LUX IN FABULA PRESENTA IL SAGGIO DI SALVATORE BRUNETTI “DIALETTO PUTEOLANO”

Di seguito la versione integrale dell’articolo pubblicato su comunicaresenzafrontiere.it

Sabato 18 maggio per la rassegna QUATTRO CHIACCHIERE CON L’AUTORE, alle ore 18 da Lux In Fabula, a Pozzuoli, in Via Rampe dei Cappuccini 5, si presenterà “DIALETTO PUTEOLANO – Saggio storico grammaticale” di Salvatore Brunetti, edito da LUX IN FABULA.

Il testo, scritto dall’autore su insistenza di Roberto De Simone, è successivo a SCRIVERE IL DIALETTO NAPOLETANO pubblicato da Brunetti nel 2000.

Se il testo sul dialetto napoletano non poteva considerarsi una novità, visti i tanti volumi sull’argomento che lo avevano preceduto, certamente questo sul dialetto puteolano deve invece reputarsi una chicca in quanto, al di là degli interessanti riferimenti storici inerenti la derivazione e lo sviluppo della lingua napoletana e del dialetto puteolano, è strutturato come un vero e proprio testo di grammatica dove si parte dall’analisi dell’alfabeto, passando per la coniugazione dei verbi, finendo in appendice con testi esplicativi.

Il linguaggio asciutto e distaccato con cui Brunetti spiega al lettore l’utilizzo delle lettere straniere tipo la “j (gei) al posto della I italiana” per evitare “che più vocali si trovino strettamente legate in successione, nel dichiarato intento di rendere più fluida la parola”; o quando, parlando degli accenti, afferma, “nel dialetto puteolano il ricorso all’accento scritto è spesso imprescindibile per le numerose parole dalla dubbia pronuncia, che in quanto dialettali sono poco conosciute al di fuori dei propri ambiti”, rende la lettura del testo molto sobria e gradevole.

Non adottando mai né virtuosismi letterari né leziosità grammaticali che appesantirebbero il testo, l’autore si garantisce la disponibilità del lettore a seguirlo nell’excursus linguistico. E quando si sofferma a parlare degli avverbi e dei verbi, è molto piacevole affidarsi alle sue dissertazioni: “l’avverbio italiano misto dovunque non esiste in dialetto, al suo posto si usa: a r’aò và và, a r’aò stà stà, a r’ao èè, pe teutte parte.”; “Sarà invece opportuno evidenziare alcuni aspetti particolari del verbo dialettale puteolano rispetto allo schema generale delle declinazioni italiane” […] “ Peraltro, tale forma verbale, in quanto confondibile con il verbo peuzzà, che vuol dire emanare un cattivo odore, viene spesso evitata ed opportunamente sostituita anch’essa con il presente indicativo, utilizzando l’ausiliario avaé (avere). In tal modo, le frasi di cui sopra diventano, nell’ordine: – Aveit’ ‘a iettà ‘u sango (avete da buttare il sangue); – Aveit’ ‘a campà cient’anne (avete da campare cento anni)…

Seppure si tratta di un saggio storico-grammaticale, come recita il sottotitolo, di pregevole fattura, il libro di Brunetti si rivela allo stesso tempo una piacevole e divertente lettura capace di strappare più di un sorriso al lettore. Un merito questo non da poco, che va ulteriormente ad arricchire un lavoro ben fatto, a prescindere dalla piacevole amenità che lo pervade, che ogni puteolano e appassionato linguista dovrebbe conservare gelosamente nella propria biblioteca perché, se il napoletano è una lingua, il puteolano è una lingua musicale di origine marinaresca che andrebbe tutelata gelosamente così come andrebbe tutelato gelosamente tutto il patrimonio artistico/culturale puteolano. Viceversa, in molti casi, è lasciato alla mercé della vegetazione e dell’oblio che, cancellando il passato, sradicano dall’animo dei cittadini la memoria delle proprie radice, rendendoli storicamente orfani e dunque succubi di chiunque si presentasse al loro cospetto come novello salvatore della patria.

