Quelle scarpette che ora pendono mestamente al chiodo sono il libro che le contengono perché queste storie sono parte della mia vita. Averle vissute lo considero un privilegio, un regalo della vita. Nulla e nessuno può cancellarle, nemmeno l’osteopenia.

Scarpette appese al chiodo ma i ricordi restano vivi.

Chiunque pratichi sport da quando era ragazzo e, raggiunta una certa età, continua inesorabilmente a praticarlo, nel corso degli anni si sarà sicuramente sentito ripetere ironicamente, “ma quando ti decidi ad appendere le scarpette al chiodo?”, se gioca a calcio o corre. Oppure, “ma quando ti decidi ad appendere al chiodo …” qualsiasi altro oggetto caratterizzi la propria passione sportiva.

Io che corro, anzi correvo, dall’età di diciannove anni – tra poco meno di un mese compirò sessant’anni – questa frase me la sono sentita ripetere centinaia di volte. E la mia risposta è stata sempre la stessa, “chi si ferma è perduto!”.

Ora che a causa di un’osteopenia che mi sta lentamente consumando l’osso della caviglia sinistra sono costretto a dover appendere per forza maggiore le scarpette al chiodo, quella frase mi riecheggia in testa in maniera ossessiva come se fosse una sorta di maledizione lanciatami inconsapevolmente e in buona fede da chi ironizzava sulla mia passione sportiva.

Per anni, da solo o con agli amici, ho macinato chilometri con il solo intento di stare bene fisicamente, rilassarmi mentalmente e divertirmi.  Fu grazie alla corsa che conobbi Gennaro con cui mi sono allenato per oltre vent’anni, cementando un’amicizia tuttora viva. E fu sempre grazie alla corsa che successivamente conobbi gli amici della Pozzuoli Marathon e mi accostai all’agonismo.

Non sono mai stato assillato dal tempo. Tuttavia devo ammettere che anche io, soprattutto in gara, mentre correvo lanciavo uno sguardo al cronometro. È inutile negarlo, corsa e tempo sono un mix imprescindibile. Il risultato finale testimonia se i sacrifici che hai fatto in allenamento hanno dato i loro frutti. Quando corri, prima di tutto ti confronti con te stesso. E l’esito del confronto è sancito dal tempo in cui chiudi la gara, ti piaccia o meno. Un secondo in più o in meno rispetto alla prestazione precedente hanno un valore inestimabile che può comprendere solo chi corre.

Al di là delle sfumature agonistiche, personalmente la corsa ha sempre rappresentato un momento di aggregazione e di divertimento. Ricordo con piacevole nostalgia le uscite mattutine con Gennaro; quelle con il gruppo di Luisa del quale faceva parte il compianto Peppe.  Le uscite domenicali con gli amici della Pozzuoli Marathon. Il pianto di gioia di Paolo durante l’ultimo lungo in vista della maratona di Roma, la sua prima maratona. Non credeva a se stesso, dopo oltre venticinque chilometri di corsa, di avere nelle gambe la forza di accelerare senza alcuna fatica: “Vince’, le gambe vanno, le gambe vanno!” urlava felice come un ragazzino con le lacrime agli occhi.

Non dimenticherò mai la dura confessione di un amico, del rancore che nutriva verso il padre per avergli imposto di andare a lavorare subito dopo aver completato la terza media mentre agli altri fratelli aveva permesso di diplomarsi e di intraprendere delle attività professionali di tutto rispetto. A un certo punto, mentre raccontava, iniziò a piangere chiedendosi “Perché? Perché solo a me ha fatto questo?”.

Non dimenticherò mai le tante sfide che inscenavamo tra di noi mentre ci allenavamo e gli sfottò al termine della “competizione”.

Non dimenticherò mai la mia prima Napoli–Pompei di 28 km; le difficoltà organizzative che la caratterizzarono e la scostumatezza di una vigilessa che, mentre transitavamo per Torre Annunziata, anziché fermare il traffico per farci passare, ci mandò candidamente a quel paese.

Non dimenticherò mai la gioia che provai quando tagliai il traguardo della Coast to Coast (Sorrento –Amalfi) Un’emozione indescrivibile testimoniata dal mio sorriso immortalato dal fotografo di gara all’arrivo dopo 34 km di corsa di cui oltre venti sui tornanti della costiera amalfitana.

Non dimenticherò mai la mia prima maratona. Decisi di correrla a Napoli, motivando quella scelta con il presupposto che, se non l’avessi terminata, avrei preso la metro per tornare a casa. In quell’occasione ad affiancarmi c’era Nunzio, amico di tante avventure in gara con il quale feci anche un pellegrinaggio a piedi da Pozzuoli a Pompei. Un momento indimenticabile che, purtroppo, non potrò ripetere sempre a causa di questa maledetta osteopenia.

Non dimenticherò mai le lunghe corse tra le colline del Casentino Toscano quando con la famiglia mi trasferivo a Raggiolo, in provincia di Arezzo, – cosa che faccio tuttora – per trascorrere le vacanze estive. Una mattina di agosto, in previsione della maratona di Firenze che si sarebbe svolta a fine novembre, corsi poco meno di trenta chilometri. Partii da San Piero in Frassino; risalii verso Poppi per poi proseguire per Bibbiena. A Bibbiena salii fin su il paese per poi scendere dal versante opposto a Corsalone e ritornare a San Piero. Un’emozione unica ma una stanchezza non da poco!

