in cui si trovano, muovendosi tra le mura di casa come se fossero in un vero e proprio teatro. Mentre chi li ospita continua a vivere la propria quotidianità in maniera del tutto normale, per nulla condizionato dalla presenza estranea.

In questo modo, chiarisce Anna Gesualdi, si dà esattamente corso al duplice significato del vocabolo ospite che contempla sia chi accoglie che chi viene accolto.

Mentre la selezione degli artisti avviene mediante il varo di un bando globale – per la la selezione delle opere si terrà conto del loro alto impatto estetico in quanto, come chiarisce Anna,  “Altofest segue una visione estetica definita e questa visione estetica ha di conseguenza una ricaduta sociale generando un nuovo linguaggio”-  la scelta del pubblico avviene tramite il passaparola tanto che sono gli stessi cittadini a proporsi agli organizzatori per ospitare gli artisti, permettendo che per una decina di giorni la propria casa si trasformi in un vero e proprio laboratorio teatrale.

Per quanto concerne invece gli spettatori che assisteranno alle varie performance artistiche, sarà stesso chi ospita gli artisti a invitare il pubblico presso la propria casa per assistere allo spettacolo, lasciando che le persone entrino ed escano dalle mura domestiche come se si muovessero in un qualsiasi luogo pubblico.

Questo scambio sinergico tra cittadini e artisti, dove ognuno sacrifica una piccola parte della propria intimità per lasciare spazio all’altro, è un interessante esperimento sociale. Soprattutto in un contesto socio/politico come è quello attuale dove lo straniero è considerato sempre più alla stregua di un nemico da respingere, se non addirittura da combattere, anziché da accogliere.

Un esperimento, Altofest, di notevole interesse sociale e artistico tanto da suscitare l’attenzione della  Fondazione La Valletta e l’organizzazione del festival sull’isola di Malta dal 13 aprile al 13 maggio 2018.

Evento che costrinse i responsabili di Altofest a trasferirsi sull’isola un paio di mesi prima della data di inizio per integrarsi a loro volta con il nuovo ambiente al fine di preparare il “terreno”, così come avviene prima di seminare un campo. Ovvero muoversi tra i quartieri dell’isola per far comprendere ai maltesi, popolo che ha subito due secoli di colonizzazione inglese ed è quindi prevenuto verso lo straniero, cosa esattamente ci si attendeva da loro. Alla fine il festival ha visto il coinvolgimento di ben 11 comunità dell’isola e ha ottenuto un notevole successo a conferma dell’assoluta validità del progetto di matrice napoletana, come ci tengono a precisare con giusto orgoglio Anna e Giovanni.

Laddove la politica edifica muri per difendersi dallo straniero, Altofest li abbatte per far spazio allo straniero!

IL PRODUTTORE PAOLO LUBRANO SI RACCONTA

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Di seguito l’intervista integrale al produttore puetolano Paolo Lubrano pubblicata su comunicaresenzafrontiere

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Nella vita ciò che conta sono i fatti, le parole trovano il tempo che trovano. Non a caso un detto napoletano recita ‘a vocca è nu bell strumento,intendendo che tutti possono farne uso, ma poi saranno i fatti a determinare la serietà e la qualità delle persone.

L’incontro con il produttore Paolo Lubrano doveva essere un’intervista formale, con domande e risposte, per raccontarne la storia professionale e il suo legame con Pozzuoli, la sua città, dove dal 1991 organizza il Premio Civitas, quest’anno giunto alla 21° edizione, con cui sono stati insigniti personaggi famosi del mondo dello spettacolo e della cultura tipo: le attrici Maria Schneider e Tilda Swinton; lo scenografo quattro volte Premio Oscar Dante Ferretti; il cantante Lucio Dalla; l’astronauta Samantha Cristoforetti; il musicista Ezio Bosso. Ovviamente alla lista di celebrità non poteva mancare Sofia Loren, che ha vissuto la propria infanzia e adolescenza a Pozzuoli in casa della nonna materna, premiata nel 2005.