Il libro di Brunetti non racconta solo la nascita e lo sviluppo di un dialetto – meglio sarebbe dire “di una lingua”- ma si pone come estremo baluardo a ogni tentativo di estirpare dalla mente e dal cuore dei puteolani la storia delle loro origini conservate in quell’apparente linguaggio sguaiato e nelle fattezze tufacee di una storica rocca deturpata da un infinito rifacimento strutturale che non si sa se e quando verrà mai portato a compimento…

DOMENICO LIVIGNI RACCONTA LA SUA PASSIONE PER IL CINEMA E PER IL TEATRO

Di seguito l’intervista integrale pubblicata su comunicaresenzafrontiere.it

Di Domenico Livigni e della sua passione per il cinema e il teatro me ne parlò Gaetano Bonelli, fondatore e curatore del Museo Di Napoli, quando lo intervistai, definendolo “mio erede naturale”.

La loro storia è infatti simile, iniziano entrambi a collezionare in giovanissima età: Gaetano da che aveva otto anni, raccogliendo pezzi sulla storia di Napoli pre e post unitaria; Domenico da quando aveva quattordici anni per quanto riguarda la storia del cinema e del teatro. Ad oggi Domenico Livigni ha pubblicato un libro su Totò. Per saperne di più su di lui, lo abbiamo intervistato.

Domenico raccogli cimeli cinematografici da che avevi quattordici anni, oggi ne hai ventidue, da dove nasce questa passione per il cinema?

All’età di quattro/cinque anni iniziai a guardare i primi film comici, in particolare quelli di Totò, del quale in pochi anni posso dire di aver visto quasi tutta la filmografia. Successivamente incominciai a vedere quelli con altri attori che recitavano anche in teatro come i De Filippo, Nino Taranto, Macario, Aldo Fabrizi. Avendo gli stessi recitato sul set con Totò, ho preso lo spunto per scrivere insieme a Ciro Borrelli il libro TOTò CON I QUATTRO che si è presentato ieri sera al Museo di Napoli.

Immagino che casa tua si sarà trasformata in un magazzino di cimeli cinematografici e teatrali di ogni tipo, qual è la reazione dei tuoi genitori?

Inizialmente si spaventarono, poi con il passare del tempo, comprendendo e capendo soprattutto questa mia passione, hanno iniziato a sostenermi sia moralmente che economicamente.

Penso che quando non sei impegnato con lo studio te ne vai in giro per mercatini dell’antiquariato alla ricerca di oggetti rari, come reagiscono gli espositori alle tue richieste?

Inizialmente avevo un fornitore specifico, un negozio che si trovava a via Bellini, ‘O QUATT ‘E MAGGIO, che purtroppo non c’è più. Il proprietario di questo negozio, Guido Moio, è stato il mio primo maestro, è lui che mi ha trasmesso la passione per il collezionismo. Oggi ho diversi punti fissi, persone che mi stimano, alle quali ricambio la stima, per cui, quando faccio acquisti, sono certo che non mi verranno proposte delle patacche o dei bidoni, ma pezzi unici.

Hai definito Guido Moio il tuo primo maestro, presumo che il tuo secondo sia Gaetano Bonelli, il fondatore del museo di Napoli. Gaetano simpaticamente ti definisce il suo erede naturale. Poiché certamente conosci tutta la storia di Gaetano, le tante vicissitudini che ha passato e sta passando con il suo museo, non ti spaventa rischiare di ripercorrerne lo stesso travagliato iter?

Abbastanza! Secondo me Gaetano è un personaggio insuperabile, sia per quanto riguarda la sua forza di volontà sia quella culturale ed emotiva. Essere considerato stesso da lui il suo erede mi gratifica.

Domenico i tuoi amici come vivono questa tua passione?

Alcuni, condividendola, mi chiedono informazioni sui fornitori, anche se nelle spese non sono folli come me. Altri si limitano alla curiosità, unitamente a stima e ammirazione.

Qual è stata in termini economici la spesa più pazza che hai fatto?

Sicuramente centoottanta euro per comprare un baule teatrale dei primi anni trenta del teatro comunale di Foggia, oggi conservato nella mia stanza. Nel tempo ho poi cercato di trovare pezzi coevi tipo costumi, specchi, copioni in modo da riempirlo.

