A POZZUOLI ANN PIZZORUSSO HA PRESENTATO IL SUO “CODICE DA VINCI”

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Di seguito la versione integrale dell’articolo pubblicato su comunicarsenzafrontiere

Pozzuoli.

Serata davvero speciale quella di sabato 23 marzo da Lux In Fabula: per la rassegna QUATTRO CHIACCHIERE CON L’AUTORE, si è presentato il volume TWITTANDO DA VINCI di Ann Pizzorusso, geologa americana di origini italiane.

Il volume è un’analisi di come la conformazione geologica di un determinato territorio possa influenzarne la storia. Partendo dalla Pangea, “il supercontinente che si ritiene includesse in un unico blocco tutte le terre emerse della Terra durante il Paleozoico e il primo Mesozoico”, fino all’attuale deriva dei continenti e al riavvicinamento dell’africa all’Europa, la studiosa dimostra in maniera convincente la tesi supportata da foto, grafici e fatti di cronaca che fanno parte della storia dell’umanità.

L’intuizione le sorse osservando il dipinto LA VERGINE DELLE ROCCE di Leonardo Da Vinci: i particolareggiati dettagli geologici ritratti dal genio italico nella sua opera, la convinsero che non fossero solo un perfezionamento artistico, ma una sorta di codice – a questo punto non possiamo non pensare a IL CODICE DA VINCI di Dan Brown – attraverso cui Leonardo voleva comunicare un’idea, un pensiero ben preciso inerente all’influenza che la conformazione geologica di un territorio avrebbe sulla sua storia politica e sociale.

Partendo da questo punto fermo, l’autrice ha intrapreso uno studio comparato tra geologia e storia, dimostrando come la prima abbia influenzato in maniera imprescindibile la seconda.

Amante degli etruschi, la Pizzorusso è riuscita a fornire prove che centri etruschi quali Orvieto, Chiusi, Perugia, Tarquinia furono volutamente costruiti in aree magneticamente negative perché, come in seguito la scienza medica ha dimostrato, influiscono positivamente sullo sviluppo psicologico dell’individuo. A riguardo è impossibile non pensare al tempio di Delfi e al suo famoso oracolo: recenti studi hanno dimostrato che dal sottosuolo su cui sorgeva il tempio, si emanavano gas in grado di alterare lo stato di coscienza degli individui, per cui le famose profezie dell’oracolo sarebbero visioni indotte al veggente dai gas che respirava.

Ovviamente, per le tematiche affrontate, lo studio tocca anche l’area geotermale dei campi flegrei in cui anticamente si riteneva fosse situato l’accesso agli inferi, Virgilio e Omero docet. Senza trascurare che il bradisismo, il periodico innalzamento e abbassamento del sottosuolo fenomeno tipico di queste zone, ha indotto in epoche remote, ma non solo, a veri e propri esodi di enormi masse di gente da un punto a un altro del territorio: formazione di Montenuovo nella metà del 1500; agli inizi del 1970 con l’evacuazione del Rione Terra cui seguì prima l’edificazione del rione Toiano e poi quella di Monteruscello dove gli sfollati furono trasferiti in veri e propri casermoni di cemento dove tutt’ora risiedono con disagi che non stiamo a raccontare.

Lo studio della Pizzorusso non si limita all’analisi di opere pittoriche, ma spazia anche in campo letterario inglobando, oltre a Virgilio e Omero già citati, Dante e il suo “viaggio” dall’Inferno al Paradiso narrato nella Divina Commedia.

Se fosse stato scritto da un’autodidatta, appassionata di queste tematiche ma priva di titoli accademici che ne avvalorassero in maniera autorevole le ipotesi azzardate, probabilmente in molti avrebbero guardato al lavoro della Pizzorusso con sufficienza, se non con irrisione. Trattandosi invece di una geologa accreditata, i suoi studi non solo meritano l’attenzione dovuta, ma hanno suscitato l’interesse di una parte del mondo accademico che ne ha ufficialmente riconosciuto i fondamenti e i meriti.

Quanto prima contiamo di intervistala per farci meglio spiegare la sua teoria.

Vincenzo Giarritiello

GAETANO BONELLI E LA SUA COLLEZIONE SU NAPOLI IGNORATA DAI PIÙ

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Di seguito l’intervista integrale pubblicata su comunicaresenzafrontiere.it

 

Molto probabilmente in pochi avranno sentito parlare della “Collezione Gaetano Bonelli – “Pro” Museo di Napoli”, esposta a Napoli nella CASA DELLO SCUGNIZZO in Piazzetta San Gennaro a Materdei, 3. In oltre trent’anni il fondatore e curatore Gaetano Bonelli, girando per i mercatini di antiquariato e per i rigattieri, ha raccolto documenti e oggetti riguardanti la storia di Napoli pre e post unitaria, collezionando oltre diecimila pezzi di cui al momento ne sono visibili solo una minima parte per motivi di spazio. Gaetano è un’enciclopedia vivente. Affidandosi alla sua sapienza si apprende che l’inventore della mongolfiera non furono i fratelli Montgolfier, ma i napoletani Vincenzo Lunardi e Tiberio Cavallo i quali prima migliorano il prototipo dei Montgolfier, quindi inventarono la mongolfiera a idrogeno. Così come si apprende che la forchetta,la posata per intenderci, fu creata da Gennaro Spadaccini, gran ciambellano di Ferdinando II di Borbone, su ordine dello stesso Re Lazzarone il quale voleva si ideasse uno strumento che gli consentisse di mangiare durante i pranzi a corte la pizza e gli spaghetti non con le mani, come invece era solito fare quando si mischiava tra il popolo. In breve quell’oggetto dalle fattezze di un piccolissimo forcone si affermò nelle corti di tutta Europa. Per oltre un’ora Gaetano mi ha illustrato con una dialettica affascinante la storia di ogni singolo pezzo che mi mostrava, dando l’impressione che lui e l’oggetto fossero un’anima sola. A proposito di anime, nella sezione dell’emigrazione, esposta nella teca vi è la foto spezzata di una famiglia di emigranti napoletani. Mostrandomela, Gaetano mi racconta di come ne acquistò prima un pezzo e in seguito, dallo stesso rigattiere, trovò anche l’altra metà, asserendo: “dando vita a questa collezione, ho imparato che anche gli oggetti posseggono l’anima gemella con cui, prima o poi, si ricongiungeranno”. Al termine del “viaggio” in quel mondo delle meraviglie, abbiamo fatto una lunga chiacchierata i cui mi ha raccontato la storia della sua collezione.

Della collezione ne hanno parlato a livello nazionale giornali e telegiornali. Addirittura il TG2 vi dedicò un servizio di oltre tre minuti. Su youtube vi sono diversi video che la riguardano; mentre Artribune di marzo c.m. ne parla in un lungo articolo.

Chi volesse informazioni sulla collezione o fosse interessato a visitarla, più telefonare al 3404844132

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Gaetano dall’età di 12 anni ti sei accollato l’onere, ma oserei dire anche l’onore, di raccogliere materiale sulla storia di Napoli pre e post unitaria, creando la collezione Gaetano Bonelli che, possiamo dirlo senza esagerazioni, è la massima raccolta demo-etno-antropologica sulla città di Napoli esistente al mondo. Come nasce questa tua passione?

Nasce da un desiderio e, al tempo stesso, da un’esigenza: da ragazzino mi innamorai di Napoli e avvertii il dovere di fare qualcosa per la mia città. All’epoca mi iscrissi al Vico, ma lo frequentai poco perché, non appena potevo, marinavo la scuola per visitare i vicoli, le piazze, le strade, le chiese, i musei di Napoli. Come accade in questi casi, inevitabilmente nacque un rapporto di odio-amore perché da un lato imparai a scoprirne le tante meraviglie che la caratterizzano, dall’altro vidi il degrado in cui molte di queste meraviglie versavano. Come un novello Goethe, giravo la città in lungo e in largo per scoprire cose nuove. Con piacevole stupore appresi che Napoli è la città con il maggior numero di chiese e castelli al mondo e ha il centro storico più esteso del mondo. Contestualmente, mi resi conto che bisognava fare qualcosa per salvare tutto ciò dall’abbandono e dal degrado.

In tutti questi anni trascorsi girando tra mercatini e rigattieri, quanti pezzi hai raccolto?