E dopo oltre 3 ore di registrazione, parlando proprio di questa edizione a microfono spento, l’incontro con Paolo si trasforma in un momento emozionante tanto da convincermi a mettere da parte quanto ci eravamo fino allora detti e partire da qui.
Sfogliando il volume fotografico pubblicato a seguito di quella edizione, con orgoglio Paolo sciorina i numeri che ne decretarono il successo: l’intera trasmissione televisiva da lui prodotta e andata in onda sulle rete RAI, fu vista complessivamente in tutto il mondo, durante le svariate repliche su RAI SAT, da circa 20 milioni di telespettatori; per un anno intero Blob ha trasmesso diversi spezzoni della serata, in particolare quello dove la Loren piange abbracciata al figlio Edoardo, fatto giungere apposta da Los Angeles nel riserbo più assoluto per regalarle un’emozione in più.

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Su ogni foto Paolo si sofferma, raccontando un aneddoto: in questa Sofia piccola è a spasso con la mamma per Pozzuoli; in quest’altra Sofia quando fece la prima comunione; questa è la pagella di Sofia, dai voti si evince che, contrariamente a quanto si dice, a scuola andava tutt’altro che male. Quando la vide, Sofia, stupita, mi chiese dove l’avessi scovata; qui Sofia è sul campo della Puteolana con lo zio Mario; qui è invece con le compagne di scuola e qui, dopo 50 anni, è con alcune di quelle stesse compagne quando venne a ritirare il premio; qui è con Rosetta D’Isanto, la sua amica del cuore con la quale tuttora si sentono; qui è invece nel palco del teatro Sacchini, un piccolo San Carlo che sorgeva nella villa comunale laddove oggi c’è la questura.
Ed è a questo punto che sul viso di Paolo appare una smorfia di disappunto:

<<Ti rendi conto che cosa avevamo a Pozzuoli? È assurdo che non si sia riusciti a garantire l’esistenza di un simile gioiello!>> .

Il tono irritato mi riporta alla nostra conversazione ufficiale. Avevamo iniziato parlando delle polemiche che erano seguite all’ultima edizione del Premio Civitas, dove Paolo ha allestito l’illuminazione per il Macellum, meglio noto come Tempio di Serapide, con l’ausilio del light designer Filippo Cannata e realizzata da Graded:

<<Per realizzare un lavoro che richiede 6 mesi, ci abbiamo impiegato 2 anni, assurdo!>>

Perché? 

<<La solita burocrazia. Per una firma abbiamo atteso anche 4/5 mesi. Comunque alla fine ce l’abbiamo fatta!>>

Come spieghi le polemiche che sono seguite alla realizzazione dello spettacolo?

<<Le polemiche fanno parte della vita. Mi dispiace d’essere caduto nella trappola e di essermi infervorato oltre il dovuto, rispondendo anche in maniera sgradevole. Ma ero sotto stress e non sono riuscito a tenere a freno la rabbia che da giorni cresceva in me a seguito di maldicenze infondate. Lasciami dire che l’impianto di illuminazione del Macellum è stato donato alla città di Pozzuoli; dietro non c’è un euro pubblico! Questa è una città dove ci sono moltissimi tuttologi, gente che a parole sa fare tutto, finanche meglio di te. Poi però, quando a smentirla sono i fatti, ecco che si sente autorizzata a buttarti il fango addosso. Tuttavia le critiche si sono rivelate un esiguo numero rispetto ai complimenti e alle manifestazioni di stima che ho ricevuto da più parti. Alcune mi hanno addirittura imbarazzato!>>

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Addirittura!?

<<Sì! Questa è una città dove così come tendono a screditarti, mettendo in giro falsità sul tuo conto, altrettanto ti elevano al cielo oltre il dovuto. Ma ci sono abituato!>>

Qualcuno attribuisce questa tendenza al provincialismo che vige a Pozzuoli, condividi?

