IL VELO DI ISIDE: FIORELLA FRANCHINI RACCONTA IL SUO ROMANZO

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Sabato 4 maggio, per la rassegna QUATTRO CHIACCHIERE CON L’AUTORE, da Lux In Fabula si è presentato il romanzo storico IL VELO DI ISIDE, di Fiorella Franchini, edito da Homo Scrivens. Ambientato nel 77 d. C., il racconto narra l’impossibile storia d’amore tra Cassia Livilla, sacerdotessa di Iside, e Valerio Pollio Isodorus, navarco della flotta romana di stanza a Miseno, cui si intreccia un piano terroristico finalizzato allo sterminio della classis pretoria misenensis e all’uccisione dell’imperatore Vespasiano durante le celebrazioni di apertura della nuova stagione di navigazione.

Servendosi di un linguaggio semplice e diretto, tipico di chiunque faccia giornalismo – l’autrice è giornalista/pubblicista – la Franchini ha illustrato in maniera dettagliata ai presenti in sala, passo dopo passo, la genesi del racconto e l’enorme lavoro di ricerca storica che ha dovuto compiere affinché la trama assumesse una struttura solida e convincente che consentisse al lettore di sentirsi proiettato nell’epoca in cui si svolgono i fatti.

Essendo Cassia Livia sacerdotessa d’Iside, l’autrice ha dovuto svolgere anche uno studio approfondito sul culto di Iside, importato a Roma quando l’Egitto divenne provincia romana, arricchendo la trama con un pizzico di magia iniziatica che accresce il pathos narrativo, rapendo il lettore nelle maglie dell’intreccio facendolo sentire a sua volta permeato dal velo di Iside.

Senza mai cadere nella retorica, rischio di tutti gli scrittori, in particolare di quanti si cimentano con un romanzo di forte impatto evocativo qual è IL VELO DI ISIDE, dove la forza descrittiva della narrazione è determinante per far presa sul lettore, così come è asciutta e distaccata nello scrivere, la Franchini si è dimostrata altrettanto equilibrata nelle vesti di oratrice, catturando su di sé l’attenzione del pubblico in sala  dall’inizio alla fine della serata, senza mai stancarlo.

Un ottimo preambolo pubblicitario per il volume e, soprattutto, un’ottima vetrina per l’autrice la quale non cerca di stupire, ma semplicemente di raccontare una storia quanto mai verosimile tanto da indurre a chiedersi se Cassia Livia e Valerio Pollio Isodorus sono frutto della sua fantasia o personaggi esistiti per davvero; così come tutta la vicenda narrata appare quanto mai reale grazie a una scrittura fluida e accattivante che la tesse magistralmente parola dopo parola, rigo dopo rigo.

Questi dubbi li solleva solo un vero scrittore. Fiorella Franchini dimostra di esserlo!

 

STUDENTI VENEZIANI IN VISITA A RAGGIOLO PER ONORARE OSVALDO PETRICCIUOLO

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Ideata dal maestro Osvaldo Petricciuolo per raccogliere in un’esposizione permanente buona parte della sua vasta produzione artistica, la Case d’Arte Musem Petricciuoliano si sta rivelando un importante luogo di studi per la formazione degli allievi dei licei artistici e delle accademie delle belle arti.

Situata a Raggiolo, in provincia di Arezzo, nel Casentino Toscano, a 800 mt alle falde del Pratomagno, oltre a conservare opere, bozzetti, progetti da cui si può apprezzare la potenza dell’estro artistico di Petricciuolo, la struttura è dotata di una ricca biblioteca composta da testi tecnici, spartiti e copioni teatrali essendo stato il maestro anche baritono e regista lirico, a testimonianza della versatilità artistica che lo caratterizzava.

Questa sua ecletticità, che lo incorona a pieno titolo tra gli artisti italiani contemporanei più poliedrici e fecondi vissuti tra il XX e XXI secolo, ha spinto le professoresse Lucia Guglielmi e Barbara Simoncelli dell’Istituto Artistico MARCO POLO di Venezia ad accompagnare sabato 4 maggio un gruppo di studenti a Raggiolo per visionare i bozzetti scenografici del maestro.