A Cinecittà ci sei mai stato?

Come no, più volte! Ci sono ritornato recentemente con la mia ragazza per vedere i teatri di posa tra cui il famoso teatro cinque dove girava Fellini. E poi spesso sono stato al centro sperimentale di cinematografia per consultare la Biblioteca Chiarini, un ente fondamentale per gli studiosi e appassionati di cinema. Diverse ricerche per il mio libro le ho effettuate lì.

Tu collezioni tutto ciò che riguarda il cinema e il teatro italiano, non solo quello napoletano. Riguardo al cinema possiedi anche cimeli inerenti ai primordi del cinema muto?

Per quanto concerne il cinema muto, nella mia collezione ho dei manifestini pubblicitari dei primi anni dieci dove ci sono ritratti di diversi personaggi dell’epoca, tra cui Vittorio Parisi, che fanno la propaganda a favore del nuovo mezzo mediatico, ossia del cinema.

Con l’avvento del digitale la pellicola è scomparsa. Come sopperisce a tale mancanza un collezionista come te?

Bella domanda… Oggi è possibile ritrovare pellicole da sedici o trentacinque millimetri. Con la ricerca accanita si riesce a recuperare quel che si può.

Quindi volendo proseguire cronologicamente nella tua ricerca, a un certo punto dovrai recuperare dvd…

Sì, esattamente! Anche se ad essere sincero, in sette/otto anni che colleziono ho sempre cercato di comprare pochissime pellicole in quanto richiedono spazi con particolare temperature per garantirne la conservazione e dunque la durata nel tempo. Quindi nella mia collezione ho soltanto due pellicole: il negativo del primo rullo di un film di Macario dal titolo NON ME LO DIRE e un film inedito in trentacinque millimetri di quattro pizze con Nino Taranto dal titolo IL SEGUGIO. Lo ritengo inedito in quanto, quando fu distribuito, se non erro agli inizi degli anni sessanta, ebbe una circolazione così breve, e non fu mai più riproposto né in videocassetta che in dvd, che può ritenersi tale.

Dove vuole arrivare Domenico Livigni?

Prima di tutto voglio completare gli studi universitari – sono iscritto ad Archeologia e Storia delle Arti e Scienze del Patrimonio Culturale alla Federico II di Napoli – e poi il mio sogno è mettere in luce la carriera di quei personaggi artisticamente bistrattati o sottovalutati. Infatti già con questa mia prima pubblicazione dedico ampio spazio a Macario e Fabrizi, fondamentali nella storia sia del cinema sia del teatro italiano, cercando di metterne in risalto aspetti sconosciuti tanto da meritarmi i complimenti di studiosi del settore i quali, leggendo il mio libro, hanno arricchito le proprie conoscenze su questi due monumenti dello spettacolo italiano!

In bocca la lupo…

Crepi!

 

VIAGGIO IN UN CAMPO ROM: LE FOTO DI SALVATORE DE ROSA

Di seguito la versione integrale dell’intervista pubblicata su comunicaresenzafrontiere.it

Pozzuoli: Sabato 4 maggio, per la rassegna ARTinGARAGE, curata da Gianni Biccari, all’Art Garage di Pozzuoli – Parco Bognar 21, adiacente alla stazione Metropolitana FS – si è inaugurata la mostra fotografica “VIAGGIO IN UN CAMPO ROM”, di Salvatore De Rosa.

L’esposizione durerà fino al 17 maggio e sarà visitabile dal lunedì al venerdì dalle 10 alle 22; il sabato dalle 10 alle 20; domenica chiusa. Ingresso libero.

Per l’occasione abbiamo intervistato l’autore.

Salvatore le foto dove sono state scattate?

Nel campo rom di Giugliano, era il 2014. Fui contattato, insieme ad altri due fotografi, da Vincenzo Tosti, attivista della terra dei fuochi, per denunciare lo stato di degrado in cui versava la struttura di accoglienza edificata dal comune senza tenere conto dei parametri europei. Dalle foto si evincono le tante pozzanghere di fango sparse sul terreno, i blocchi di cemento messi a casaccio e poi recintati e le case, vere e proprie catapecchie.