Pur non avendo finora mai fatto un inventario, cosa che mi propongo di fare, ma che poi, per tanti motivi, sono costretto ad accantonare, verosimilmente la raccolta consta di oltre diecimila testimonianze raccolte per aree tematiche. Questa è la peculiarità, ma anche l’unicità della raccolta che è l’unica al mondo del genere caratterizzata da ben venti aree tematiche aventi per oggetto rigorosamente Napoli. Grazie a questa collezione si ha modo di ripercorrere un viaggio nella memoria, un viaggio nella storia fatto di fascino, di emozioni, di continue scoperte.

La tua collezione oggi è esposta presso la sede della Città Dello Scugnizzo che ti ha messo a disposizione uno spazio di ben duecento metri quadri…

Pur avendo a disposizione un simile spazio, al momento la mostra si articola in un salone di cinquanta metri quadri. Le altre stanze necessitano di un allestimento e di una riqualificazione. Cosa che conto di fare quanto prima, ovviamente in relazione alle mie disponibilità. Il tutto mi è stato messo a disposizione dalla Fondazione Casa dello Scugnizzo nella persona del Presidente, il Professor Antonio Lanzaro, il quale, a dispetto di quanti dopo aver visto la raccolta, restando esterrefatti, avevano promesso che si sarebbero impegnati per garantirmi uno spazio espositivo adeguato ma poi hanno puntualmente disatteso le promesse e gli impegni, mi concesse, fidandosi sulla mia parola, senza visionare la collezione, una stanza di dodici metri quadri dove il 12 ottobre del 2017 inaugurammo la “wunderkammer”, la camera delle meraviglie o delle curiosità. Poi dal 12 giugno del 2018 il tutto è stato allargato nel modo in cui lo vedete oggi.

Le istituzioni sono sensibili al tuo lavoro, ti sostengono, ti danno una mano?

Purtroppo con mio grande dolore questo non è avvenuto. Paradossalmente il tutto suona quasi come uno smacco a fronte di riconoscimenti, di encomi, attestazioni di stima, di apprezzamenti verbali. E a fronte di impegni, alcuni solenni di rappresentanti istituzionali. A tutto ciò è seguito un silenzio assordante che mi lascia solo e mi amareggia giacché non posso permettermi di fermarmi. Ho il dovere con me stesso di salvaguardare questa raccolta avendole dedicato oltre trent’anni della mia esistenza e non posso dare ragione a quanti in maniera perversa e cinica gradirebbero che il degrado e le ignominie abbiano la meglio. Io sto portando avanti una battaglia di bellezza e di cultura, di civiltà e civismo, di generosità e impegno verso quello che deve essere l’operazione di propaganda, una battaglia antitetica a ogni forma di nepotismo e di cultura basata su logiche salottiere e quindi questo è un discorso che a certi potentati suona come una stonatura. Questa è la casa di Napoli, dove chiunque può sentirsi autorizzato a essere partecipe a questo progetto di recupero e divulgazione della nostra storia!

Le scuole si mostrano interessate?…

Nonostante abbia più volte sollecitato i docenti amici o conoscenti a organizzarsi per portare gli alunni a visitare la collezione, la risposta è quasi zero. È come nel caso delle istituzioni: una volta vista la collezione, tutti si dicono entusiasti, ripromettendosi di venire, ma poi… In un anno e mezzo, da quando ho aperto, sono venute solo due scuole con due scolaresche: una l’anno scorso e l’altra una settimana fa. Quest’ultima è l’istituto superiore Minzoni di Giugliano che mi ha manifestato particolare interesse. Lasciami dire che questa raccolta è stata creata soprattutto per i giovani: in un anno e mezzo la più grande soddisfazione, la più sincera manifestazione di affetto e di stima l’ho avuta proprio dai ragazzi i quali, quando vennero, mi mostrarono una tale attenzione che stupì gli stessi professori che mi fecero i complimenti per il “miracolo” che avevo compiuto catalizzando su di me l’attenzione degli alunni. Considera, fu tale l’apprezzamento che sortii nei ragazzi che poi fui invitato alla loro cena di fine anno per ripagarmi delle emozioni che gli avevo regalato in quelle due ore e più di visita testimoniata dalla frase che scrissero sul registro delle presenze qui al museo: “Grazie Gaetano per avere arricchito la nostra cultura e per averci ospitato in questa struttura bellissima. Hai un cuore grande quanto Napoli”. Tutto ciò smentisce le dicerie secondo cui i giovani sono insensibili a certe realtà. Sono gli adulti che non sanno, o non vogliono, avvicinarli al mondo della cultura!

Gaetano, sei mai colto dallo sconforto? Sei mai attraversato dal fatidico dubbio, “ma chi me lo fa fare?”

Sono provato perché tutto ciò richiede uno sforzo che oramai sento di non essere più capace di sostenere. Le energie che vado a profondere dovrebbero essere dirottate verso qualcosa di propositivo, mentre sono letteralmente dissipate per dover ottemperare a una serie di richieste e a una serie di situazioni che a questo punto mi dovrebbero per certi aspetti essere dovute, non fosse altro perché io mi sento custode pro tempore di questa raccolta che ho messo a disposizione della città. E la parte civile della città dovrebbe avvertire almeno il desiderio di essere vicina a chi si spende per Napoli. Invece avvengono casi vergognosi come quello di Gerardo Marotta: quando scomparve, si affrettarono ad affiggere un manifesto con scritto GRAZIE GERARDO! Quando si muore non si dà più fastidio, non si è più pericolosi. Gerardo Marotta, scomparso alla soglia dei novant’anni, ci lasciò con il desiderio di veder realizzata la sua biblioteca. Napoli dovrebbe capire che ci sono delle testimonianze e ricchezze, realtà verso cui dovrebbe essere più rispettosa e orgogliosa e che esistono persone che si spendono per la città le quali, anziché essere emarginate, dovrebbero essere messe nella condizione di poter concorrere al riscatto della città, anche in maniera sinergica e cooperativistica. Qui invece esistono i vari individualismi dove ognuno, dando libero sfogo a un egocentrismo sterile, si sente depositario del verbo della realtà e capace di realizzare qualsiasi cosa. Invece solo unendosi, solo facendo un gioco di squadra si possono ottenere grandi risultati.

Le istituzioni e il mondo della cultura napoletana hanno preso atto della tua realtà…

Certo. Molti rappresentati delle istituzioni e delle accademie sono venuti a visitare la collezione, riconoscendole un valore di interesse unico nel suo genere. Promettendo che si sarebbero attivati perché avesse il giusto riconoscimento. Sto ancora aspettando!

CON GIANNI BICCARI PER LE STRADE DI NEW ORLEANS

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Di seguito l’intervista integrale apparsa su comunicaresenzafrontiere.it


Sabato 16 marzo all’Art Garage – Viale Bognar, 21/Pozzuoli, adiacente alla stazione della metropolitana FS– si è inaugurata la mostra fotografica “NEW ORLEANS, 1995” di Gianni Biccari.

Le foto, rigorosamente in bianco e nero, sono un reportage di strada scattato dal maestro durante il suo viaggio di nozze con la moglie Genny nel 1995. L’esposizione, che rientra nella rassegna “ArtinGarage” curata dallo stesso Biccari, durerà fino al 29 marzo: sarà aperta al pubblico dal lunedì al venerdì dalle 10 alle 22; il sabato dalle 10 alle 20.

In via del tutto eccezionale si potrà visitarla anche la domenica, ma solo previo appuntamento telefonando al numero 338805491.

Presenti all’inaugurazione, ne abbiamo approfittato per porre alcune domande all’artista.

Gianni a ottobre hai esposto al PAN con una rassegna di foto di scena che ha avuto un ottimo successo di pubblico e di critica cui sono seguiti altri eventi che ti hanno visto protagonista; oggi siamo qui per questa nuova mostra: possiamo considerare terminato il divorzio tra te e la fotografia?

Assolutamente sì! anche se, più che di un divorzio, si è trattato di una pausa di riflessione. Il rapporto di “coppia” è ripreso con maggiore vigore. Mi fa piacere presentare queste fotografie di New Orleans perché è il mio unico reportage di strada.

Tu sei ufficialmente un fotografo di Teatro di figura, ossia marionette…

Lo sono stato fino a qualche anno fa assiduamente, oggi mi interesso di altro ma quel tipo di spettacoli mi sono rimasti nel cuore: non hai idea del fascino e della bellezza che si cela dietro le quinte

Come mai questa scelta del teatro di figura?