Giunti in pullman da Firenze dove soggiornavano, il gruppo di visitatori è stato accolto alla stazione di Bibbiena da Fiorenzo Pistolesi, sindaco dimissionario di Raggiolo, e da Laura Corazzesi, candidata sindaco con la lista civica UNITI PER ORTIGNANO/RAGGIOLO, che li hanno accompagnati in auto al paese dove li attendeva Brunilde Petricciuolo, figlia del maestro, soprintendente della Casa d’Arte e Presidente della fondazione intitolata al padre.

Dopo aver calorosamente accolto gli ospiti, la dottoressa ha tenuto un breve discorso introduttivo in cui ha spiegato ai ragazzi e alle loro accompagnatrici quanto il padre credesse nei giovani e nel valore formativo della cultura e dell’arte, spiegando il motivo per cui decise di stabilirsi proprio lì. Concludendo il suo intervento con la lettura di alcuni passi del manifesto con cui il maestro nell’aprile del 1970 a Rovaniemi in Finlandia inaugurò ufficialmente l’Iterspatium Apertum.

Terminati i convenevoli, la soprintendente ha invitato gli ospiti a infilare i guanti di lattice per sfogliare gli innumerevoli elaborati lasciati in eredità dal padre alle nuove generazioni e a quanti vogliano studiarli o semplicemente visionarli per pura curiosità.

Il rispetto con cui i ragazzi hanno maneggiato il materiale ha attestato la loro consapevolezza di avere tra le mani documenti che la professoressa Guglielmi non ha lesinato a definire “di inestimabile valore artistico e didattico”. Tesi rafforzata dalla professoressa Simoncelli la quale ha ammesso che “ la visita al museo è stata al di sopra delle mie più rosee aspettative”. Aggiungendo di non escludere di ritornarci con un altro gruppo di allievi. Magari d’estate per uno stage formativo di una settimana.

Alla domanda cosa ne pensassero di ciò che stavano visionando, i ragazzi hanno risposto di essere onorati di poter toccare con mano l’operato di un simile genio. Ammettendo di essere colpiti dalla facilità con cui il maestro spaziava dalla pittura alla scultura al canto alla regia, eccellendo in ogni campo a conferma dell’enormità del suo valore di artista.

La visita si è conclusa con un pranzo a base di pasta al forno e gateau di patate cucinati espressamente dalla padrona di casa, molto apprezzati sia dai ragazzi, che non hanno lesinato a fare il bis, sia dalle insegnanti.

Al termine, prima che andassero via, la dottoressa ha omaggiato ognuno degli ospite con una serie di cartoline e cd del padre affinché recasse per sempre con sé il ricordo di quel momento.

Siamo certi che da lassù il Maestro avrà apprezzato, sentendosi onorato e felice!

L’UOMO CHE REALIZZAVA I SOGNI

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L’uomo che realizzava i sogni viveva in una baita nel bosco.
Tutte le mattine, prima che l’aurora tingesse di rosa il cielo, usciva di casa, zaino in spalla, per recarsi al fiume. Ivi giunto, adagiava lo zaino sulla sponda, sedendosi sull’erba umida di brina; si levava scarpe e calzini, arrotolandosi i pantaloni alle ginocchia. Quindi traeva dallo zaino, una dopo l’altra, tante bottigliette colorate e le affiancava sulla riva come tanti soldati di un esercito multicolore schierato per salutare il passaggio dell’ufficiale. Stringendole tra le mani, ripetutamente entrava e usciva dall’acqua, per riempirle tutte. Quel rito quotidiano si esauriva poco prima che il sole sorgesse sulle montagne.
Rientrato in casa, le sistemava sulle mensole alle pareti: sulla quella a est, dov’era l’ingresso della casa, troneggiavano bottiglie di colore rosa e celeste per quanti sognavano l’amore o una sincera amicizia; su quella a sud, su cui si apriva l’unica finestra della baita, svettavano quelle rosse per quanti bramavano travolgenti passioni e epiche avventure; sulle mensole ad ovest, affiancate alla credenza sopra il cucinino, erano le bottiglie blu per tutti coloro che desideravano affermarsi professionalmente. Sulla parete nord, sovrapposta al camino sempre acceso cui erano accostati il letto e il comodino ingombro di libri e una lampada ad olio, c’era una mensola con tante bottiglie bianche ricoperte da uno spesso strato di polvere, imbrigliate in fitte ragnatele a testimonianza che mai erano state rimosse per soddisfare quanti desiderassero un mondo scevro da malvagità, dove gli uomini vivessero in pace rispettandosi gli uni con gli altri.