Non dimenticherò mai le risate a Telese dove eravamo per la 10 km. Pioveva a dirotto e, in attesa che si facesse l’orario della partenza, ci riparammo in uno dei gazebo allestiti per i top runner. A un certo punto entrò una hostess e cortesemente ci chiese di uscire perché quelle erano le postazione per i top runner. “Signorina, lì c’è il signor Punziano”, dissi risentito indicandogli Nunzio. “Signor Punziano, mi scusi, non l’avevo riconosciuta” rispose lei intimidita. “Non si preoccupi” rispose lui con aria di sufficienza, seduto sul divano con le gamba accavallate come se davvero fosse stato un top. Quando la poverina uscì ci fu una risata corale.

Non dimenticherò mai i tuffi a mare, subito dopo corso, la domenica mattina sul lungomare di Pozzuoli; le risate e le imprecazioni al termine di una gara; la ricerca disperata di un bagno o di un luogo appartato per svotare la vescica prima della partenza.

Non dimenticherò mai la mattina che con Gennaro intavolammo una lunga discussione su quello che entrambi reputavamo fosse il significato della vita. Per oltre un’ora, mentre correvamo, discutemmo in maniera appassionata, esponendo ognuno le proprie considerazioni. La discussione evaporò al sole nel momento in cui i nostri sguardi si posarono su due bei culi di donna che correvano davanti a noi. In un attimo Platone e la spiritualità lasciarono spazio a ragionamenti e commenti ben più pratici …

Non dimenticherò mai la telefonata allarmata di un amico che mi annunciava il decesso in allenamento di un runner di nostra conoscenza. Decesso poi smentito dallo stesso runner quando un amico chiamò a casa sua per accertarsi di quanto fondata fosse la notizia.

Non dimenticherò mai la telefonata in cui mi si annunciò che lo stesso runner oggetto della falsa notizia di alcuni mesi prima quella mattina era stato colto da un malore ed era grave in ospedale: ci lasciò dopo un mese trascorso in terapia intensiva. Paradossi della vita!

Non dimenticherò mai quella volta che, dopo quasi due settimane di stop forzato dovuto a un’influenza, seppure non fossi guarito del tutto, decisi che l’indomani mattina sarei andato a correre. Mentre mi preparavo gli indumenti per la corsa, il mio secongenito che all’epoca avrà avuto tre/quattro anni mi spiava da dietro la porta. All’improvviso corse in cucina dalla mamma e disse, “Mamma, menomale, papà è guarito, domani va a correre!”.

La corsa è stata non solo il termometro con cui misurare il mio stato di salute, ma anche il mezzo attraverso cui scaricare le tensioni della quotidianità. Quelle volte che rientravo da lavoro incazzato nero e bastava una sciocchezza perché esplodessi in maniera rabbiosa, mia moglie mi suggeriva – per essere siceri più che un suggerimento era un’imposizione -, “Perché non vai a correre?”. Sapeva che quello era l’unico modo che avevo per rilassarmi. In effetti, man mano che correvo, era come se mi alleggerissi dai pensieri e dai problemi della quotidianità, lasciando dietro di me un’invisibile scia di negatività. Quando rientravo a casa da quelle sgambate terapeutiche in cui forzavo sull’acceleratore per sconfiggere il mondo ero talmente rilassato che sembravo un agnellino.

Non dimenticherò mai lo stop obbligatorio imposto dal governo ai runner per arginare il covid. Durante il lockdown, la mattina mi alzavo all’alba, scendevo di casa e correvo facendo un’infinità di giri intorno al palazzo con la consapevolezza che dietro alle finestre qualcuno mi spiava, riconoscendo in me un potenziale untore da denunciare alle autorità. Una cosa alienante ma mai come, penso, dovesse essere correre sul balcone o in casa come in quel periodo fecero tanti runner. Qualcuno, addirittura, correndo tra le pareti domestiche, riuscì a completare una maratona: allucinante!

Non dimenticherò mai la gioia che provai quando il governo finalmente decretò che si poteva tornare a correre in strada, seppure imponendo tutta una serie di misure restrittive. Come al solito con cli amici ci davamo appuntamento giù Via Napoli, ma non dovevamo correre in più di due altrimenti rapppresentavamo un gruppo e potevamo essere sanzionati dalle autorità che vigilavano in strada. Per cui corrrevamo defilati uno dietro l’altro, alternandoci al fianco per scambiare quattro chiacchiere, tenendoci distanziati di un metro, come imposto all’epoca dalla legge, per non correre il rischio di infettarci, essere fermati e denunciati. Oggi tutto ciò sembra un’assurdità ma all’epoca era necessario per fronteggiare il “nemico” invisibile.

Poiché le scarpette vanno cambiate mediamente ogni 500/600 chilometri in quanto la suola, consumandosi, perde l’ammortizzazione diventando pericolosa per le articolazioni, negli anni di scarpette ne ho cambiate un bel po’. Ogni paio che ho calzato lo considero un quaderno su cui ho scritto le mie storie di runner.

Quelle scarpette che ora pendono mestamente al chiodo sono il libro che le contengono tutte perché queste storie sono parte della mia vita. Averle vissute lo considero un privilegio, un regalo della vita. Nulla e nessuno può cancellarle, nemmeno l’osteopenia.

Il problema è se il pazzo è chi crede in se stesso e combatte per realizzare i propri sogni o chi invece ha rinunciato a credere in se stesso e nei propri sogni, accontentandosi delle briciole che di tanto in tanto gli vengono concesse dalla vita come si fa con i bambini cui si danno le caramelle per tenerli buoni.