Da dove nasce questa propensione a documentare fotograficamente la vita in un campo rom?

A me piace la street photography, la fotografia di strada, e quando fui contatto per scattare questo reportage di denuncia non mi feci sfuggire l’occasione. E, visto che era per una buona causa, mi sembrò di prendere due piccioni con una fava. Quando entrammo nel campo, poiché i bambini andavano a scuola, portammo loro penne e quaderni rendendoli felici.

Di mostre fotografiche sui rom ne hai fatte già altre o questa è la prima volta?

No, non è la prima volta. La stessa mostra che è esposta oggi all’Art Garage, già fu presentata al Comune di Casalnuovo e lo scorso ottobre all’UCOP a Roseto degli Abruzzi. Ne ho fatte anche altre di mostre sui rom, diverse da questa. Sempre qui all’Art Garage ho esposto Viaggio in India. E poi ho avuto modo di esporre al FIOF di Orvieto.

In molte foto i soggetti sono primi piani di bambini, una scelta voluta o casuale?

Premetto che i bambini rom hanno dei visi molto caratteristici, per cui si prestano alla fotografia, ma non è stata una scelta voluta, assolutamente! Però mi immagino oggi quegli stessi visi come saranno deturpati, visto che sono passati quasi cinque anni da quando li ritrassi. Poiché l’ambiente ti forma, considerando le condizioni disagiate in cui vivevano e la vita che facevano, oggi la bellezza di quei volti che traspare dalle foto si sarà certamente dissolta. Come è del resto accaduto alla “ragazza afghana” di McCurry: quando la fotografò bambina era bellissima; alcuni anni dopo era “orrenda” in quanto l’ambiente in cui viveva, caratterizzato da soprusi, sofferenza e dolore l’aveva deformata!

Come nasce la tua passione per la fotografia?

La passione per la fotografia è conseguente alla mia passione per i viaggi. Io viaggio da che avevo diciassette anni e fino a quarantadue anni non mi sono mai fermato. Inizialmente fotografavo me in quei posti, ad esempio mi ritraevo con l’autoscatto accanto a un monumento o con alle spalle un bel paesaggio. Col tempo ho poi capito che tipo di foto mi sarebbe piaciuto fare e mi sono preoccupato di mettermi nella condizione di soddisfare le mie esigenze artistiche attraverso lo studio.

Essendo appassionato di street photography i tuoi scatti sono rubati…

Infatti: la street photography si regge sui cosiddetti scatti rubati, o congelare con la foto momenti che ti colpiscono e vuoi immortalare.

Hai mai avuto problemi mentre scattavi che qualcuno non volesse essere ritratto?

Solo una volta a New York: vidi un personaggio particolare che si reggeva su una stampella e pensai di fotografarlo. Lui non gradì la mia attenzione e cercò di rincorrermi e colpirmi con la stampella. La foto venne male e la cancellai.

Tu vivi di fotografia?

No, purtroppo, anche se mi piacerebbe. Sono dipendente di un’azienda telefonica.

Dunque il tuo senso artistico è represso in un ufficio…

Diciamo che non mi dispiacerebbe avere un po’ più di tempo libero da dedicare alla fotografia. Ma va bene così, il lavoro prima di tutto!

Ti stai adoperando per far sì che la tua passione un giorni diventi un vero e proprio lavoro?

Sto investendo in corsi di studio e unitamente faccio mostre per farmi conoscere. Ho vinto diversi concorsi fotografici e la foto della bambina con la sigaretta qui esposta ha vinto il Nikon Photography photo challenge 2018 ed è tuttora esposta al terminal Uno di Milano Malpensa.

Sei un canonista o un nikonista

Sono un nikonista e un fujista. Oltre alla Nikon posseggo una compact Fujy con cui giro Napoli per scattare senza dare nell’occhio: essendo Napoli un teatro a cielo aperto, ti offre un’infinità di spunti come nessun’altra città al mondo.

Dammi una definizione generica di cosa è per te la fotografia e poi definisci la “tua” di fotografia.