Finito di sistemare le bottiglie, l’uomo si sedeva al tavolo; accendeva la pipa; chiudeva gli occhi e, fumando, iniziava a pensare, il viso velato dall’acre vapore che si sprigionava dalla pipa, nell’attesa che qualcuno bussasse alla porta chiedendogli di aiutarlo a realizzare il suo sogno. Dopo averlo ascoltato, l’uomo avrebbe preso una bottiglietta il cui colore fosse in sintonia con il desiderio da realizzare, l’avrebbe stappata e, porgendogliela, gli avrebbe chiesto di bere l’acqua racchiusa.
Erano anni, non sappiamo esattamente quanti, forse un’eternità, che l’uomo s’era assunto quel delicato compito. Nel corso del tempo, un’infinità di persone s’erano avvicendate presso di sé per realizzare i propri desideri. e mai nessuno era andato via scontento!

Un giorno, mentre preparava la minestra con le verdure raccolte nel bosco, alla porta bussò un giovane viandante dai radi capelli scuri, lo sguardo triste.
L’uomo lo salutò cordialmente, invitandolo a mangiare con sé. Mentre assaporavano la minestra, gli domandò “Qual è il sogno che vuoi realizzare?”
“Desidererei che al mondo non esistessero persone come te, capaci di svelare alla gente come fare per realizzare i propri sogni!”
Ascoltandolo, l’uomo restò perplesso. Si sistemò sulla sedia. Pulendosi le labbra col tovagliolo chiese “Perché?”
“La realizzazione di un sogno ne sancisce anche la morte.”
“E allora?” incalzò dubbioso, portandosi alle labbra il bicchiere d’acqua. “ Sono tanti i sogni a disposizione d’ogni uomo che non basterebbero un milione di di esistenze per realizzarli tutti.”
“E’ vero” convenne lui, il volto rischiarato da un pallido sorriso. “Ma non pensi che in questo modo si prolunghi l’agonia degli uomini sulla terra? L’uomo deriva da Dio e a Dio deve tornare. Finché sarà schiavo del desiderio, concedendogli l’opportunità di appagare i propri sogni, rinvierà sempre l’inizio del cammino per ritornare alla casa del padre!”
I gomiti ritti sul tavolo, il mento poggiato sulle dita incrociate delle mani, fissandolo attentamente, l’uomo meditava su quelle parole.
Alla fine, rizzandosi sulla sedia, con convinzione, sorridendo rispose “Hai perfettamente ragione, aiutare gli uomini a realizzare i propri desideri li allontana da Dio. Da quest’istante chiuderò bottega e si arrangeranno da soli!”
“Ben detto” esultò lui. Afferrò il bicchiere e brindò al soffitto.
Dopo aver bevuto, il giovane si alzò e, con aria soddisfatta, disse “Bene, ora che anch’io ho realizzato il mio sogno, vado via.”
“Aspetta” disse l’uomo alzandosi dal tavolo. Si recò alla parete dove era la mensola con le bottiglie bianche e ne prese una. Vi soffiò sopra, diffondendo nell’aria una densa nube di polvere, strappando via la spessa ragnatela che l’avvolgeva. “Solo se berrai quest’acqua il tuo sogno si realizzerà” disse porgendogli la bottiglia.
Perplesso, il giovane bevve disgustato quell’acqua stagnante. Poi andò via.
L’uomo che realizzava i sogni lo accompagnò alla porta: chiuse l’uscio solo quando l’immagine di lui si dileguò nella boscaglia.