L’innamorato dei tarocchi, l’uomo che integra in sé ragione e istinto.

I tarocchi è un mazzo di carte usato in cartomanzia diviso in due sezioni. La prima è composta da ventidue carte, dette anche lame, numerate e nominate singolarmente da 0 a 21 che costituiscono gli arcani maggiori. La seconda è caratterizzata dagli arcani minori, cinquantasei carte divise a loro volta in quattro sottogruppi, denominati semi, ognuno di quattordici carte da 1 a 10 più quattro figure – fante, cavaliere, regina e re. I semi delle carte sono denari, bastoni, coppe e spade gli stessi delle carte napoletane.

In cartomanzia per la divinazione del futuro quasi sempre vengono utilizzati solo gli arcani maggiori. Tuttavia c’è chi si serve anche degli arcani minori per avere un responso più dettagliato.

Gli arcani maggiori vanno dalla carta numero 0, Il Matto, alla carta numero 21, Il Mondo. La sequenza completa è la seguente:

  • 0 Il Matto
  • 1 Il Bagatto
  • 2 La Papessa
  • 3 L’Imperatrice
  • 4 L’Imperatore
  • 5 Il Papa
  • 6 L’Innamorato
  • 7 Il Carro
  • 8 La Giustizia
  • 9 L’Eremita
  • 10 La ruota della Fortuna
  • 11 La Forza
  • 12 L’Appeso
  • 13 La Morte
  • 14 La Temperanza
  • 15 Il Diavolo
  • 16 La Torre
  • 17 Le Stelle
  • 18 La Luna
  • 19 Il Sole
  • 20 La Resurrezione
  • 21 Il Mondo

Dal mio punto di vista sbaglia, però, chi pensa che i Tarocchi, specificamente gli arcani maggiori, servirebbero esclusivamente alla funzione cartomantica. Essi sarebbero invece dei veri e propri simboli riferiti alla psicologia umana.

Di tarocchi se ne è occupato anche C. G. Jung, il quale studiò in maniera approfondita il rapporto tra Psicologia e alchimia sostenendo che il procedimento alchemico, ovvero la trasmutazione dei metalli vili in oro, in realtà simboleggerebbe la trasposizione metaforica dello sviluppo psicologico dell’essere dallo stato inconscio a quello coscio.

A seguito dei suoi studi, in Mysterium coniunctionis Jung sostenne che uno dei punti chiave della crescita interiore dell’essere era l’integrazione, ovvero la congiunzione, di quella parte di noi stessi che ci piace con quell’altra che invece non ci piace e di cui ci vorremmo disfare sopprimendola.

Secondo Jung, invece, quell’aspetto di noi stessi che ripudiamo, anziché contrastarlo, dovremmo impegnarci a integrarlo in quanto parte imprescindibile di noi stessi. Rifiutandolo commettiamo un atto di negazione della nostra personalità, determinando inconsciamente quei conflitti interiori che causano instabilità e insicurezza in molti individui.

In questa logica di integrazione degli opposti, riferendoci agli arcani maggiori, ci sovviene alla mente la carta numero sei dell’Innamorato.

Essa ritrae un uomo tra due donne. Quella alla sua sinistra ha un aspetto discinto e rappresenta la tentazione o il vizio. Ma anche l’istinto naturale simboleggiato dal serto di fiori che le ricopre il capo dai lunghi capelli verdi e dai piedi nudi poggiati uno sulla terra l’altro sul prato verde.

La donna alla sua destra, dall’aspetto regale e composto, viceversa rappresenta la spiritualità. La corona d’oro che ha sul capo riflette la sua natura divina che le colora di biondo i capelli e, suppuniamo, i pensieri in modo che dalla sua mente abbiano origine solo idee positive avvicinando sempre di più gli uomini a Dio. Diversamente dall’altra donna i suoi piedi sono ammantati dalla lunga veste celeste, simboleggiante la celestialità, dunque il piano divino, affinchè la propria natura non si corrompa toccando il piano materiale.

Secondo l’interpretazione classica questa carta metaforicamente rappresenta l’uomo che, giunto al bivio della propria esistenza, prima di proseguire, deve compiere la scelta tra l’amore spirituale e quello materiale. Ma è davvero così?

Se ci soffermiamo ad analizzare la carta dell’innamorato del mazzo dei Tarocchi marsigliesi di Grimauld, tanto caro a Jung, riprodotta in alto, vediamo che l’uomo, più che essere fermo a un bivio, sembra trovarsi al vertice di un triangolo, anche perché alle proprie spalle non si dispiega una strada o un sentiero da cui sarebbe giunto, bensì si spalanca uno spazio vuoto, una sorta di infinito verso cui presumbilmente dovrà convergere dopo aver integrato in sé le due nature.

Ciò potrebbe indicare che l’uomo è salito da un lato del triangolo, quello materiale o quella spirituale. A questo punto, giunto all’apice, prima di girarsi e proseguire verso l’ignoto alle proprie spalle, deve integrare in sé la controparte relativa al lato opposto rispetto a quello da cui è giunto. La sua gamba destra, ammantata dalla calzamaglia rossa indice di passione, poggia nel lato della spiritualità in quanto l’amore di Dio è una vera e propria passione amorosa come è raccontato nelle vite di molti Santi e Beati. La gamba sinistra, ammantata di verde che è colore della natura, occupa invece lo spazio della natura. Ciò starebbe a significare che non bisogna rinnegare la propria natura in quanto essa è uno dei pilastri – l’altro è la spiritualità – su cui poggia il tempio dell’uomo. In questo modo l’innamorato trarrebbe energie da entrambi lati.