Per me fotografare è bloccare/congelare dei momenti. Poiché amo la street photography, congelare dei momenti particolari che non si possono ripetere.

Progetti per il futuro?

Ce li ho ma per scaramanzia preferisco non sbilanciarmi.

 

IL VELO DI ISIDE: FIORELLA FRANCHINI RACCONTA IL SUO ROMANZO

Di seguito la versione integrale dell’articolo pubblicato su comunicaresenzafrontiere

Sabato 4 maggio, per la rassegna QUATTRO CHIACCHIERE CON L’AUTORE, da Lux In Fabula si è presentato il romanzo storico IL VELO DI ISIDE, di Fiorella Franchini, edito da Homo Scrivens. Ambientato nel 77 d. C., il racconto narra l’impossibile storia d’amore tra Cassia Livilla, sacerdotessa di Iside, e Valerio Pollio Isodorus, navarco della flotta romana di stanza a Miseno, cui si intreccia un piano terroristico finalizzato allo sterminio della classis pretoria misenensis e all’uccisione dell’imperatore Vespasiano durante le celebrazioni di apertura della nuova stagione di navigazione.

Servendosi di un linguaggio semplice e diretto, tipico di chiunque faccia giornalismo – l’autrice è giornalista/pubblicista – la Franchini ha illustrato in maniera dettagliata ai presenti in sala, passo dopo passo, la genesi del racconto e l’enorme lavoro di ricerca storica che ha dovuto compiere affinché la trama assumesse una struttura solida e convincente che consentisse al lettore di sentirsi proiettato nell’epoca in cui si svolgono i fatti.

Essendo Cassia Livia sacerdotessa d’Iside, l’autrice ha dovuto svolgere anche uno studio approfondito sul culto di Iside, importato a Roma quando l’Egitto divenne provincia romana, arricchendo la trama con un pizzico di magia iniziatica che accresce il pathos narrativo, rapendo il lettore nelle maglie dell’intreccio facendolo sentire a sua volta permeato dal velo di Iside.

Senza mai cadere nella retorica, rischio di tutti gli scrittori, in particolare di quanti si cimentano con un romanzo di forte impatto evocativo qual è IL VELO DI ISIDE, dove la forza descrittiva della narrazione è determinante per far presa sul lettore, così come è asciutta e distaccata nello scrivere, la Franchini si è dimostrata altrettanto equilibrata nelle vesti di oratrice, catturando su di sé l’attenzione del pubblico in sala  dall’inizio alla fine della serata, senza mai stancarlo.

Un ottimo preambolo pubblicitario per il volume e, soprattutto, un’ottima vetrina per l’autrice la quale non cerca di stupire, ma semplicemente di raccontare una storia quanto mai verosimile tanto da indurre a chiedersi se Cassia Livia e Valerio Pollio Isodorus sono frutto della sua fantasia o personaggi esistiti per davvero; così come tutta la vicenda narrata appare quanto mai reale grazie a una scrittura fluida e accattivante che la tesse magistralmente parola dopo parola, rigo dopo rigo.

Questi dubbi li solleva solo un vero scrittore. Fiorella Franchini dimostra di esserlo!

 

STUDENTI VENEZIANI IN VISITA A RAGGIOLO PER ONORARE OSVALDO PETRICCIUOLO

Di seguito la versione integrale dell’articolo pubblicato su comunicaresenzafrontiere

Ideata dal maestro Osvaldo Petricciuolo per raccogliere in un’esposizione permanente buona parte della sua vasta produzione artistica, la Case d’Arte Musem Petricciuoliano si sta rivelando un importante luogo di studi per la formazione degli allievi dei licei artistici e delle accademie delle belle arti.

Situata a Raggiolo, in provincia di Arezzo, nel Casentino Toscano, a 800 mt alle falde del Pratomagno, oltre a conservare opere, bozzetti, progetti da cui si può apprezzare la potenza dell’estro artistico di Petricciuolo, la struttura è dotata di una ricca biblioteca composta da testi tecnici, spartiti e copioni teatrali essendo stato il maestro anche baritono e regista lirico, a testimonianza della versatilità artistica che lo caratterizzava.