È stato un naturale evolversi: frequentando l’ambiente teatrale mi si è presentata l’opportunità e ho documentato i vari festival in giro per l’Italia. A proposito di ciò, giovedì sono stato invitato a Cividale del Friuli per la giornata mondiale della marionetta, organizzata da UNIMA, dove esporrò una mostra che già ho presentato in altre occasioni dove ritraggo gli animatori all’interno dei teatrini mentre muovono i burattini.

Questo è il secondo anno che curi questa rassegna, cosa ti ha spinto ad assumerti tale onere?

Prima di tutto la passione per la fotografia e, come ti ho già detto prima, il ritorno di fiamma con la macchina fotografica. E poi perché oggi c’è una sovraesposizione fotografica, ma tutta in virtuale sparsa tra social, telefoni e hard disk. Invece secondo me le fotografie devono essere stampate e appese al muro per essere ammirate da tutti!

Questo vale solo per voi fotografi di professione o per chiunque coltivi la passione fotografica?

Per chiunque ami la fotografia. Non a caso in questa edizione espongono anche giovani validi che non necessariamente fanno della fotografia la loro professione. Ad esempio hanno già esposto i ragazzi di “Scrivendo con La Luce” che hanno presentato un lavoro bellissimo sulla metropolitana di Napoli che ritengo dovrebbe rimanere come dono alla città.

Dopo questa mostra cosa hai in programma?

Oltre alla rassegna sul teatro delle marionette a Cividale del Friuli, sto cercando di elaborare un progetto a medio-lungo termine giacché non considero il singolo scatto un’immagine a se stante bensì parte di un racconto, di un vissuto articolato. Non faccio mai una foto fine a se stessa, ma la penso sempre all’interno di un contesto più ampio di cui rappresenta un momento imprescindibile dagli altri. Non a caso le sequenze delle mie mostre sono raggruppate per temi.

Per il prossimo anno cosa ci dobbiamo aspettare?

Ho pronto un reportage su Matera, un altro su Firenze. Ma soprattutto vorrei allestire una mostra su Parigi! Ci sono stato già tre volte, conto di ritornarci per completare gli scatti per poi poterla finalmente esporre a Napoli, magari in un ambiente istituzionale o associativo legato alla Francia. Consentimi di ricordare con una punta di orgoglio che quando nel 2007 ci fu a Napoli la Notte Bianca gemellata con Parigi, l’allora assessore alla cultura, sapendo che avevo una mostra fotografica sulla “ville lumiere” che aveva girato per l’Italia, mi chiamò perché la esponessi. La sorpresa fu che durante il concerto di Pino Daniele, il clou di quella “notte”, cui intervenne Giorgia, le mie foto furono proiettate ai lati del palco con il mio logo. Ecco posso dire che quello è stato in assoluto il momento più bello della mia carriera fotografica.

In futuro possiamo aspettarci qualcosa sui Campi Flegrei?

Sì, non escludo che potrebbe essere questo il progetto a medio-lungo termine cui accennavo prima…

 

Vincenzo Giarritiello

CARLO SANTILLO, IL CARONTE DEI CAMPI FLEGREI

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Nella foto Carlo Santillo il “caronte” della pseudo Grotta della Sibilla sul Lago d’Averno a Pozzuoli

Fino al 2014 la pseudo Grotta della Sibilla sul Lago d’Averno era uno dei principali siti d’attrazione turistica dei Campi Flegrei. Se ne prendeva cura Carlo Santillo la cui famiglia per più generazione ha svolto il ruolo di “caronte” trasportando in spalla da una vasca all’altra della grotta i visitatori che venivano a Pozzuoli per ammirarla. Dal 2015 la Grotta è abbandonata in quanto don Carlo per motivi di salute non è più in grado di svolgere il ruolo di custode e di guida. L’intervista che segue risale al 2003, fu pubblicata sul Bollettino Flegreo nel 2004.

Oggi la Grotta, come tanti altri siti archeologici di Pozzuoli e dei Campi Flegrei, versa in uno stato di assoluto abbandono e desolante degrado. Speriamo che quanto prima qualcuno si “svegli” dal sonno e si adoperi per recuperarli, ridonandogli lo splendore di un tempo.

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Ancora oggi, a distanza di oltre cent’anni, sul lago d’Averno esiste una figura per tanti aspetti mitica che, nonostante la veneranda età, si prodiga con tutte le sue forze per proseguire una tradizione familiare ufficialmente iniziata verso la fine del XIX secolo. Stiamo parlando di Carlo Santillo, ACCOMPAGNATORE DELLA GROTTA DELLA SIBILLA IN LOCALITA’ AVERNOcome è segnato sul biglietto da visita dietro cui don Carlo ha fatto stampare il tracciato da percorrere in auto per raggiungere la grotta da Napoli via tangenziale.

Conobbi don Carlo un pomeriggio di giugno 2004 mentre passeggiavo intorno al lago godendomi la quiete del posto. Giunto all’altezza del viale che conduce alla grotta, la mia attenzione fu attratta da una comitiva di ragazzi che dal sentiero si riversava sulla via. Incuriosito mi incamminai sul viottolo ombrato da una fitta vegetazione. Percorso pochi metri, giunsi davanti alla spelonca. All’interno scorsi un uomo anziano spazzare con cura l’atrio illuminato dai riverberi di luce. Continuando a ramazzare, l’uomo volse su di me il viso magro adorno di occhialini attraverso cui scintillavano gli occhi sottilmente indagatori. Un berretto da caccia gli copriva il capo. Nonostante il caldo indossava un giubbetto di stoffa per proteggersi dall’umidità che ristagnava nella grotta.“Buongiorno”, mi salutò accatastando al suolo un mucchio di sporcizia. “Volete visitare la grotta?” “Sono solo e non voglio disturbarvi”. “Nessun disturbo. Lasciatemi finire e vi accompagno” Zoppicando si avvicinò a una nicchia scavata nella roccia per prendere da una cassa di legno la paletta. “Da poco è andata via una scolaresca, forse l’avete incrociata venendo” disse raccogliendo con fare certosino la spazzatura. “I turisti non hanno alcun rispetto, disseminano mozziconi e cartacce dappertutto. E a me tocca ogni volta ripulire perché la grotta sia presentabile”. “La grotta è vostra?”. “No. Io faccio solo l’accompagnatore. Venite!” Lo seguii verso la parete interna del cunicolo dove era infissa una mensola con su poggiate delle lampade da campeggio. Ne accese una e me la porse. “Tenete, senza queste non si va da nessuna parte. State attento a non bruciarvi.” Ne accese un’altra per sé, prendendo anche quella spenta, aggiungendo: “Per emergenza, non si può mai sapere!” Accompagnati da quell’incoraggiante viatico ci avviammo incontro al mistero. Man mano che avanzavamo nel buio alla luce delle torce, don Carlo mi parlò della grotta“Scoperta durante gli scavi archeologici promossi dai Borbone nel 1750 e successivamente nel 1792, la grotta è lunga duecentocinquanta metri ed è famosa per la sua discesa agli inferi, un budello scavato a gomito nella roccia che conduce a un corso d’acqua. In passato il fiumiciattolo si guadava trasportati sulle spalle di un moderno Caronte per visitare le stanze della Sibilla sull’altro versante oggi raggiungibile a piedi.” “Chi era questo moderno Caronte?” chiedo incuriosito. “Lo stesso accompagnatore! Fino al 1930, epoca in cui mio padre completò l’intero scavo del cunicolo, consentendo l’ingresso alle stanze direttamente a piedi, la grotta era lunga circa la metà, e per giungere lì dove si presume fosse la Sibilla bisognava attraversare il corso d’acqua sul fondo della cavità” dice fermandosi davanti a un cunicolo che si incunea nelle parete.“Vi faccio strada” Scendiamo fino a quando davanti a noi appare uno spettacolo fantastico. Illuminata dalle torce una vena d’acqua filtra nel fondo del cunicolo, svoltando in un’ansa che immette nelle stanze della Sibilla. Osservando il suggestivo scenario non mi stupisco che in passato si pensasse che quello fosse il passaggio agli inferi di cui parlano Omero e Virgilio nelle loro opere. “Una volta condotti fin qui i turisti, l’accompagnatore se li caricava a turno sulle spalle guadando il fiume per mostrare loro le stanze. Accompagnatori furono mio nonno, mio padre e tuttora io.”Ascoltarlo raccontare della sua famiglia accompagnatori da tre generazioni; ammirare l’impegno con cui da solo accudisce la grotta a proprie spese, senza percepire il minimo contributo dalle autorità o da altri, mi induce a proporgli un’intervista per capire cosa lo spinge a fare tutto ciò.Con don Carlo ci risentiamo telefonicamente dopo alcuni giorni e fissiamo l’appuntamento per le nove di sera davanti al sagrato della chiesa del Carmine a Pozzuoli. Nel chiarore dei neon distinguo l’inconfondibile figura di don Carlo venirmi incontro. Sul capo sgombro dal berretto risalta la rada schiera di capelli bianchi perfettamente ordinati. Indossa un elegante gilet porpora dalla trama arabescata. Mi saluta con simpatia. Sorridendo gli stringo la mano chiedendo se ha già cenato. “No, ma non vi preoccupate, alla mia età si mangia poco.” Insisto per offrirgli una pizza, alla fine accetta. In pizzeria mi presento al proprietario chiedendogli se nel locale c’è un posto dove possiamo parlare senza essere disturbati. Lui annuisce e ci guida nella sala interna ingombra di tavoli vuoti. Ci sediamo al desco l’uno di fronte all’altro. Traggo dalla borsa il registratore e lo sistemo sul tavolo. Don Carlo lo fissa spaventato. “Ma che fate, registrate?” si raddrizza sulla sedia. Non è la prima volta che intervisto qualcuno. E ogniqualvolta estraggo il registratore per non perdere nemmeno una parola di ciò che si dirà, tutti si allarmano! “State tranquillo” lo rassicuro. Pigio il tasto di registrazione dando il via alla nostra storia.