<<Non saprei. Io vivo di questo in quanto lo faccio per mestiere da oltre 35 anni. Certo c’è un termine di cui si abusa ampiamente ed è “evento”. Qui oramai non passa giorno che qualcuno non si inventi un evento, parola che non sopporto perché sa di casualità, magari allestendo un banchetto per strada e improvvisare una chiacchierata con la gente,  per sentirsi poi in diritto di dire di aver fatto qualcosa di culturale per la città. Per quanto mi riguarda, senza una programmazione che contempli una crescita generale della comunità e che identifichi una rassegna culturale che abbia un’identità forte con la città e la sua storia caratterizzandola in pieno, non si va da nessuna parte. Essendo puteolano da 7 generazioni, ho fatto nascere il Premio Civitas per dimostrare che anche qui si può fare, purché ci sia una seria pianificazione. Fin da che ero bambino sento parlare degli spettacoli che si allestiscono nell’arena di Verona, possibile che non si riesca a fare altrettanto nell’anfiteatro di Pozzuoli che è il terzo in Italia per grandezza?>>

Secondo te quale potrebbe essere la spiegazione?

<<Forse siamo afflitti da esterofilia: magari se avessimo parlato milanese, qualcuno ci chiamava per organizzare una serie di spettacoli in quella location così come invece ci chiamano in tanti altri posti. Considera che tra i miei progetti c’è tuttora quello di portare le grandi opere liriche nell’anfiteatro Flavio. Con il Premio Civitas credo di aver dimostrato che a Pozzuoli ci sono le competenze per fare grandi cose. Perché non si prenda in considerazione tale eventualità, non saprei proprio!?>>

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Programmazione riporta alla mente il termine prevenzione: visto quanto è successo a Genova, mi riferisco al crollo del ponte, non pensi che l’incapacità di programmare non sia solo un deficit locale bensì un male nazionale?

<<Per quanta mi riguarda, per diversi anni ho prodotto una prima serata Mediaset a  Comacchio in provincia di Ferrara. È uno spettacolo talmente rodato che tutti sanno già cosa fare ed è un lavoro semplificato al massimo che qualche volta, prendendomi in giro, mia moglie  dice che lì vado in vacanza. Chissà perché invece qui, dopo 27 anni che si organizza il Premio Civitas, a volte mi è sembrato di essere alla realizzazione della prima edizione con tutte le incognite che ne derivano. Ma va bene così!>>

Negli ultimi tempi si è ravvivata la polemica relativa al mancato sfruttamento a livello turistico del patrimonio archeologico di Pozzuoli, qual è la tua opinione in merito?

<<Personalmente lo ritengo un luogo comune che non sta né in cielo né in terra. Mi spiego: da uomo di spettacolo – ho all’attivo diverse produzioni televisive e tanti eventi organizzati in tutta Italia – sono convinto che se non spettacolarizzi questi luoghi, rendendoli accattivanti agli occhi dei turisti, servono a ben poco. Ovvio che la mia è una provocazione finalizzata a stimolare in merito chi di dovere. Noi abbiamo intrapreso questa strada organizzando degli eventi musicali nel Macellum dove portammo addirittura l’orchestra del San Carlo composta da 180 elementi, allestendo un vero e proprio teatro all’aperto con circa 1000 posti a sedere!>>

Ci spiegheresti come funziona esattamente il tuo lavoro di produttore? 

<<In passato il produttore era colui che investiva di tasca propria i soldi per uno spettacolo. Oggi invece la figura del produttore, qual è la mia, pensa l’idea, la mette su carta, e poi va alla ricerca dei fondi per realizzarla. Considera che oggi c’è la possibilità di attingere ai fondi europei, allestendo un bando di gara in cui il comune invita chiunque volesse accedervi a presentare un progetto da sottoporre alla regione. Bene, l’unica volta che ho avuto accesso ai fondi pubblici fu per il Premio Civitas di 4 anni fa quando il comune partecipò ai bandi regionali per l’accesso ai fondi europei, invitando la comunità a presentare progetti per inserirli nella rassegna re-tour a puteoli. In seguito alla prima riunione con gli interessati, alla fine solo io e un’altra realtà proseguimmo il percorso. Solo allora ricevetti un contributo pubblico e di entità inferiore rispetto all’investimento reale.>>

Stai già pensando a come sarà la prossima edizione del Premio Civitas?   