Il sole era tramontato. L’uomo sparecchiò il frugale desco, indossò il pigiama e si coricò aprendo un libro.

Al riparo della fitta boscaglia, il giovane si svestì.
“Finalmente” disse tra sé, sorridendo malizioso. Man mano che indossava gli abiti che aveva nascosto nel terreno, la sua voce assumeva un tono sempre più cavernoso. “Quell’uomo mi aveva proprio stufato. Con quella sua maledetta mania di realizzare i sogni degli altri, facendogli bere quella disgustosa acqua appantanata, stava causando la fine del mio regno.”
Con la labbra lanciò un fischio sibilante: tra i cespugli, comparve uno stallone nero più della notte.
Il diavolo lo cavalcò e si lanciò al galoppo nella selva. Una lugubre risata riecheggiò nel silenzio.

Prima di spegnere la luce e addormentarsi, l’uomo che realizzava i sogni, con le mani incrociate dietro la nuca, sorrise al soffitto.
“Povero Belzebù” pensò. “Credeva che non l’avessi riconosciuto. Bramoso di affermarsi, non ha pensato che l’unico modo perché gli uomini divengano facili prede del diavolo è proprio quello di offrire loro la possibilità di realizzare ogni loro desiderio. Impedendoglielo, sfiniti dai tormenti dell’anima perché ciò che desiderano non si realizza, imploreranno la grazia di Dio, rinnegando le passioni di cui sono schiavi, affidandosi alla sua misericordia. Che stupido il diavolo, non si è reso conto che chiedendomi di realizzare il suo desiderio ha realizzato il mio: finalmente l’umanità ha intrapreso il cammino verso la pace!”
Così pensando, Dio sbadigliò, spense la luce, e, dopo tanto tempo, non sappiamo quanto, finalmente si riposò!

Fine

 

MUSEO DI NAPOLI, FINALMENTE SI MUOVE QUALCOSA. SPERIAMO SI MUOVANO ANCHE LE ISTITUZIONI.

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Seppure a fatica e tra mille insidie, il Museo di Napoli, fondato e curato da Gaetano Bonelli, sta cominciando a farsi conoscere dai napoletani e dai turisti. Questo soprattutto grazie al passaparola di quanti, dopo averlo visitato, restandone affascinati, si attivano per farlo conoscere ad amici e parenti.

Allestito in uno spazio di 200 mq nella Casa dello Scugnizzo in Piazzetta San Gennaro a Materdei 3 per gentile concessione del dottor Antonio Lanzaro Presidente della Fondazione Casa dello Scugnizzo, Il Museo di Napoli, sarebbe meglio dire la Collezione Bonelli, consta di oltre diecimila pezzi originali tra locandine teatrali, bandi pubblici del regno borbonico e unitario, manifesti pubblicitari, foto, oggetti, documenti e tant’altro, raccolti dal curatore in oltre trentacinque anni di ricerche iniziate quando aveva appena dodici anni girando tra rigattieri e mercatini dell’antiquariato.

Il modo con cui Bonelli accoglie i visitatori è familiare, tipicamente napoletano. Prima di spalancare le porte di quella che lui a giusta ragione definisce la “stanza delle meraviglie”, li fa accomodare nel suo studio per spiegargli cosa stanno per vedere, non lesinando di “chiamare” il bar per offrirgli il caffè.

Dopo la dettagliata spiegazione, non avulsa da riferimenti critici verso le istituzioni le quali, pur avendo in più occasioni pubblicamente riconosciuto il valore storico e l’assoluta unicità della collezione, non sono mai andate al di là delle parole di prammatica o di qualche mera pergamena di encomio, l’ingresso nella sala espositiva catapulta gli ospiti in uno straordinario universo di ricordi cristallizzati nelle cornici alle pareti, nelle bacheche e nelle teche che adornano lo spazio dove è raccolta solo una minima parte dell’intera collezione, (dei locali a disposizione, al momento ne è utilizzato soltanto uno).