“Don Carlo come nasce la figura dell’accompagnatore della Grotta della Sibilla dell’Averno, il cosiddetto moderno Caronte?” “Il capostipite fu Del Giudice Lorenzo impiegato del genio civile di cui mio nonno Carlo sposò una delle sette figlie. Siamo intorno alla fine del milleottocento. Allora la strada che conduce da Lucrino all’Averno era ammantata di brecciolino e non asfaltata come oggi. Per agevolare l’afflusso delle carrozzelle con i turisti, Del Giudice e i suoi aiutanti, tra cui mio nonno, si adoperavano per tenerla sempre in ottimo stato, estirpando l’erba che cresceva ai lati, spianando e bagnando il terreno per evitare che al passaggio delle carrozze si levasse la polvere infastidendo i turisti. All’epoca il maggior afflusso di visitatori all’Averno e alla grotta era in autunno, in inverno e a Pasqua. Per fronteggiare la marea di gente il suocero di mio nonno allestì un gruppo di aiutanti per traghettare in spalla i turisti che volevano scendere negli inferi per visitare la stanza della Sibilla. D’estate invece i turisti diminuivano e da solo Del Giudice riusciva a fronteggiare le esigenze del pubblico per cui mio nonno, che tra l’altro era un valente pescatore, insieme agli amici se ne andava a La Spezia a pescare. Quando Del Giudice andò in pensione, non avendo figli maschi propose mio nonno al genio civile perché ne prendesse il posto. Inoltre gli cedette anche il ruolo di accompagnatore della grotta che di seguito occupò mio padre e quindi io. Approssimativamente sono centotrenta, centoquaranta anni che nella mia famiglia facciamo questo mestiere. Io iniziai nel 1946, dedicandomi a tempo pieno all’attività fino al 1960 quando mi impiegai nelle poste. Ma appena potevo aiutavo mio padre. Ho ripreso da quando sono andato in pensione nel gennaio del 1995.” “Don Carlo cosa la spinge a proseguire quest’attività? La volontà di non infrangere la tradizione di famiglia, la passione, o..?” “L’una e l’altra! Certamente non per interesse. Sono un pensionato e, a dire la verità, quel poco che guadagno accompagnando la gente lo spendo per far fronte a tutte le mascalzonate arrecate dagli sconosciuti alle infrastrutture della grotta. Più volte ho dovuto riparare il cancello d’entrata perché manomettevano la serratura per entrarvi. Addirittura alcuni anni fa realizzai un impiantino elettrico alimentato da accumulatori che rischiarava i cunicoli e le stanze. Durò quindici giorni poi scassarono tutto!” “Don Carlo ma i lavori di manutenzioni li paga lei?” “Si capisce! Li pago io di tasca mia fino all’ultimo soldo. Nessuno mi sostiene… Si rompe il muro? Chiamo il muratore e lo faccio riparare. Manomettono il cancello? Chiamo il fabbro e lo faccio aggiustare. La passerella che c’è nelle stanze marcisce? Chiamo il falegname e faccio sostituire le assi. Tutto a spese mie! Mai nessuno s’è degnato di ringraziarmi per tutto ciò! A parte ovviamente i visitatori i quali, chiedendomi ragguagli sulla grotta, come lei si sorprendono che faccia tutto da solo, finanche da spazzino pur di tenere il luogo in ottimo stato. Consideri che quando pulisco il vialetto d’accesso dal fogliame, durante il periodo invernale sono costretto a spazzare anche in mezzo alla strada per rendere transitabile il tratto che conduce alla grotta.” “Ha mai pensato di cercarsi un aiutante?” suggerisco mentre don Carlo si versa da bere un bicchiere d’acqua minerale. Bevendo il suo sguardo attento e luminoso mi scruta al di sopra del bicchiere. “Al giorno d’oggi non c’è tutta quell’affluenza di gente da giustificare la presenza di un aiutante “ dice posando il bicchiere sul tavolo. “Solo il lunedì dell’Angelo e il primo maggio mi ci vorrebbe effettivamente un po’ d’aiuto. Per il resto faccio da me!” Il velato orgoglio, misto a una punta di ostinazione, che traspare dalle sue parole mi induce a credere che, considerandola un bene di famiglia, l’idea di condividere la grotta con qualcun altro non gli piace affatto. Se così fosse non lo si potrebbe biasimare ripensando alla fatica e al sudore versati dai suoi avi mentre negli anni trasportavano in spalla i turisti per garantire il pane ai propri figli. Fu proprio la paura che questo pane venisse improvvisamente a mancare che il padre di don Carlo, Alessandro Santillo, nel 1932, allorché Amedeo Maiuri scoprì l’attuale antro della Sibilla nell’acropoli di Cuma, si rivolse a Raimondo Annecchino affinché intervenisse perché l’archeologo non sconfessasse con la propria autorità la grotta dell’Averno. “Dopo aver scoperto l’antro di Cuma, Maiuri si recò a visitare la grotta dell’Averno facendosi traghettare in spalla da mio padre” ricorda don Carlo. “A seguito di quella visita dichiarò che per anni la grotta era stata arbitrariamente definita grotta della Sibilla. Viceversa si trattava di uno dei tanti camminamenti militari di epoca romana scavati da Agrippa nel 37 a.c. quando bonificò il lago creandovi il Porto Julius durante la guerra civile tra Ottaviano e Pompeo, ingiungendo a mio padre di interrompere l’attività. Papà non si lasciò intimorire. Rispose che aveva famiglia per cui avrebbe smesso solo se Maiuri gli avesse trovato un lavoro. Quindi si rivolse a Raimondo Annecchino perché trovasse un compromesso. Annecchino, che oltre ad essere un signore era anche amico di Maiuri, si interessò della vicenda, chiedendo all’archeologo di non rimarcare troppo sull’infondatezza dell’originalità della grotta dell’Averno. Alla fine si trovò la soluzione decidendo di chiamare la grotta Bagno della Sibilla, ovvero luogo in cui la Sibilla veniva a bagnarsi. Io non affermo che la Sibilla stesse davvero in questo luogo. Dichiarare la grotta camminamento militare successivamente adibito a bagno termale mi sta bene. Però vorrei che gli organi competenti dessero maggiore importanza alla grotta e a tutta l’aria dell’Averno. Di questi luoghi ne parlano Omero, Virgilio. Uomini di cultura di tutte le epoche giungevano in questi posti per respirare il mito. Ma oggi dove sono i turisti? Qui intorno si vede solo gente che viene per mangiare o per fare all’amore… Perché gli studiosi, oltre ad affermare che la grotta è un camminamento militare, non dicono che tutto il luogo, per il suo valore storico, merita d’essere visitato? Perché non si adoperano affinché i turisti tornino in massa invece di tacere? L’esistenza della grotta è stata addirittura cancellata dalle carte topografiche. Fino a venti anni fa sulle guide c’era scritto Grotta della Sibilla, oggi troviamo segnato Grotta Romana. In tal modo la gente è depistata. Leggendo che l’antro della sibilla sta a Cuma questa non la viene a visitare perché di grotte romane qui ce ne sono tante.” Il tono accorato di don Carlo coinvolge emotivamente. Essendo mia intenzione dare risalto alla sua figura di Carlo di moderno Caronte, gli pongo una domanda che lo imbarazza. “Don Carlo perché suppone che anticamente nella grotta si celebravano riti sacri?” “Per sentito dire sembra che durante alcuni scavi effettuati in passato nei pressi della grotta furono rinvenuti un altare e delle statue di divinità risalenti a epoca preromana che furono subito occultati per evitare l’intervento della soprintendenza. Ma si tratta solo di voci che lasciano il tempo che trovano!” Tralasciando i “per sentito dire”, i graffiti scavati sulle pareti della grotta che riproducono una spiga, simbolo di Demetra dea dei campi, e un fallo, simbolo dionisiaco, lasciano supporre che probabilmente nella grotta si celebrasse un culto ctono legato alla terra, avvalorando la tesi di don Carlo. Uno degli aspetti più affascinanti che in passato resero famosa la figura dell’accompagnatore era il traghettamento a spalla dei turisti. “Prima che installassi la passerella sul canale che collega l’ingresso agli inferi con le stanze, l’attraversamento del corso d’acqua si compiva sulle spalle dell’accompagnatore. All’epoca di mio nonno e mio padre l’auto era un lusso che poche famiglie potevano permettersi. I turisti giungevano nei Campi Flegrei con la cumana, il tram o la metropolitana. All’uscita dalle stazioni trovavano le carrozzelle che li accompagnavano a visitare i luoghi del mito virgiliano. Con i vetturini mio nonno e mio padre avevano stabilito un accordo che prevedeva per ogni turista che visitava la grotta, in base al prezzo stabilito per la visita, una percentuale che andava al vetturino. In questo modo l’andirivieni di turisti alla grotta era garantito così come era assicurato a mio nonno, mio padre e altri di mantenere le proprie famiglie in un epoca in cui non era facile sbarcare il lunario. Allora alla grotta provenivano carrozzelle da Baia, Napoli, Posillipo, dalla Riviera di Chiaia, Marigliano. Taxy da Napoli e da Pozzuoli; guide dalla solfatara con i loro gruppi di turisti. Considerate che a quei tempi alla solfatara c’erano ben quattordici guide mentre oggi ce ne sono solo due! All’epoca spesso fuori alla grotta si creava un’interminabile fila di visitatori. Oggi purtroppo la carrozzella è scomparsa. Ognuno ha la macchina, legge sulle guide della grotta di Cuma e si reca lì tralasciando questa dell’Averno.”
Riguardo alla sua figura di moderno Caronte, gli chiedo 
di raccontarmi qualche aneddoto curioso verificatosi nel corso di tutti questi lunghi anni in cui la sua famiglia ha svolto la funzione di accompagnatore.