Tutto questo ci ricorda il simbolo dello Yin e dello Yang dove nello spazio bianco compare un punto nero e nello spazio nero un punto bianco a significare che ogni aspetto contiene in sé una piccola parte del proprio contrario.

Cupido volteggiante sull’innamorato pronto a scoccare la freccia giusto nel centro della sua testa starebbe a indicare che l’uomo, anziché compiere una scelta tra une delle due, starebbe per amare entrambe le donne.

A sostegno di questa ipotesi di congiunzione degli opposti Jung evidenzia che in natura ogni cosa ha il proprio corrispettivo contrario – luce/tenebre, vita/morte, maschio/femmina, freddo/caldo, liquido/solido – da cui non si può prescindere. Pertanto anche in campo psicologico esiste una coppia di opposti rappresentata da coscienza/inconscio .

In questo caso la coscienza, ovvero il luogo in cui convergono gli aspetti positivi dell’essere, sarebbe rappresentata dalla donna alla destra dell’innamorato; l’inconscio, dove invece soggiornano gli istinti e le origini delle fobie di ognuno di noi, dalla donna alla sua sinistra.

Fino a quando l’uomo tenderà a sfuggire il confronto col proprio inconscio non sarà mai se stesso. Rifuggendo dalle cause che generano le nostre paure noi fuggiamo da quell’aspetto della nostra personalità che inconsciamente riconosciamo essere la causa delle nostre instabilità interiori di cui ci vergogniamo al punto da volerlo sopprimere.  Ma la sua soppressione è impossibile in quanto, se lo facessimo, compiremmo un vero e proprio suicidio interiore cui spesso si associa quello reale.

La carta dell’innamorato ci dice che dobbiamo accettarci per quello che siamo. Questa è l’unica possibilità che abbiamo per proseguire nel cammino esistenziale. Ma per farlo dobbiamo essere consapevoli che in noi è racchiuso sia il bianco che il nero.

Rifiutando il nero inconsciamente rifiutiamo anche il bianco in quanto l’uno rappresente l’altra metà dell’altro per cui l’uno senza l’altro non hanno ragione di essere.

Fino a quando non impareremo ad accettarci e a dialogare con la nostra ombra faticheremo ad andare avanti nella vita.

Accettarsi per quello che si è probabilmente è una delle cose più difficili che l’individuo possa fare. Anche perché accettandosi e mostrandosi per ciò che realmente si è si corre il rischio di dover confliggere con l’opinione pubblica la quale tende ad aggredire chi ha il coraggio di essere se stesso, di credere nei propri sogni fino a sfidare il mondo per realizzarli.Agli occhi della massa sono pazzi quanti si affannano nella realizzazione di un sogno a costo di rimetterci tempo, salute e denaro.

Il problema è se il pazzo è chi crede in se stesso e combatte per realizzare i propri sogni o chi invece ha rinunciato a credere in se stesso e nei propri sogni, entrando a far parte del gregge. Accontentandosi delle briciole che di tanto in tanto la vita gli concede come si fa con i bambini cui si danno le caramelle per tenerli buoni.

L’innamorato non si accontenta delle caramelle. Egli ha capito che per realizzare se stesso e i propri sogni prima di tutto deve accettarsi per quello che è, sia nel bene che nel male. Nel momento in cui tale accettazione è avvenuta, ed egli non avrà più paura di fronteggiarsi con la propria ombra, sarà in grado di tenere a bada e di governare quegli aspetti di se stesso che precedentemente lo terrorizzavano tanto da desiderare di sopprimerli. Essi diventeranno come quegli animali selvaggi che, una volta addomesticati, obbediscono ciecamente alla volontà del padrone.

Di certo l’accaduto denota un’assoluta ignoranza in campo comunicativo di chi ha preso tale decisione. Possibile che costui non immaginasse che nell’era di internet, ponendo il veto al monologo, in rete si sarebbe scatenato il passaparola, consentendo al testo di diffondersi in maniera esponenziale dagli Appennini alle Ande, incuriosendo e inducendo alla lettura anche coloro che di argomenti simili di solito non se ne interessano?

CASO SCURATI, PIU’ CHE CENSURA SI TRATTEREBBE DI UN AUTOGOL DI REGIME

Se davvero l’intento fosse stato censorio, la cancellazione del monologo sul 25 aprile che lo scrittore Antonio Scurati avrebbe dovuto leggere ieri sera a Che sarà di Serena Bortone si è rivelato un boomerang di dimensioni cosmiche per i vertici RAI e per il Governo.

Dal momento in cui la notizia si è diffusa, tanto da costringere finanche la Premier Giorgia Meloni a intervenire e a pubblicare sul proprio profilo Facebook il testo del monologo per smentire chi parlava di censura, attraverso i social il testo ha iniziato a espandersi a macchia d’olio, raggiungendo un pubblico ben più vasto di quello che presumibilmente avrebbe ottenuto se fosse stato letto in trasmissione.

Quali fossero le reali cause della cancellazione del monologo, probabilmente, non lo sapremo mai – la RAI parla di una richiesta esosa dello scrittore per leggerlo; lo scrittore parla invece di censura e cita un comunicato della RAI in cui si motiva la cancellazione come una scelta editoriale.