<<Non ci sarà nessun’altra edizione del Premio, ho deciso che quella del 18 luglio scorso è stata l’ultima: troppe polemiche, non ho più l’età per digerire certi rospi!>>

Paolo, questo è uno scoop!

<<Spero di non disattenderlo>> sorride malizioso.

PERCORSI FLEGREI, MALAZE’

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Di seguito la mia intervista su cominucaresenzafrontiere a Rosario Mattera, fondatore e Presidente di Malazè, l’evento acheo-eno-gastronomico che si svolge nei campi flegrei, giunto alla XIII edizione.

Giunta alla 13° edizioni è uno degli eventi di punta dei campi flegrei. Rosario Mattera, fondatore e Presidente di Malazè, intervista.

D: che significa Malazè?

R: La parola è di derivazione araba e indica il magazzino dei pescatori. Di sicuro è una distorsione dialettale che dalla Sicilia si è modificata, man mano che si risale il continente, almeno fino a Pozzuoli. Grazie per la domanda perché molti ritengono Malazè un acronimo o un gioco di parole.

D: Rosario, molti anni fa ti sei inventato Malazè, da dove nasce il progetto?

Risposta: L’edizione di quest’anno sarà la tredicesima, un bel viaggio. Diciamo subito che Malazè ha una mamma che lo ha generato, l’Associazione Campi Flegrei a Tavola. L’associazione nacque con l’intento di mettere a sistema e generare una forma di economia attraverso quello che io ritenevo e ritengo fosse uno dei giacimenti economici di questo territorio, ovvero l’enogastronomia. Soprattutto all’epoca che fondammo l’associazione, reputavo la gastronomia il grimaldello per far sviluppare economie in crisi o in via di estinzione, soprattutto la pesca e la piccola agricoltura che sono molto residuali per motivi diversi: la piccola pesca è andata a finire per scelte scellerate della comunità europea; l’agricoltura, ahimè, è andata a sua volta a esaurirsi in quanto abbiamo consumato tutto il terreno a nostra disposizione. Un po’ a causa degli eventi legati al bradisismo. Molto per via della speculazione edilizia che ha letteralmente violentato il territorio. Da qui l’idea di dare vita a un sistema per far sì che il ristorante potesse dare ancora linfa al piccolo produttore, non esistendo più giustificazioni affinché si facesse agricoltura. L’idea era quella di sostenere queste piccole aziende agricole che magari c’hanno ancora un piccolo numero di galline, un po’ d’uva, un po’ di ortaggi caratteristici del territorio. Poiché nel tempo le cose si evolvono, ed essendo questo un progetto che io ho sempre ritenuto work in progress, da lì poi è nata l’idea di Malazè.  Anzi, più che un’idea, un vero e proprio moto di ribellione nei confronti di chi millantava nel mondo il nome dei campi flegrei, da sempre oggetto di predazione,  per fare business. Nel senso che qualsiasi soggetto veniva da queste parti, in nome e per conto dei campi flegrei, si sentiva in diritto di presentare qualsiasi evento gastronomico organizzasse con l’appellativo “la cucina flegrea nel mondo”, seppure i piatti presentati non avessero niente da spartire con la tradizione flegrea. Viceversa noi ci preoccupavamo di recuperare le vecchie ricette, essendo consapevoli che la vera tradizione culinaria flegrea era tutt’altra cosa rispetto a quella presentata sui banchetti cui partecipavamo anche noi come associazione. E siccome non c’era nessun baluardo a tali ambiguità, tipo una forte rete di associazionismo, che tuttora manca sul territorio, o comunque qualcosa che rappresentasse e tutelasse il territorio da sempre terra di conquista, ecco l’idea di Malazè!

D: Rosario professionalmente hai legami con il settore della gastronomia?

RNessuno! Io arrivo a questo traguardo da grande appassionato. Sono sommelier e degustatore di olio.