Nelle due ore di visita Bonelli spiega ogni singolo pezzo, partendo dal citofono di fine ottocento alla parete d’ingresso, abbinandovi aneddoti storici per sancire quanto fosse avanzato il Regno di Napoli rispetto all’Italia preunitaria. Scopriamo così che i veri inventori della mongolfiera furono i napoletani Vincenzo Lunardi e Tiberio Cavallo i quali non registrarono l’invenzione, consentendo ai fratelli francesi Montgolfier di appropriarsi del brevetto; che l’inventore della forchetta, la posata che quotidianamente usiamo a tavola per mangiare, fu Giovanni Spadaccini, gran ciambellano di corte, su ordine di re Ferdinando II di Borbone il quale, amando la pizza e gli spaghetti, chiese che si inventasse un oggetto che gli consentisse di mangiare quando era a corte ciò di cui era ghiotto senza servirsi delle mani, come era invece solito fare quando si travestiva da popolano e se ne andava in giro per la città; che Napoli aveva fabbriche di carte da gioco, di figurine di calciatori, di sigari per nulla inferiori come qualità ai toscani e agli avana, di guanti famosi in tutto il mondo, di birra e di cessi tutte ai primi posti in Europa.

Quelli di Bonelli non sono i vaneggiamenti di un nostalgico borbonico, ma di chi, nel corso degli anni, ha sacrificato la propria vita a Napoli, raccogliendo pazientemente, spendendo per giunta una fortuna, pezzi di ogni sorta che riguardassero la città. Preoccupandosi di unire l’utile al dilettevole, approfondendo in maniera certosina la storia di ogni singolo pezzo perché convinto che avrebbe acquistato valore agli occhi delle persone se fosse stato accompagnato da un pedigree.

Da grande affabulatore qual è Bonelli incanta i visitatori animando con le parole bottiglie, biglietti del tram e biglietti per piroscafi diretti oltreoceano – la White Star, la casa armatrice del Titanic, aveva navi che partivano da Napoli per le Americhe – caffettiere “napoletane”, mattonelle, timbri e matrici per carte da gioco tutte rigorosamente di produzione napoletana. Dimostrando che fin poco dopo la fine della seconda guerra mondiale Napoli continuava ad avere tante eccellenze che lentamente sono andate a scomparire, soprattutto per l’incapacità degli stessi napoletani di apprezzare quanto avevano, probabilmente perché ignoravano e tuttora ignorano la gloriosa storia della loro città. Forse perché indotti in questo da ambienti politici e culturali autoreferenziali che hanno fatto di tutto, e continuano a farlo, per cancellare ogni traccia del celebre passato di Napoli Capitale senza però proporre alternative concrete e costruttive in grado di rilanciare la città.

Oltre a oggetti e stampe di ogni genere, la Collezione Bonelli si fregia di documenti del Banco di Napoli che nemmeno la Fondazione Banco di Napoli possiede, a conferma della vastità del lavoro svolto dal suo curatore nel corso degli anni. Anche in questo caso tale lavoro è stato pubblicamente riconosciuto dai responsabili della fondazione in visita al museo per visionare quanto vi è raccolto.

Se vogliamo dirla tutta, la Collezione Bonelli è un libro sulla storia di Napoli scritto con gli oggetti quotidiani che hanno segnato gli ultimi centosessanta anni della città cui le istituzioni locali dovrebbero il giusto riconoscimento. Magari mostrandosi altrettanto sensibili come la Fondazione Casa dello Scugnizzo, mettendo a disposizione dei locali in un luogo storico dove poter esporre in maniera permanente l’intera collezione, dando modo a Napoli di fregiarsi di un Museo che la celebri in maniera così puntuale, cosa che nessun’altra città al mondo può vantare, e ai turisti di iniziare finalmente a comprendere cosa è Napoli.