Di certo l’accaduto denota un’assoluta ignoranza in campo comunicativo di chi ha preso tale decisione. Possibile che costui non immaginasse che nell’era di internet, ponendo il veto al monologo, in rete si sarebbe scatenato il passaparola, consentendo al testo di diffondersi in maniera esponenziale dagli Appennini alle Ande, incuriosendo e inducendo alla lettura perfino coloro che di argomenti simili di solito non se ne interessano?

Ciò denota l’assoluta inadeguatezza dei vertici RAI – si presume che chi comanda uno strumento mediatico, e soprattutto i suoi collaboratori, debba avere competenze in scienze della comunicazione -e alimenta il dubbio legittimo se chi li ha insigniti in quel ruolo lo abbia fatto perché li reputava effettivamente qualificati o per altri motivi ignoti.

A pochi mesi dalle elezioni europee il caso Scurati potrebbe rivelarsi una rogna non da poco per la Premier e il suo partito che puntano a bissare il successo elettorale delle scorse elezioni politiche.

È vero, i messaggi che girano in rete sono talmente tanti che non hanno tempo di attecchire nella mente delle persone, diradandosi come nebbia al sole per lasciare spazio ai successivi.

Ma intanto il monologo dello scrittore da ieri sta riecheggiando prepotentemente sui social e la sua onda non accenna a placarsi tanto da far supporre che, più che censura, si tratterebbe di un grottesco autogol di regime.

intervista

LA MIA INTERVISTA SU “ENTI E ISTITUZIONI TV”

Mercoledì 3 aprile ho avuto il privilegio di inaugurare la rubrica di interviste SOCIALIZZIAMO de Il Blog di Gio’ di Giovanna Di Francia sull’emittente ENTI E ISTITUZIONI TV. Ho parlato della mia attività di scrittore, del mio rapporto con la scrittura e, ovviamente dei miei libri. In particolare di UN UOMO BUONO -mio padre malato di Alzheimer (Edizioni Helicon). 

E’ stata una piacevole chiacchierata con una seria e brava professionista sensibile alle tematiche sociali.

Per vedere l’intervista cliccate qui

L’Alchimia secondo Jung

L’Alchimia secondo Jung

Quando si parla di alchimia in molti infastiditi storcono perché ritengono l’argomento un’insulsaggine.

A dire il vero tutti i torti non hanno visto che per secoli, anzi per millenni, l’alchimia ha rappresentato uno dei sogni irrealizzati e irrealizzabili dell’uomo: tra(s)mutare il piombo in oro mediante un lungo e laborioso processo di laboratorio che prevede la fusione e la distillazione dei metalli.

Chiuso nel suo laboratorio, avvolto dai vapori che si di diffondevano dalle storte e dagli alambicchi posti sui fornelli in cui cuocevano gli elementi da cui ricavare la materia prima da porre nell’athanor, il forno degli alchimisti, per ottenere l’oro, l’alchimista conduceva una vita di solitudine e speranze vane, ponendosi alla mercé di truffatori pronti a sfruttare la sua credulità per arricchirsi alle sue spalle proponendogli formule e pietre misteriose che, se correttamente praticate e usate, gli avrebbero consentito la realizzazione del suo sogno.

Nonostante ciò solo il fatto che di alchimia se ne parli da millenni – secondo alcuni il termine alchimia deriverebbe dall’antico egitto per indicare la terra nera di quelle zone, secondo altri sarebbe invece di origine araba, al-kimia, la chimica – indicherebbe che l’alchimia è molto più di una chimera (un sogno irrealizzabile non può durare in eterno com’è invece il caso dell’alchimia). Se unitamente a ciò consideriamo i grandi uomini che nel corso dei tempi se ne sono occupati – Tommaso d’Aquino, Raimondo Lullo, Nicolas Flamel, Isaac Newton, Gianbattista della Porta, Giordano Bruno per citarne alcuni –, è evidente che non è da trascurare la probabilità che l’alchimia non fosse solo una chimere ma qualcosa di molto più serio non alla portata di tutti.

Certo c’è chi sostiene di essere riuscito nella realizzazione materiale del piombo in oro, ad esempio l’alchimista che si firmava Fulcanelli. Tuttavia anche Fulcanelli nelle sue opere – Il mistero delle cattedrali e Le dimore filosofali – lascia intendere che l’opera è molto complessa e per realizzarla lui ci impegò oltre trent’anni e alla fine ciò avvenne solo per volontà di Dio.

Secondo Eugène Canseliet, biografo e allievo di Fulcanelli, il maestro la trasmutazione del piombo in oro l’avrebbe realizzata per davvero. Ma i dubbi che ciò fosse vero sono tanti. Anche perché, seppure stando alle attuali conoscenze, è possibile produrre l’oro in laboratorio, la quantità che se ne produrrebbe sarebbe talmente irrisoria e richiederebbe dei costi notevoli per cui non varrebbe la pena impegnarsi in un’operazione del genere.

Come sarebbe stato possibile a Fulcanelli, vissuto a cavallo tra XIX e il XX secolo, operare la trasmutazione del piombo in oro visto gli alti costo, le elevate conoscenze e, soprattutto, l’imponente tecnologia che ciò richiedeva?

Non sarebbe molto più probabile invece che Fulcanelli avesse realizzato la Grande Opera, come viene definita la realizzazione alchemica, in rapporto alla propria persona, elevandosi dallo stato di uomo a quello di Super Uomo in termini psicologici tanto cari a Nietzsche?