D: Quindi un legame comunque  c’è, seppur labile…

R: Il legame c’è nel senso che io sono sempre stato amante della gastronomia, mi sono sempre piaciute le ricette. Anche se cucino in maniera amatoriale, sto dietro ai fornelli da che avevo l’età di quindici anni. Mamma non sapeva cucinare il pesce, in quanto di origine contadina. A me invece piaceva molto il pesce, e considerando che papà, in contrapposizione a mamma, era un isolano, dunque un uomo di mare, mi dissi che dovevo imparare a cucinare il pesce come meritava, anziché limitarmi a cuocerlo con il pomodoro come faceva mamma. Per cui  iniziai ad alimentare la passione della cucina, coltivandola in maniera scrupolosa fino a raffinarla. E poi ho fatto un lungo percorso di osservazione,come penso debbano fare un po’ tutti coloro che decidono da fare il cuoco o comunque di avvicinarsi alla cucina. Prima di fare ciò, ho girato l’Italia anche attraverso tour operator e altre associazioni. Mi sono trovato invitato più volte in consorzi all’estero attraverso canali cui ho avuto la fortuna di avvicinarmi. E alla fine di ognuno di questi viaggi, ogni volta che tornavo a casa, mi guardavo allo specchio chiedendomi, “mò che faccio?”. E la prima cosa che mi venne in mente fu di organizzare un evento enogastronomico sul Rione Terra.

D: Perché il Rione Terra?

RMolti degli eventi cui partecipavo si svolgevano in Toscana, precisamente nei castelli. A esempio mi ricordo una manifestazione che si chiamava “Amiata a tavola” , qualcosa di incredibile. Oppure feste che si svolgevano tra Arcidosso e Castel del Piano, e chi più ne ha più ne metta. Durante questi spostamenti, guardandomi intorno, pensavo a come sarebbe stato bello organizzare un evento del genere sul Rione Terra. Questa cosa riuscii a realizzarla nel 2003 con Le domeniche di Repubblica: demmo vita a  un evento bellissimo in cui coinvolgemmo una serie di operatori del settore gastronomico. E da qui venne poi quasi naturale organizzare Malazè che personalmente non considero un evento bensì un personale impegno civile nei confronti del territorio.

D: A proposito della riscoperta dei prodotti tipici del territorio flegreo, è noto che ti sei molto adoperato per la riscoperta e salvaguardia della chichierchia flegrea.

RIncominciamo col dire che il nome corretto è cicerchia, chichierchia è in dialetto. Il territorio flegreo è  famoso per la sua biodiversità. Molti non sanno che la cicerchia dei campi flegrei, in particolare quella di Bacoli, risalirebbe a circa duemila anni fa. A ciò è stato possibile risalire sottoponendo il germoplasma del legume all’esame della banca del seme, da cui si è rivelato che tuttora, il seme dell’odierna cicerchia, malgrado l’imbastardimento avvenuto nel corso delle epoche, ha ancora un residuato originario risalente a duemila anni fa, ovvero al periodo degli antichi romani. Non è fantastico? Inoltre  la necessità di salvaguardarla non è solamente legata all’aspetto squisitamente storico/scientifico, ma vi è anche un che di opportunistico. Mi spiego: diversamente dal territorio vesuviano, questa terra non ha elementi produttivi che la contraddistinguono. A esempio il Vesuvio ci ha l’albicocca, il pomodoro del piennolo che nascono solo lì e sono tutelati come prodotti tipici del territorio da tutta una serie di enti e associazioni. Anche qui nei campi flegrei ci sono prodotti tipicamente autoctoni come il pomodorino cannellino. Ma solo adesso, dopo anni e anni di nostre battaglie per la sua difesa, si è fondata un’associazione a tutela del prodotto che non escludo possa trasformarsi addirittura in un consorzio. La cicerchia dei campi flegrei ufficialmente nasce sedici/diciassette anni fa, appunto grazie al mio interessamento, tanto che alcuni la identificano come la cicerchia di Rosario Mattera;  anche perché a ogni manifestazione gastronomica cui ci presentavamo, uscivamo con questo grosso tegame colmo di cicerchia tanto che dopo due/tre anni dalla prima apparizione, della cicerchia dei campi flegrei ne parlò addirittura una rivista americana. La nostra necessità era quella di trovare un elemento gastronomico che contraddistinguesse in maniera indiscutibile i campi flegrei. E la cicerchia ci sembrò il giusto emblema. Considera che inizialmente la si produceva in piccole quantità che non superavano i 50/60 kg. Insistendo, nel tempo la cicerchia è entrata far parte della comunità del cibo, seppure i suoi costi, almeno a livello di produzione artigianale, sfiorano i 10 euro al kg in quanto, essendo un legume molto piccolo, la sue resa non vale il tempo e l’impegno richiesto dalla sua coltivazione. So bene che oggi se ti rechi in un qualsiasi centro commerciale, puoi trovare una scatola di legumi a 2/3 euro. Il problema è che di quel prodotto non conosci l’esatta provenienza. Probabilmente viene dal Sudamerica. Per cui non mangi un prodotto tipico del tuo territorio. La cicerchia, proprio in virtù della propria piccolezza e difficoltà che ne deriva dal coltivarla e pulirla,  non consente una produzione industriale. O almeno non la consentiva fino a due anni fa, quando nel salernitano non si è installato un laboratorio che la pulisce in maniera industriale per cui il produttore porta i sacchi di cicerchia lì per farle sgusciare. Ergo, se vuoi mangiare la cicerchia dei campi flegrei, devi venire per forza da queste parti. Punto!