“Di aneddoti da raccontare ne avrei diversi ma taccio per rispetto dei turisti. Quello che le posso dire è che mio nonno e mio padre hanno traghettato in spalla persone illustri come lo zar di Russia Nicola II, Re Gustavo di Svezia, donna Rachele Mussolini con il figlio Bruno, la contessa Pallavicini, la regina Elena di Savoia e la Principessa Maria José che mio padre portò in braccio perché era in stato interessante. In passato c’era l’abitudine da parte dei turisti di lasciare appuntato con un chiodo sulla sommità della grotta il proprio biglietto da visita cosicché si veniva facilmente a sapere delle persone importanti che l’avevano visitata. Ovviamente quando sopraggiungeva un’alta personalità lo si capiva subito perché era preceduta dalla staffetta che annunciava, “sta arrivando sua maestà!”. In quei momenti si allestiva tutto un preparativo per accoglierla degnamente. Ma questo succedeva all’epoca di mio nonno e di mio padre. Personalmente non mi risulta di aver accompagnato qualche pezzo grosso, anche perché oggi se qualcuno lasciasse un biglietto da visita presso la grotta per segnalare d’averla visitata, ‘sti mascalzoni non lascerebbero in pace nemmeno quelli!” “Don Carlo possibile che non ha qualche aneddoto particolare da raccontare che riguardi lei o suoi avi?” insisto sperando di fare breccia nella sua dura scorza da galantuomo. Per un attimo leva gli occhi al soffitto segno che sta setacciando nei ricordi. “Oddio, un fatto che mi ha molto colpito riguardò mio nonno” ammette tornando a fissarmi inarcando la fronte, sistemandosi gli occhialini sul naso. “Durante la visita di un gruppo di turisti facoltosi uno di loro perse un gioiello molto prezioso. Quando ritornò alla grotta per vedere se l’avesse perso lì, mio nonno glielo consegnò dicendo, “qui l’avete perso e qui sta!” Personalmente un episodio che non dimenticherò mai fu la visita di un turista che, prima di venire alla grotta, era stato alla solfatara. Appena mi vide la prima cosa che mi chiese fu il costo dell’accompagnamento. Io risposi che era a suo piacere e lui si innervosì, asserendo che era stanco di quest’atteggiamento dei napoletani. Incuriosito chiesi perché ce l’avesse tanto con i napoletani. Mi spiegò che alla Solfatara, dopo aver pagato centocinquanta lire per l’ingresso, aveva dovuto sborsare quattrocento lire per la guida altrimenti non poteva visitare il vulcano in quanto farlo da soli era proibito ritenendolo pericoloso. Quindi aveva dovuto pagare altre duecento lire per delle fiaccole di pino utilizzate dalle guide per accrescere il fumo in alcuni punti del vulcano, più ancora altre duecentocinquanta lire per l’acquisto di alcune pietre che gli aveva venduto un tizio che allestiva una specie di scenografia all’interno di una grotta. In più, a conclusione della visita, la guida gli aveva chiesto di offrirgli un bicchiere di vino per brindare alla sua salute. Insomma la visita alla Solfatara gli era costata più di mille lire. Come non giustificare la sua arrabbiatura? A quel punto dissi, “ a Napoli diciamo che i patti li fanno i cocchieri” e gli chiesi poche centinaia di lire. Bene, alla fine il signore restò talmente soddisfatto che non ricordo se mi diede cinquecento o cinquemila lire. Ma rammento che mentre fissavo il danaro nella mano ero così confuso che gli chiesi se fosse certo di quel che mi aveva dato. “Eccome se sono certo, lei è un galantuomo!”, ribatté lui soddisfatto.” Nei racconti di don Carlo compare un elemento comune rappresentato dall’onestà! Glielo faccio notare e lui rafforza il concetto narrando un episodio emblematico. “Tenga presente che l’accompagnatore deve scortare persone sole nel buio. Ora immaginatevi quando si compiva l’attraversamento a spalla e si traghettava una bella donna… Il moderno Caronte con una mano reggeva la torcia e con l’altra le gambe della turista. Ma ‘sta mano tanto poteva metterla all’altezza delle caviglie e tanto più sopra accarezzando le cosce della signora!” “C’è stato chi l’ha fatto?” “Ci fu chi si lamentò con mio padre, ma non perché compì lui l’audace gesto. Un giorno che c’erano tante persone da accompagnare e traghettare, papà chiese aiuto a un conoscente il quale ne approfittò per palpeggiare le gambe di una signora. All’uscita la visitatrice si lamentò col cocchiere il quale ammonì mio padre di non servirsi più di quella persona perché non si era comportata da galantuomo!” “Don Carlo anche lei ha traghettato gente in spalla” “No!” risponde deciso. “Non l’ho mai fatto e non mi sarebbe piaciuto farlo. Anzi criticavo mio padre perché, facendolo, si rovinò la salute. Oddio, papà è vissuto fino a novantatre anni ma di acciacchi ne aveva tanti tra artrosi e reumatismi. Mio padre faceva l’accompagnatore da che era bambino. Per oltre trenta anni ha traghettato la gente in spalla nell’acqua caricandosi in groppa persone che pesavano fino a centoventi chili. E vi assicuro che non aveva un fisico erculeo, anzi… Vi immaginate che vita ha fatto? Il cardiologo che lo conosceva, quando mi incontrava, mi chiedeva sempre, “ma papà è ancora vivo? Deve essere figlio del padreterno per continuare a campare dopo quella vitaccia!” Da oltre un’ora pendo dalle labbra di quest’uomo così semplice e umile da non rendersi conto d’essere un vivo fotogramma di storia! Di tanto in tanto l’aroma della pizza si spande nella sala stuzzicando il palato. Sarei tentato di chiudere l’intervista per soddisfare la gola ma tengo a bada lo stomaco ancora per un po’ e pongo un’ulteriore domanda a don Carlo. “Da qui a cent’anni, quando lei non ci sarà più scomparirà anche la figura dell’accompagnatore, o c’è qualcuno che prenderà il suo posto?” “Chissà” sorride facendo spallucce. “Al momento non c’è nessuno a cui cedere il timone. Per farlo dovrei trovare una persona che intraprenda il mestiere non per lucro. Glielo ho detto, per fare l’accompagnatore prima di tutto bisogna essere galantuomini!” “Don Carlo un’ultima domanda.” “Dica” fa rilassandosi. “Quali sono le sue speranze per il futuro della grotta?” Prima di rispondere si aggiusta gli occhiali sul naso. “Ho 74 anni e soffro di artrosi all’anca, un ricordo della grotta. Tuttavia se non avessi questo fastidio mi adopererei come un giovanotto perché si desse più considerazione a tutta la località dell’Averno, non solo alla grotta. Ho sempre sognato di vedere l’Averno curato come si conviene; senza un filo d’erba lungo la strada. Magari creare una pista ciclabile; istituire un trenino che colleghi l’Averno con il lago di Lucrino; ripristinare d’estate un servizio di carrozzelle per i turisti. Impiantare lungo il lago dei fari che illuminino in maniera caratteristica e suggestiva la zona; sistemare lungo il percorso delle panchine, delle piante ornamentali e delle fontanelle. Ma si tratta solo di speranze, di sogni!” “Don Carlo a volte i sogni si avverano” “Speriamo!” sorride.