Di alchimia se ne è occupato in maniera approfondita anche lo psicologo Carl Gustav Jung il quale all’alchimia e ai suoi simboli ha dedicato anni di studi, pubblicando due interessanti volumi, Psicologia e Alchimia e Mysterium Coniunctionis. Nel primo Jung confronta le immagini di quattrocento sogni di alcuni suoi pazienti con quelle che accompagnano i testi di alchimia. Nel secondo, invece, prende in esame l’unione degli opposti, ossia la capacità dell’individuo di accettarsi, integrando in sé quell’aspetto della propria personalità che rinnega anziché accettarlo come parte imprescindibile di sé.

In questa logica il rapporto maschio/femmina sarebbe rappresentato dall’unione della coscienza con l’inconscio/anima. Ciò determinerebbe uno hiero gamos, matrimonio sacro, dove dall’unione del Re con la Regina (la coscienza e l’inconscio/anima) nasce il figlio sacro, il rebis, che racchiuderebbe in sé la natura maschile e quella femminile.

A seguito dei suoi studi Jung giunse alla conclusione che l’alchimia rappresentasse lo sviluppo interiore dell’individuo dallo stato inconscio a quello cosciente, armonizzando lentamente il proprio io con il mondo esterno attraverso un percorso di studi dove la filosofia assume un ruolo apicale.

Citando uno dei tanti testi alchemici Jung propone un brano in cui si esortano gli individui a leggere e rileggere i testi alchemici, seppure inizialmente risultasse difficile comprenderli, perché il segreto dello svelamento dell’arcano starebbe proprio nella costanza con cui ci si approccia allo studio che, alla lunga, in maniera del tutto inconscia attiverà nello studioso dei meccanismi interiori rendendolo sempre più vicino alla comprensione dei testi e dunque allo svelamento del mistero rappresentato da se stesso.

La purificazione interiore avverrebbe attraverso la lettura dei testi di filosofia la cui funzione, com’è noto, consiste nel contribuire alla crescita interiore dell’individuo. Tale processo psicologico lo troveremmo rappresentato nel dogma dell’Immacolata Concezione dove, diversamente da quanto si crede, con il termine concezione non si indicherebbe il concepimento di un figlio da parte della Madonna senza commettere peccato, bensì l’acquisizione di un pensiero puro che darà vita all’Uomo Nuovo. In questa logica la Madonna rappresenterebbe la conoscenza sacra i cui dettami consentirebbero all’uomo di elevarsi a figlio di Dio.

Secondo Wikipedia il termine concepimento, sinonimo di concezione, deriva dal latino cum capere, cioè “accogliere in sé” o “prendere insieme” ed indica l’atto del concepire un figlio. Il prodotto del concepimento prende il nome di concepito. Tuttavia, come riferisce il vocabolario dei sinonimo e contrari Treccani, il termine concepire non è riferito soltanto al concepimento di un figlio ma anche ad accogliere nel proprio animo, nel proprio intelletto.

Attraverso la lettura e, soprattutto, attraverso lo studio alimentiamo in noi una concezione. Per cui è ovvio che leggendo e studiando testi il cui fine è quello di contribuire alla crescita interiore dell’individuo, alla fine ci riscopriremmo diversi da quello che eravamo prima che ci approcciassimo a essi.

Dunque il dogma dell’Immacolata Concezione si presterebbe a una seconda chiave di lettura: per diventare figli di Dio bisogna purificare il proprio pensiero. E ciò sarebbe possibile solo nutrendolo leggendo e studiando le opere dei filosofi, come appunto afferma più di un testo alchemico citato da Jung.

Secondo questa visione psicologica il laboratorio dell’alchimista sarebbe rappresentato dall’inconscio dello studioso il quale, attraverso le letture e lo studio della filosofia, attiverebbe in sé un processo di crescita interiore che alla lunga culminerà nella trasmutazione del piombo in oro, ovvero dell’individuo dallo stato umano a quello “divino”.

Da quando lo pubblicai a maggio del 2021, ho sempre desiderato presentare UN UOMO BUONO (mio padre malato di Alzheimer) a Cavalleggeri. È lì che sono nato e cresciuto ed è lì che papà ha vissuto da quando si sposò fino al giorno in cui si spense.  Utilizzo il verbo spegnere non perché provi difficoltà a usare il verbo morire, ma perché davvero nel suo lungo e sofferto calvario – da quando si ammalò fino alla fine dei suoi giorni – papà visse come una candela che si consuma lentamente.

Presentazione “UN UOMO BUONO” nella chiesa di San ciro a Cavalleggeri d’Aosta

Da quando lo pubblicai a maggio del 2021, ho sempre desiderato presentare UN UOMO BUONO (mio padre malato di Alzheimer) a Cavalleggeri. È lì che sono nato e cresciuto ed è lì che papà ha vissuto da quando si sposò fino al giorno in cui si spense.  Utilizzo il verbo spegnere non perché provi difficoltà a usare il verbo morire, ma perché davvero nel suo lungo e sofferto calvario papà visse come una candela che si consuma lentamente.

La serata si è aperta con i saluti del parroco Pier Paolo Mantelli cui sono seguiti gli interventi degli illustri relatori, – la dottoressa Raffaella Villani e il giornalista e responsabile della CARITAS di Pozzuoli Ciro Biondi –  che hanno analizzato aspetti diversi del libro.