Se è vero che bisogna conoscere il passato per comprendere il presente, acquisire la consapevolezza di quanto fosse all’avanguardia ed economicamente ricca la Napoli preunitaria rispetto al resto dell’Italia dell’epoca cozza con l’attualità dove appare una città in perenne disfacimento civile, sociale, urbanistico e strutturale, alla disperata ricerca di una propria identità; una città che fatica a decollare, malgrado gli sforzi delle varie amministrazioni succedutesi nel corso degli anni, dove i diritti dei cittadini garantiti dalla Costituzione qui diventano concessioni per pochi intimi da strapparsi con i denti, spesso rimettendoci qualcosa.

La Collezione Bonelli ci racconta di una Napoli al top. Com’è possibile che, all’indomani dell’unità, quella perla del mediterraneo, terza potenza economica e militare dell’epoca, sia diventata lo spettro di se stessa?

Onore alla Collezione Bonelli, la sua esistenza è una medicina per non dimenticare e, soprattutto, per ritornare a ricordare.

Chi di dovere si impegni affinché questa medicina sia disponibile per tutti, non solo per pochi privilegiati.

La presa di coscienza è la sveglia perché ogni popolo si rimbocchi le maniche e si dia da fare per costruire una società migliore per i propri figli!

Premesso che questa sveglia la si voglia dare davvero…

 

Vincenzo Giarritiello

 

UN UOMO FELICE

All’inizio incontrò la felicità cavalcando l’infinita onda della vita in un oceano nutriente.

Attraverso la spirale ombelicale, godeva della frenesia dei sensi di cui era preda sua madre ogniqualvolta suo padre la stringeva a se e l’amava dolcemente, accarezzandole i seni gonfi di vita, baciandola con passione, niente affatto inibito dal pancione che ella orgogliosamente mostrava. Entrambi erano consapevoli di rendere partecipe loro figlio racchiuso nel ventre di lei dell’amore che li univa e d’aiutarlo, in quel modo, a crescere felice.

Per nove mesi si avventurò in un mare d’emozioni, navigatore solitario alla scoperta di un mondo oscuro, dove l’eco sfocata d’incomprensibili parole sussurrate con dolcezza si dissolveva nell’infinità del sogno.

L’incanto di quegli istanti svanì nell’attimo in cui le acque iniziarono a fluire attraverso il canale esistenziale, trascinandolo con sé, e mani guantate lo strapparono all’oblio.

Riconobbe la felicità nel capezzolo colmo di latte che ogni quattr’ore gli si accostava alle labbra. Succhiandolo, riascoltava il ritmo che aveva scandito il lento evolversi della sua vita embrionale, addormentandosi felice perché il sogno era ripreso.

Crescendo, la felicità assunse il gustoso sapore degli omogeneizzati e della crema di riso che si stropicciava, impertinente, su tutta la faccia, suscitando la gioia di quanti lo guardavano pasticciare in quel modo.

Felicità era infilare le dita nel bicchiere colmo di succo di frutta che sua madre gli porgeva preoccupata, sperando che non lo riversasse sul pavimento appena lavato.

Felicità fu strappare le orecchie ad un cagnolino di pezza regalatogli dai nonni per la sua festa, o schizzare l’acqua mentre faceva il bagno circondato da pesciolini di plastica e anatroccoli di gomma.

Nei primi anni di scuola, la felicità assunse i dolci tratti del sorridente viso della maestrina che, pazientemente, insegnava a lui e agli altri bimbi a leggere e a scrivere. Spesso fingeva di non sentirsi bene in modo che lei lo tenesse vicino a sé fino a quando la mamma non lo andava a prendere.

Felicità fu la sagoma svettante di un abete ornato di luci e festoni, con tanti pacchi colorati, raccolti sotto rami colmi di aghi, che non vedeva l’ora di scartocciare per scoprire se dentro ci fosse il giocattolo tanto desiderato che gli era costato promesse impossibili da mantenere.