ANGELINA DI BONITO – POETESSA DELLA PITTURA

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Di seguito la versione integrale dell’articolo pubblicato su comunicaresenzafrontiere

Sabato 9 marzo, per la rassegna QUATTRO CHIACCHIERE CON L’AUTORE, nella sede dell’associazione culturale Lux In fabula si è svolto l’incontro con la pittrice Angelina Di Bonito.

Persona timida e riservata, l’artista si è spesa in poche parole, lasciando che a parlare fossero le proprie opere dal tocco leggero e penetrante, da cui traspariscono forti emozioni.

In particolare i ritratti effondono una profonda visione intimista, che si riflette negli sguardi intensi e nelle espressioni dei soggetti dipinti, dal delicato sapore di poesia. Tant’è, più d’uno dei presenti ha evidenziato tale aspetto giungendo a definire la Di Bonito “poetessa della pittura”.

Alla serata era presente il maestro d’arte Antonio Isabettini che, oltre a spendere parole d’elogio per l’artista, ha ricordato quando da ragazzi, insieme con altri giovani pittori, si recavano in giro per Pozzuoli per ritrarre angoli del capoluogo flegreo.

Raccontando di sé, la Di Bonito ci ha tenuto a precisare di essere un autodidatta; di aver iniziato a dipingere all’età di sette anni quando il papà le regalò la prima scatola di colori e di non aver più smesso. Alla domanda “qual è il suo riferimento artistico” ha risposto “non ne ho uno in particolare. Mi piace spaziare dall’espressionismo all’astrattismo, dal seicento caravaggesco alla scuola di Posillipo. Da ogni pittore ho cercato di imparare qualcosa che è servita a formare il mio stile”.

La serata si è aperta con un breve filmato, montato da Claudio Correale presidente dell’associazione e da Guglielmo Moschetti compagno della Di Bonito e scrittore anche lui in calendario nella rassegna, in cui si potevano ammirare alcune opere dell’artista e immagini di concorsi dove ha partecipato e vinto.

Lo stile di vita sobrio ed elegante della Di Bonito ricorda quello di una nobildonna dell’ottocento. Non a caso il maestro Isabettini ha affermato con rammarico “Angelina è nata nell’epoca sbagliata. Fosse nata a fine ottocento, sarebbe stata un Chagall o un Van Gogh al femminile” riferendosi non solo alla sua pittura ma alla personalità compita e decisa della Di Bonito “poetessa della pittura”.

Vincenzo Giarritiello

04/03/2013 – 04/03/2019: POZZUOLI RICORDA IL SESTO ANNIVERSARIO DELL’INCENDIO DI CITTA’ DELLA SCIENZA

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Di seguito la versione integrale dell’articolo pubblicato su comunicaresenzafrontiere

La sera del 4 marzo 2013 un incendio doloso rase al suolo quattro dei sei capannoni di Città della Scienza, uno dei luoghi simbolo della cultura napoletana, fiore all’occhiello della città. L’inchiesta giudiziaria che seguì individuò in Paolo Cammarota, il custode del polo museale, l’unico responsabile del crimine.

Riconosciuto colpevole in primo grado, Cammarota è stato poi assolto in appello alcuni mesi fa e, dopo anni, bisogna ripartire da capo per risalire ai colpevoli. Uno dei tanti misteri italiani…

Per commemorare il sesto anniversario del rogo, affinché quello sfregio alla cultura nazionale e internazionale non cada nell’oblio, il 4 marzo 2019 Premio Civitas e Fondazione IDIS hanno organizzato al cinema Sofia di Pozzuoli la proiezione del crossover VOCE ‘E SIRENA del regista Sandro Dionisio con Cristina Donadio e Rosaria De Cicco.

Prima della proiezione, sul palco è stato allestito un salottino per discutere della pellicola. Al dibattito, moderato dal giornalista RAI Ettore De Lorenzo, hanno partecipato il regista, le attrici e il dottor Giuseppe Albano Commissario di Città della Scienza.

Particolarmente accorato l’intervento del dottor Albano che, assumendosene la responsabilità, ha pubblicamente attribuito il ritardo della ricostruzione di Città della Scienza a un mancato accordo tra Comune e Regione: alcuni mesi dopo il rogo fu bandito un concorso a livello europeo per la presentazione del progetto di recupero del sito. A vincerlo fu un team di giovani napoletani. Purtroppo non se ne fece nulla per contrasti tra Comune e Regione. Nel 2017 fu bandita una nuova gara di cui tuttora non si ha traccia…

Dopo il commissario Albano la parola è passata al regista che ha spiegato la genesi del film: assistendo alla diretta televisiva dell’incendio, sentì l’impulso di scrivere un soggetto cinematografico in cui si denunciasse l’ennesima ferita inflitta alla città da “mani ignote” che non si fanno scrupoli di distruggerne il patrimonio culturale pur di affermare i propri “interessi” criminali.

Quindi è toccato alle attrici. Cristina Donadio ha paragonato “Voce ‘E Sirena” a “La 25° Ora” di Spike Lee girato alcune settimane dopo l’11 settembre a Ground Zero per testimoniare il “vuoto” lasciato nell’anima dell’America dall’attentato alle Torri Gemelle. Parlando delle proprie emozioni provate recitando a Città Della Scienza poco dopo il rogo, quando dalle macerie si levavano ancora i fumi dell’incendio, la Donadio ha dichiarato, “Sentivo dentro di me una ferita. Quel calore e quell’odore me lo sono portata addosso”. Ha quindi concluso, citando Pasolini, “bisogna educare le nuove generazioni al valore della sconfitta” per affermare che una sconfitta spesso può essere un pretesto per risorgere più forti di prima!

L’altra protagonista, Rosaria De Cicco, ha dichiarato, “fare questo film mi ha resa molto felice come cittadina: avevo la sensazione di fare qualcosa di concreto per le generazioni future. Questo film ha contribuito a un’azione civile. Non può passare la volontà di non trovare i responsabili. Questo film è per non dimenticare. Dobbiamo apprezzare che ci siano film che ci aiutano a recuperare la dignità!”.

Alla serata, cui ha partecipato un folto pubblico, erano presenti rappresentanti delle istituzioni e del mondo dello spettacolo.

Alla fine della proiezione è seguito un sobrio buffet, ciliegina sulla torta di una bella serata all’insegna della riflessione pubblica sul valore dell’arte e della cultura nella società d’oggi.

La memoria, come una pianta, va alimentata periodicamente con l’acqua del ricordo se si desidera un futuro migliore per le future generazioni.