D: Malgrado la denunciata difficoltà nel riuscire a creare una rete associativa nei campi flegrei, oggi esiste una  realtà di livello internazionale, Malazè, quale il suo percorso?

R: In primo luogo la massima trasparenza: vista dall’esterno Malazè può sembrare una realtà che muove, e soprattutto fa incassare a chi lo organizza, chissà quanti soldi. Niente di tutto ciò. Seppure non ho mai negato che se un giorno Malazè dovesse rivelarsi per me fonte di reddito, non me ne vergognerei. Altro elemento di successo, il basso budget di investimento. Vista dall’esterno, l’organizzazione di Malazè viene reputata  come un qualcosa di mastodontico, la cui spesa realizzativa chissà a quanto ammonta.  Per realizzare Malazè vengono spesi non più di 10 mila euro; chi vi partecipa, non deve pagare nulla; ma sa benissimo che, mettendo a disposizione la propria realtà imprenditoriale, ne riceverà in cambio notevole visibilità. A scanso di equivoci, ci tengo a precisare che Malazè mi appartiene. Nel senso che il marchio è registrato a nome mio; io ne sono il presidente e io ho l’ultima parola in qualunque decisione si deve prendere, seppure mi piace confrontarmi con i miei collaboratori. Questo mi consente di non dover dare conto a nessuno per ciò che devo fare, solo a me stesso, sia nel bene che nel male. Non nego che in questo modo mi sono fatto qualche nemico. Ma così ho tutelato Malazè da eventuali speculatori e forse, proprio per questo motivo, siamo arrivati alla tredicesima edizione che si svolgerà dal 15 al 25 settembre prossimo,  non più sull’intero territorio bensì in tre distinte location: Castello di Baia, Rione Terra, cratere degli Astroni. Decisione presa di comune accordo con Fabio Borghese, l’altra spina forte di Malazè, fondatore e direttore di CREATIVITAS – CREATIVE ECONOMY LAB, dopo aver ponderato tutta una serie di questioni organizzative che per un momento mi avevano addirittura convinto a non continuare con Malazè per dare vita a un nuovo progetto di cui non voglio parlare, essendo evaporato. E meglio è stato perché mi stava rubando solo energie psichiche alla realizzazione della nuova edizione di Malazè. 

D: malgrado molti siti archeologici dei campi flegrei sono abbandonati all’incuria e al degrado, voi abbinando visite archeologiche guidate con soste in aziende agricole per gustare prodotti tipici del territorio, avete trovato il modo di attirare un turismo di elite, anno per anno. Una bella soddisfazione!