Da ragazzo la felicità si disciolse nel sale del sudore che gli solcava il viso mentre, in pantaloncini e scarpette chiodate, rincorreva, insieme con una frotta di ragazzini festanti, una sfera di cuoio rotolante sul prato dei giardini pubblici, incitato a gran voce da suo padre che gli gridava di fintare e di passare la palla al compagno smarcato sull’ala.

Tredicenne scoprì la felicità fluirgli tra le dita di una mano in un liquido denso simile a burro fuso. Lo scoprì mentre sfogliava, chiuso nel bagno, la rivista prestatagli dal compagno di banco: fissando con gli occhi sgranati i corpi delle donne nude ritratti sulle pagine patinate, l’essenza della vita si riversò nelle pieghe della mano donandogli un caldo piacere.

Comprese quanta vacua fosse quella felicità solitaria alcuni anni dopo, durante una festa di compleanno di un compagno… Per gioco, ballando con un’amica, accostò le labbra alla sua bocca assaporandone la timida e gustosa acerbità. Stringendola a sé, in un’interminabile danza senza musica, il calore della sua femminilità gli dilatò le vene e il cuore. In quegli attimi riconobbe la felicità nello sguardo timoroso di una fanciulla che, all’improvviso, scopriva d’esser ormai pronta per diventare donna.

La travolgente forza della felicità lo sorprese l’ultimo anno di liceo, tra le ardenti braccia di una ninfa mediterranea che lo stordì con l’ansante galoppo dei sensi, trascinandolo in un turbinio di emozioni appagate quando il fiume del desiderio fu prosciugato dalla sete di lei.

Felicità fu una notte al chiaro di luna, su una spiaggia deserta, ad ammirare una bionda sirena dagli occhi dell’acqua uscire dal mare, vestita solo della sua pelle di stelle, distenderglisi accanto e offrirsi alle carezze dalle sue mani impazienti. Sfiorando le sinuosità di quella venere da fiaba, la felicità ammantò le loro anime nude unendole nell’eternità, al canto del mare, sull’umido arenile.

Felicità fu giurare eterno amore,in un piccola chiesa di campagna, a una donna che lo amava più della sua vita, attorniati da una folla festante che applaudiva sotto lo sguardo paterno e felice di un giovane prete.

Felicità fu stringere tra le braccia il figlio appena nato. Sentire le sue esili mani aggrapparsi al cotone della camicia nella disperata ricerca di una mammella cui nutrirsi per continuare anche lui a sognare.

Da vecchio, felicità fu alzarsi presto al mattino, farsi la barba con un pennello schiumoso, tendendo l’orecchio al caffè che sua moglie aveva messo sul fuoco; aprire il balcone e affacciarsi alla ringhiera con la tazzina fumante nella mano per il piacere d’ascoltare i rumori della città che lentamente si ridestava dal sonno, osservando dalle finestre aperte le mamme preparare i figli per la scuola o i mariti salutare dalla strada le mogli affacciate alle finestre.

Felicità fu lasciarsi annodare la cravatta dalla tremanti mani della sua donna imbiancata dagli anni e uscire di casa per comprare il pane caldo e il giornale che avrebbe sfogliato fino a quando l’orda di nipoti impazziti non avrebbe invaso la tranquilla esistenza di due vite felici ormai prossime al tramonto.

In ogni istante della vita riconobbe la felicità perché non finì mai di cercarla, perfino quando la malattia lentamente lo trasformò in un infante inerme dai ricordi confusi.

In punto di morte, i volti affranti dal dolore delle persone care si trasformarono in un luminoso cerchio di ricordi felici che avevano segnato la sua semplice esistenza di uomo capace di trovare la felicità anche nella sofferenza e nel dolore, perché per lui felicità fu vivere la sua semplice vita d’uomo fino all’ultimo respiro in cui suo figlio gli chiuse gli occhi ormai privi di luce.