Un grazie a Sandro Dionisio, all’intero cast del film e agli organizzatori dell’evento.

Vincenzo Giarritiello

INTERVISTA A LORENZO LEONE – FOTOGRAFO PER PASSIONE, CON IL DILEMMA SE FARNE UNA PROFESSIONE…

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Di seguito la versione integrale dell’intervista pubblicata su comunicaresenzafrontiera

Sabato 2 marzo all’ArtGarage – Viale Bognar 21/Pozzuoli, adiacente alla stazione della metropolitana – si è inaugurata la mostra fotografica VIAGGIO A TECLA E MORIANA di Lorenzo Leone. L’esposizione, che rientra nel progetto ArtinGarage curato da Gianni Biccari, durerà fino a venerdì 16 marzo; la si potrà visitare dal lunedì al venerdì dalle 10 alle 22 e il sabato dalle 10 alle 20, la domenica è chiusa.

Invitati all’apertura dell’evento, abbiamo colto l’occasione per rivolgere alcune domande all’artista.

Lorenzo alla fotografia ti sei avvicinato da giovane o in età matura, ma soprattutto per passione o per altri motivi?

Assolutamente per passione. Da ragazzo, quando uscivamo con gli amici, portavo sempre con me una macchinetta con cui mi divertivo a immortalare momenti di goliardia, ma non solo. Successivamente, all’epoca dell’università, da autodidatta ho iniziato a studiare la fotografia.

Che studi hai fatto?

Nulla a che vedere con la fotografia, sono un commercialista. All’epoca dell’università, tramite internet, frequentando siti e forum specifici, ho iniziato ad approfondire l’argomento fotografico cui è seguita una lunga fase di pausa. Alla fotografia mi sono riavvicinato quattro anni fa iscrivendomi a un corso base per imparare i rudimenti, seppure già li conoscessi. In quel caso ho avuto la fortuna di avere come maestro Mario Ferrara grazie al quale ho imparato nuove tecniche, compreso molti aspetti dell’arte fotografica finora allora a me ignoti e ho conosciuto e studiato tanti fotografi dai quali ho cercato di trarre il meglio per crescere. Da allora non mi sono più negato il piacere di fotografare.

La mostra si intitola DA TECLA A MORIANA, chiaro riferimento alle “Città invisibili” di Calvino. Non a caso nelle foto esposte i soggetti ritratti sono case e edifici in ricostruzione o in abbandono. Questa scelta specifica è nata per caso o è voluta?

Prima di tutto questi soggetti mi attirano e poi stavo lavorando a un progetto, “Under Construction” con la foto di Edenlandia in ristrutturazione come foto di copertina, dove immaginavo quale futuro avessero ogni casa o edificio in fase di restauro o in attesa di essere recuperati. A mio parere essi rappresentano un bivio immaginario che induce a fantasticare su come fossero prima del decadimento e come saranno dopo la ristrutturazione. Mi piace leggerla così…

Credi che esiste un’identificazione inconscia tra la tua interiorità e la scelta dei soggetti che ritrai?

Assolutamente sì, in loro riconosco il mio essere in divenire!

Questa è la tua prima mostra o ne hai già fatte altre?

Questa è la mia prima “personale”.

Progetti per il futuro?

Dal punto di vista generale voglio portare avanti questo discorso. Entrando nello specifico, a breve ci sarà il congresso nazionale FIAF “ANIMA CAMPANIA” cui parteciperò con una serie di scatti. Al momento ho in corso di esposizione a Milano una serie di foto relative alla ex S.S.162 che passa sul Centro Direzionale relative al rapporto tra il viadotto e le case sottostanti, progetto che già ho presentato a Trieste.

Come riesci a districarti tra lavoro e passione?

Fare il commercialista mi consente di disporre delle risorse economiche indispensabili per investire in macchinari e quant’altro sia necessario per portare avanti al meglio questa passione.

Speri di riuscire a vivere un giorno solo di fotografia?

Spesso mi faccio questa domanda e non so darmi una risposta.

Perché?

Mi chiedo: se riuscissi a fare della mia passione un lavoro, sarà uguale come ora? La fotografia resterà sempre un piacere? Oppure, trasformando il piacere in dovere, corro poi il rischio di dovermi cercare un nuovo diversivo per ritemprarmi dalla realtà?…

Bella domanda!

 

Vincenzo Giarritiello

POZZUOLI, UN INIZIO MARZO CARICO DI EVENTI CULTURALI

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Sarà un inizio marzo all’insegna della cultura e dello spettacolo quello che si prospetta a Pozzuoli per il prossimo fine settimana.

Si incomincia sabato 2 marzo alle ore 17 all’Art Garage – Viale Bognar, 21 nei pressi della metropolitana – con l’inaugurazione della mostra fotografica “Viaggio a Tecla e Moriana” di Lorenzo Leone. L’evento è il secondo appuntamento della rassegna fotografica a scadenza bisettimanale curata da Gianni Biccari. Apertura: lunedì-venerdì dalle 10 alle 22; sabato dalle 10 alle 20; domenica chiuso. Ingresso libero.

Quello stesso giorno alle ore 21 presso ‘A PUTECA ‘E LL’ARTE – Via Traversa Provinciale Pianura, 16/Pozzuoli (direzione Pozzuoli-Pianura di Fronte BA.CO.GAS) – si terrà il concerto del cantautore Nicola Dragotto, “DIVAGAZIONI (tu chiamale se vuoi)”. Costo del biglietto 10 euro.

Domenica 3 marzo per commemorare il 49° anniversario dello sgombero del Rione Terra, a partire dalle ore 10,30 un gruppo di ex abitanti della rocca si ritroveranno nel piazzale d’ingresso del Rione per raccontare episodi di vita vissuta fino al giorno dello sgombero nell’attesa si facciano le 12, ora in cui ebbe inizio l’evacuazione, per chiudere il raduno con una sorpresa commemorativa. Ingresso libero, partecipazione aperta a tutti.

La tre giorni culturale si concluderà lunedì 4 marzo al cinema Sofia: per ricordare il sesto anniversario dell’incendio di Città della Scienza che cade proprio quel giorno, alle ore 20,30 si proietterà il docufilm VOCE ‘E SIRENA del regista Sandro Dioniso con Cristina Donadio, Rosaria De Cicco e Agostino Chiummariello. Ingresso libero fino a esaurimento posti.

Non c’è che l’imbarazzo della scelta.

Buon divertimento!

Vincenzo Giarritiello

RAFFAELE BENDANDI, UN GENIO DISCONOSCIUTO PERCHE’ FALEGNAME

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Andando a ritroso nel mio blog ho ritrovato questo post che scrissi il 12 marzo del 2011, all’indomani del devastante terremoto che colpì il Giappone causando danni alla centrale atomica di Fukushima, in cui  esponevo delle considerazioni personali riguardanti l’eventualità di prevedere i terremoti…  Mi piace riproporlo.

Ogniqualvolta un terremoto devastante come quello che ieri ha colpito il Giappone, cui è seguito uno tsnunami ancora più distruttivo, scuote a morte un’area della terra, puntualmente l’indomani ci si interroga sulla possibilità concreta di poter prevedere i terremoti in maniera da avvertire la popolazione salvando un gran numero di vite. Secondo la comunità scientifica ciò non è possibile, e anche se lo fosse, sarebbe difficile individuare con precisione assoluta l’area e l’esatto momento in cui l’evento catastrofico si manifesterebbe, evacuando in tempo la zona interessata. A sostegno di questa tesi molti prendono come riferimento proprio il Giappone, terra dei terremoti per antonomasia, all’avanguardia nel campo delle costruzioni antisismiche, ma del tutto inerme di fronte all’imprevedibilità della natura. Tant’è che, escludendo la fuga radioattiva dalla centrale nucleare di Fukushima segnata dal sisma, i danni maggiori  li ha fatti lo tsnunami che si è abbattuto sulle coste del nord-est del paese spazzando via interi villaggi, strade e ferrovie, lasciandosi alle spalle un “mare” di morte e distruzione.