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Dopo aver parlato in linea generale libro, Ciro Biondi si è soffermato a tracciare un quadro della condizione drammatica di quanti si ritrovano a dover affrontare una tragedia simile a quella che vissi con i miei familiari nell’accudire papà, mettendo in risalto le carenze del sistema sanitario italiano, un tempo tra i migliori al mondo, in termini di assistenza agli ammalati e sostegno alle loro famiglie. Senza tralasciare l’incognita badanti, un problema non secondario per chi ha bisogno di una persona che si occupi dei propri cari costantemente.

La dottoressa Villani, conoscendo bene la mia famiglia e avendo operato per anni a Cavalleggeri in ambito sociale, ha sottolineato non solo gli aspetti caratteriali di papà e mamma, ma anche l’anonima funzione di recupero dei ragazzi a rischio che papà svolse in assoluto anonimato insieme ad altre persone del quartiere attraverso il calcio di cui era un grande appassionato allenando i ragazzini nel campo da rugby del poligono.

I loro interventi sono stati intervallati dalla lettura della professoressa Floriana Vernola di un estratto dal libro.

Oltre ai filmati evidenziati nel post cui potete accedere cliccandoci sopra, di seguito la play list di You Tube  dove sono raccolti tutti i video della presentazione.

Povere Creature, il film del regista greco Yorgos Lanthimos, interpretato da Emma Stone, Willem Dafoe, Mark Ruffalo, molto probabilmente farà storcere il naso a coloro che vivono il sesso come un tabù; identificando in esso un mero strumento per la procreazione della specie e non anche un mezzo di crescita personale; imparando a conoscere se stessi regalandosi piacere, da soli o in compagnia, svelando i misteri racchiusi nel proprio corpo; vivendo la promiscuità sessuale come una condizione imprescindibile per stabilire ciò di cui si ha bisogno da ciò di cui si può fare volentieri a meno.

“POVERE CREATURE”, IL SESSO COME STRUMENTO DI CONOSCENZA E CRESCITA INTERIORE DI UNA DONNA

Povere Creature, il film del regista greco Yorgos Lanthimos, interpretato da Emma Stone, Willem Dafoe, Mark Ruffalo, molto probabilmente farà storcere il naso a quanti vivono il sesso come un tabù, identificando in esso un mero strumento per la procreazione della specie e non anche un mezzo di crescita personale, imparando a conoscere se stessi regalandosi il piacere sensuale, da soli o in compagnia, svelando in questo modo i misteri del proprio corpo; vivendo la promiscuità sessuale come una condizione imprescindibile per stabilire ciò di cui si ha realmente bisogno da ciò di cui si può fare volentieri a meno.

Il film, tratto dall’omonimo romanzo dello scrittore scozzese Alasdair Gray, racconta la storia di Bella Baxter, interpretata da Emma Stone che per questa interpretazione ha vinto l’oscar 2024 come miglior attrice protagonista – il film ha vinto altri tre oscar su undici candidature: Miglior trucco, Miglior Costumi, Miglior Scenografie. Una storia che per molti versi ricorda Frankenstein. Seppure, a mio parere, qui l’atmosfera gotica è ammortizzata dalla verve ironica della sceneggiatura e surreale della scenografia e dalle riprese che in più di un inquadratura ricordano le opere dei grandi pittori surrealisti, in particolare Hescher.

La trama è una sorta di apologia del sesso quale mezzo di ricerca e di sviluppo interiore. Attraverso la scoperta del sesso, Bella evolve come donna, servendosi degli uomini come oggetto per il proprio piacere sessuale. Anche quando si prostituisce, condizione in cui l’oggetto di piacere dovrebbe essere lei, la figura maschile risulta schiava di quella femminile a cui basta pronunciare un semplice Formidable dopo il rapporto per compiacere il maschio.

Per la complessità della vicenda narrata, il soggetto riporta alla mente anche la biblica figura di Eva che, ammaliata dal serpente, mangiò la mela del peccato, offrendola poi ad Adamo affinché a sua volta ne apprezzasse il gustoso sapore. Disubbidendo così alla volontà di Dio che per questa loro trasgressione li punì scacciandoli dal paradiso, condannandoli alle sofferenze della vita terrena.

Più di un esegeta biblico ha identificato nel serpente della Genesi un simbo fallico. Se davvero così fosse, quando Eva accettò di mordere la mela, in realtà acconsentì di giacere con il serpente, scoprendo le gioie del sesso che poi condivise con Adamo.

Questa chiave di lettura fa sì che la conoscenza acquisita da Adamo ed Eva non fosse solo quella del piacere sessuale, ma anche quella scientifica dato che attraverso il propagarsi della specie tramite il sesso avviene il diffondersi delle conoscenze nel corso delle generazioni da cui deriva lo sviluppo degli uomini e delle società.

Il film è una metafora esistenziale dove l’esasperata ricerca del piacere fisico unita alle manipolazioni genetiche perpetrate dalla scienza non solo possono creare mostri, ma possono condurre all’asservimento delle masse come pecore belanti verso chi possiede la conoscenza.

Al di là delle disquisizioni filosofiche, politiche e sociali alimentate dal film, l’interpretazione della Stone è magistrale e da sola vale il prezzo del biglietto.

Nella chiesa del Carmine, a Pozzuoli, si è presentato ANCHE IN CARCERE VIENE NATALE di Giovanna Di Francia

Nella chiesa del Carmine, a Pozzuoli, si è presentato ANCHE IN CARCERE VIENE NATALE di Giovanna Di Francia

Di seguito il mio intervento alla presentazione del libro di Giovanna Di Francia ANCHE IN CARCERE VIENE NATALE che si è svolta ieri sera a Pozzuoli presso la chiesa di Santa Maria delle Grazie, meglio nota come chiesa del Carmine, a cui ha partecipato don Manuel Josè Rosa.