R:  Malazè è l’unico evento in Italia, anzi l’unico festival archeo-eno-gastromonico. Noi questo siamo: questa è stata la sfida. E dico anche di più: in tempi non sospetti ho affermato che il problema di fare turismo in questo territorio non erano i siti chiusi, perché c’è la possibilità, al di là che molti siti non sono fruibili, di fare turismo archeo-eno-gastronomico. Perché rispetto a dieci anni fa oggi ci sono le cantine che fanno accoglienza, fanno turismo internazionale, organizzando corsi di cucina e degustazione a 100 euro al giorno. Poche persone ma di alta qualità. C’è un turismo che non si conosce, che è canalizzato, di qualità a cui noi abbiamo sempre ambito e a cui abbiamo lavorato perché il nostro modello è proprio questo e l’abbiamo creato all’interno di un discorso mentre tutti si lamentavano del fatto che non si facesse turismo a Pozzuoli e nei campi flegrei perché i siti erano chiusi. Io ho sempre detto pubblicamente, in più occasioni, perfino in televisione, che la scusa che qui non si facesse turismo perché i siti non erano accessibili dava l’alibi alle amministrazioni di scaricare le responsabilità sulla soprintendenza e ai giovani di questo territorio di dire che non ci sono opportunità. Io invece dico che ci sono opportunità, che i giovani molto spesso sono fermi. E dietro il ragionamento secondo cui “qua non si può fare” c’è la risposta del perché tutto rimane immobile. E dirò di più: la mia preoccupazione è che se domani mattina mettessimo a sistema il discorso dei siti archeologici, mancherebbe un numero adeguato di guide turistiche e figure simili. E non è un caso che queste figure stanno arrivando da Napoli, guidando gruppi di turisti. Consentimi di fare un paragone per meglio chiarire il concetto di immobilismo cui mi riferisco: il Rione Terra ha distrutto nella fantasia di noi puteolani un modello di sviluppo diverso. Io provocatoriamente davanti al sindaco dissi durante un incontro al Rione Terra, “io provo a chiudere gli occhi e mi chiedo: se non ci fosse stato il Rione Terra e questi 300 milioni di euro li avessimo spesi per fare altro, forse oggi Pozzuoli non sarebbe ancora in stand by per decidere che fare sulla rocca”. Per me il Rione Terra non è il volano bensì la morte del turismo sul nostro territorio. Se queste risorse fossero state investite in una mobilità interna alternativa, forse oggi Pozzuoli sarebbe turisticamente al top. Il problema, a mio modo di vedere, è che non c’è mai stata una visione di creare un turismo diverso e di qualità. E tuttora un’idea del genere non c’è!

D: a Pozzuoli perché, salvo eccezioni, molte  realtà non decollano ?

RIo, anzi noi ci siamo riusciti ma, fondamentalmente perché abbiamo creato un modello. Adesso ci vorrebbe la cosa più importante, chi dà l’accelerazione. In questo territorio, secondo me, è mancato un vero e proprio cantiere di progettazione dove chi fa una certa cosa, chi ha un’idea trovasse chi lo ascoltasse e lo aiutasse nel realizzarla. Noi ci abbiamo messo quindici anni per arrivare dove siamo arrivati. Probabilmente se avessimo trovato a livello istituzionale qualcuno che ci avesse ascoltati,  avremmo impiegato la metà del tempo. Ma io la politica la capisco, essa ha un atteggiamento predatorio, non intenso in senso offensivo: essa è consapevole che oggi c’è, domani non è detto, per cui deve guardare al momento non al domani per dimostrare ai cittadini di avere fatto. Purtroppo per fare le cose ci vuole lungimiranza e pazienza! Tutte queste cose di cui stiamo parlando io le ho portate nei tavoli istituzionali, da cui poi mi sono allontanato. Noi abbiamo una rete di soggetti rappresentata da Claudio Boccia, direttore generale di FederCultura; Fabio Renzi, il Segretario Generale della Fondazione Symbola; Salvatore Cozzolino, professore di design, Presidente dell’AD Campania  e altri soggetti di alto livello. Con questi signori parli di cultura in funzione del 2020/2030. Parli di futuro! E alla fine, dopo che fai tanto per questo territorio, devi anche sentirti additato come uno snob o chissà che! Per esperienza ho imparato che quando ti criticano significa che stai facendo bene. Per cui io vado avanti per la mia strada. Che per ora resta Malazè! 

Dal 15 settembre tutti invitati .