Alcune settimane prima del terremoto del 6 aprile 2009 che distrusse L’Aquila e comuni limitrofi, per intensità mille volte inferiore a quello del Giappone ma che provocò più crolli e vittime per colpa della disonestà di chi vi costruì case e palazzi facendo la cresta sui materiali di costruzione, il ricercatore Gianpaolo Giuliani avvertì le autorità che per la fine di marzo vi sarebbe stato un violento terremoto nell’aquilano. La sua previsione si basava sui dati ricavati dai rivelatori di gas randon da lui stesso sistemati nell’area di Sulmona in quanto ritiene, e pare non sia il solo, che poco prima di un sisma aumentino a dismisura le emissioni di questo tipo di gas nelle aree che saranno interessate dall’evento.  Giuliani si beccò una denuncia per procurato allarme ma poi il terremoto del 6 aprile dimostrò che la sua previsione non era sbagliata ma solo anticipata di circa una settimana.

Caso ancora più eclatante è quello del faentino Raffaele Bendandi il quale, osservando le maree, risultato dell’influsso gravitazionale della luna sulla terra, teorizzò che la combinzione dell’influsso lunare con quello del sole e di altri pianeti poteva determinare rivoluzioni sulla crosta terrestre tali da dare vita ai terremoti.

Secondo Bendandi “l’origine dei terremoti è prettamente cosmica”, e avverrebbe “quando nel giro mensile di una rivoluzione lunare l’azione del nostro satellite va a sommarsi a quella di altri pianeti” (per ascoltare Bendandi enunciare la sua teoria spostare su 6,50 il contatore del filmato tratto da Voyager). Per cui i terremoti sarebbero prevedibilissimi… A sostegno di queste sue speculazioni vi sono dati a dir poco inequivocabili che ne attesterebbero la validità – Bendandi previde diversi terremoti, tra cui quello del Friuli del 1976. Tuttavia nessuno gli dette mai ascolto. Eppure, anche in questo caso, la comunità scientifica pare non tenere affatto conto dei suoi studi, forse perché Bendandi applicava l’astronomia e l’astrologia alla geologia, commettendo un’eresia agli occhi degli scienziati.

Tra le 100 previsioni  di terremoti che Bendandi ci avrebbe lasciato, almeno 60 riguarderebbero l’Italia. Tra queste ve ne sarebbero almeno due che prevedono due forti terremoti nel Lazio rispettivamente l’11 maggio del 2011 e un altro ancora più devastante il 5/6 aprile del 2012 in concomitanza con altri eventi sismici che sconvolgerebbero in quel periodo l’intero pianeta tanto che in molti associano la previsione di Bendandi alla profezia dei maya secondo cui la fine del mondo si verificherebbe il 21 dicembre del 2012.

Tralasciando l’aspetto profetico, sta di fatto che negli ultimi trent’anni anche degli studiosi americani hanno elaborato una teoria per prevedere i terremoti in base agli influssi planetari sulla terra a conferma che Bendandi non era un visionario ma uno scienziato vero il cui unico torto fu quello di essere un falegname autodidatta sottostimato dai baroni della scienza.

Quanti hanno letto IL MULINO DI AMLETO di Giorgio de Santillana e Hertha von Dechend o IMPRONTE DEGLI DEI e CIVILTA’ SOMMERSE dello studioso inglese Graham Hancoock conoscono la teoria scientifica secondo cui, periodicamente, esattamente ogni 13 mila anni, a causa della precessione degli equinozi che determina uno squilibrio tra l’orizzonte terrestre e quello astronomico, avverrebbe un’inversione dei poli con conseguenti cataclismi epocali dove tutto ciò che geograficamente era al nord si sposterebbe al sud e viceversa. In rapporto a questa teoria il mitico continente di Atlantide non si sarebbe inabissato ma “semplicemente” sarebbe l’attuale Antartide!

Sembra che applicando la sua teoria a circa 20 mila terremoti avvenuti in passato per verificarne l’attendibilità, Bendandi calcolò che nel 10420 a.c. si verificò un evento catastrofico di dimensioni inimmaginabili tale da determinare l’inversione dei poli e probabilmente la distruzione di Atlantide dovuto all’insolita convergenza sulla terra dell’influsso di più pianeti la quale avviene ciclicamente ogni 13mila anni per cui la prossima si ripresenterebbe poco dopo il 2500.

Fantasie? Non proprio visto che finanche la stessa scienza ufficiale ammette la possibilità che nel corso dei millenni periodicamente possono manifestarsi eventi simili in rapporto alla precessione degli equinozi…

Ritornando al discorso iniziale, ossia alla possibilità  di poter prevedere i terremoti, la smentita categorica da parte degli scienziati su questa eventualità lascia interdetti. Non fosse altro perché sia le teorie di Bendandi, sia quelle più recenti, ma non nuove, di Giuliani sul gas randon vengono messe al bando a prescindere, senza essere prima verificate come si conviene. È come se un medico desse per scontato che una malattia non potrà mai curarsi, trascurando il valore essenziale della ricerca per migliorare il tenore di vita e la salute dell’umanità. Alimentando il dubbio che, anziché non potersi prevedere, i terremoti non li si vogliano prevedere. E se così fosse, perché?…

E’ evidente che a ogni distruzione consegue una ricostruzione che mette in moto una marea di soldi e di interessi privati a scapito della comunità ferita: terremoti dell’Irpinia e de L’Aquila docet!

SCAFFALE: “LE MIE RAGAZZE-RAGAZZE ROM SCRIVONO”, DI VINCENZO GIARRITIELLO

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(Nella foto in alto l’autore con il dottor Gianluca Guida, Direttore dell’IPM di Nisida)

Di seguito la versione integrale della recensione a LE MIE RAGAZZE – RAGAZZE ROM SCRIVONO pubblicata su comunicaresenzafrontiere.it

Sono passati quasi tredici anni da quando lo scrittore Enzo Giarritiello coordinò un laboratorio di scrittura creativa presso la sezione femminile del carcere minorile di Nisida. “La più tosta ma anche la più bella delle esperienze di laboratorio con i ragazzi“,  ci tiene a precisare.  Quest’ultima rientra tra le attività creative che l’autore ha tenuto a Pozzuoli (per anni ha coordinato un laboratorio di scrittura creativa presso la libreria per ragazzi “CionCionBlu” e uno di nove settimane presso il IV Circolo di Pozzuoli con due quinte accorpate).

L’esperienza nel carcere di Nisida, raccolta in un diario che all’epoca aggiornava regolarmente quando rientrava dagli incontri, non si era mai pensato di pubblicarla per non disattendere l’impegno assunto con chi gli aveva concesso quella possibilità. Gli incontri avvenivano ogni sabato tra fine giugno e fine luglio del 2006.

Allora allo scrittore fu suggerito di realizzare un libro sulla sua esperienza con l’intento di fornire un ulteriore strumento di supporto per chi lavora con realtà sociali disagiate.
A distanza di tanto tempo, rileggendo il diario, resosi conto che non violava la privacy delle ragazze né di altri, lo scrittore ha deciso di darlo alle stampe con il self publishing di Amazon.

Il volume è composto di otto capitoli, ognuno con un titolo indicativo sull’argomento, ne segnaliamo tre: “L’AMORE NON VINCE TUTTO”, il terzo capitolo, racconta il punto di vista sull’amore delle ragazze. Nel settimo capitolo, LA RABBIA DI UNA FIGLIA, si argomenta la divertente insistenza delle ragazze quando appresero che era padre di due maschi. A loro dire, “si doveva dare da fare” per mettere al mondo una femmina: “Solo se ti incazzi anche con una figlia puoi dire d’essere un vero padre. Le incazzature con i figli maschi non ti danno nulla di nuovo essendo tu maschio e avendo quindi vissuto le loro stesse problematiche da piccolo. Solo se avrai confronto con una femmina potrai comprendere cosa vuol dire essere veramente padre e sentirti un uomo completo. Finché non lo farai sarai un uomo a metà in quanto conoscerai solo una faccia della medaglia, l’altra ti sarà ignota!“.

Una menzione a parte merita il sesto capitolo, “INCUBO”, dove Giarritiello raccoglie la testimonianza di una delle secondine: la donna riferisce le proprie esperienze precedenti in vari penitenziari femminili, raccontando con le lacrime agli occhi degli orrendi crimini di cui si macchiavano alcune detenute.

Il volume, scritto in modo fluido e scorrevole, si legge velocemente riuscendo a dare uno spaccato femminile su un universo poco affrontato, quello rom. L’etnia, oggetto da sempre di una visione stereotipata in termini negativi, racchiude un retaggio culturale profondo e articolato che meriterebbe d’essere approfondito per capire le tante dinamiche, anche contraddittorie, che la caratterizzano.

Il Libro è disponibile su Amazon

La Redazione