Quando fui contattato da Giovanna Di Francia perché l’aiutassi a raccogliere in un libro i post pubblicati sul suo blog in cui raccontava la propria esperienza di volontaria presso la casa circondariale femminile di Pozzuoli, vissi un dejavu. Per un attimo ritornai all’estate del 2006, all’epoca che coordinai un laboratorio di scrittura creativa presso la sezione femminile del carcere minorile di Nisida, raccontando in un diario settimanale sul mio blog quell’esperienza che per me resterà tra le più formative sia come uomo che come appassionato della scrittura. Facendone successivamente un libro, LE MIE RAGAZZE: RAGAZZE ROM SCRIVONO.

Seppure i nostri percorsi ed esperienze sono diversi – Giovanna opera da anni come volontaria presso il carcere di Pozzuoli, dopo aver effettuato un lungo percorso formativo. Io invece, mi approcciai a quell’esperienza sostenuto unicamente dalle mie precedenti esperienze di laboratorio creativo per ragazzi che tenevo presso una libreria di Pozzuoli, dall’entusiasmante idea che la vita mi stesse concedendo la possibilità di dare il mio piccolo contributo all’integrazione sociale di chi aveva sbagliato e dai suggerimenti degli operatori e delle operatrici carcerari che lavoravono a Nisida. E, soprattutto, dalla fiducia in me risposta dal direttore della struttura penitenziaria, il dottor Gianluca Guida. Essendo convinto che tutti nella vita, se sbagliamo, abbiamo diritto a una seconda opportunità, e forse anche a qualcuna in più, ritengo fondamentale il lavoro di quanti come Giovanna sacrificano il proprio tempo per dedicarsi al sostegno e al recupero di chi ha commesso degli errori tanto da meritarsi di essere rinchiuso in una cella, con la consapevolezza che ciò non avvenga. Ma se solo una di quelle tante persone, che nel corso degli anni si incontrano tra quelle fredde mura, riuscisse a reintegrarsi davvero nella società grazie al lavoro dei volontari e al proprio impegno, sarebbe una grande conquista. […]

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Nel momento in cui il caso è diventato pubblico, spesso al vocabolo influencer vi si associa ironicamente quello di deficienters per indicarne i followers, dimenticandosi che deficienters lo siamo stati e lo siamo un po’ tutti: quanti da ragazzi non erano e non sono fan di un attore, di un cantante, di una band musicale, di un calciatore, di un personaggio famoso del quale copiavano e copiano il modo di vestirsi, i comportamenti, il linguaggio, il modo di mangiare e di fumare per illudersi di essere come loro?

Dispiace dirlo, deficienters lo siamo un po’ tutti

Da quando è esploso il Pandoro gate che ha come protagonista in negativo Chiara Ferragni – l’influencer è accusata di pubblicità ingannevole al fine di arricchirsi sulle spalle di quanti avrebbero acquistato un pandoro Balocco dal costo maggiorato convinti che parte del ricavato sarebbe poi andato in beneficenza all’ospedale Regina Margherita di Milano, come lei stessa asseriva in uno spot pubblicitario, mentre in realtà la Balocco aveva già provveduto a versare un obolo di 50 mila euro nelle casse del nosocomio, per cui il restante andava nelle tasche della Ferragni  – ha visto calare, si fa per dire, da oltre 30 milioni a poco più di 29 milioni il numero di followers, ossia di persone che la seguono sui social, imitandola in qualunque cosa faccia e correndo ad acquistare qualunque prodotto pubblicizzi per non sentirsi da meno.

Lo scandalo ha indotto alcune aziende che utilizzavano l’influencer come testimonial a sospendere la collaborazione. La prima è stata la Safilo Group produttrice di occhiali. A seguire la Coca-Cola; lo stesso starebbe per fare Monnalisa, noto marchio di abbigliamento per bambini. Una caduta d’immagine non da poco per la Ferragni, anche perché pare che lo stesso schema del Pandoro Balocco sarebbe stato adotatto per la vendita delle uova di Pasqua di Dolci Preziosi di cui la stessa Ferragni fu testimonial. […]

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Scorcio del Rione Terra di pozzuoli prima del restauro. Sullo sfondo il Capo Miseno. Anno 1995

NCOPP ‘A TERRA, LE FOTO DI BICCARI RICORDANO IL DRAMMA DEL RIONE TERRA

Serbare la memoria storica di un luogo è fondamentale non solo per attrarre turisti mediante le bellezze paesaggistiche e archeologiche, ma prima di tutto per comprendere ciò che oggi è diventato il suo popolo. Dal modo in cui sono serbate le antiche vestigia di un luogo abbiamo, infatti, modo di intuire quanto i loro eredi hanno rispetto per i propri avi e per se stessi. È come quando, entrando in una casa di estranei, guardandoci intorno, dal modo con cui è arredata e tenuta comprendiamo la qualità delle persone che la abitano.

Ncopp ‘a terra, la mostra fotografica di Gianni Biccari allestita a Pozzuoli nella chiesa di San Liborio, sul Rione Terra, dal 28 dicembre al 7 gennaio, è una rassegna di foto scattate dall’artista flegreo nel 1995, all’epoca in cui da poco era stato allestito il cantiere per la ristrutturazione della Rocca che, a distanza di trent’anni, non è ancora completata. […]

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