Questa sua ecletticità, che lo incorona a pieno titolo tra gli artisti italiani contemporanei più poliedrici e fecondi vissuti tra il XX e XXI secolo, ha spinto le professoresse Lucia Guglielmi e Barbara Simoncelli dell’Istituto Artistico MARCO POLO di Venezia ad accompagnare sabato 4 maggio un gruppo di studenti a Raggiolo per visionare i bozzetti scenografici del maestro.

Giunti in pullman da Firenze dove soggiornavano, il gruppo di visitatori è stato accolto alla stazione di Bibbiena da Fiorenzo Pistolesi, sindaco dimissionario di Raggiolo, e da Laura Corazzesi, candidata sindaco con la lista civica UNITI PER ORTIGNANO/RAGGIOLO, che li hanno accompagnati in auto al paese dove li attendeva Brunilde Petricciuolo, figlia del maestro, soprintendente della Casa d’Arte e Presidente della fondazione intitolata al padre.

Dopo aver calorosamente accolto gli ospiti, la dottoressa ha tenuto un breve discorso introduttivo in cui ha spiegato ai ragazzi e alle loro accompagnatrici quanto il padre credesse nei giovani e nel valore formativo della cultura e dell’arte, spiegando il motivo per cui decise di stabilirsi proprio lì. Concludendo il suo intervento con la lettura di alcuni passi del manifesto con cui il maestro nell’aprile del 1970 a Rovaniemi in Finlandia inaugurò ufficialmente l’Iterspatium Apertum.

Terminati i convenevoli, la soprintendente ha invitato gli ospiti a infilare i guanti di lattice per sfogliare gli innumerevoli elaborati lasciati in eredità dal padre alle nuove generazioni e a quanti vogliano studiarli o semplicemente visionarli per pura curiosità.

Il rispetto con cui i ragazzi hanno maneggiato il materiale ha attestato la loro consapevolezza di avere tra le mani documenti che la professoressa Guglielmi non ha lesinato a definire “di inestimabile valore artistico e didattico”. Tesi rafforzata dalla professoressa Simoncelli la quale ha ammesso che “ la visita al museo è stata al di sopra delle mie più rosee aspettative”. Aggiungendo di non escludere di ritornarci con un altro gruppo di allievi. Magari d’estate per uno stage formativo di una settimana.

Alla domanda cosa ne pensassero di ciò che stavano visionando, i ragazzi hanno risposto di essere onorati di poter toccare con mano l’operato di un simile genio. Ammettendo di essere colpiti dalla facilità con cui il maestro spaziava dalla pittura alla scultura al canto alla regia, eccellendo in ogni campo a conferma dell’enormità del suo valore di artista.

La visita si è conclusa con un pranzo a base di pasta al forno e gateau di patate cucinati espressamente dalla padrona di casa, molto apprezzati sia dai ragazzi, che non hanno lesinato a fare il bis, sia dalle insegnanti.

Al termine, prima che andassero via, la dottoressa ha omaggiato ognuno degli ospite con una serie di cartoline e cd del padre affinché recasse per sempre con sé il ricordo di quel momento.

Siamo certi che da lassù il Maestro avrà apprezzato, sentendosi onorato e felice!

L’UOMO CHE REALIZZAVA I SOGNI

Di seguito la versione integrale del racconto pubblicato su comunicaresenzafrontiere

L’uomo che realizzava i sogni viveva in una baita nel bosco.
Tutte le mattine, prima che l’aurora tingesse di rosa il cielo, usciva di casa, zaino in spalla, per recarsi al fiume. Ivi giunto, adagiava lo zaino sulla sponda, sedendosi sull’erba umida di brina; si levava scarpe e calzini, arrotolandosi i pantaloni alle ginocchia. Quindi traeva dallo zaino, una dopo l’altra, tante bottigliette colorate e le affiancava sulla riva come tanti soldati di un esercito multicolore schierato per salutare il passaggio dell’ufficiale. Stringendole tra le mani, ripetutamente entrava e usciva dall’acqua, per riempirle tutte. Quel rito quotidiano si esauriva poco prima che il sole sorgesse sulle montagne.
Rientrato in casa, le sistemava sulle mensole alle pareti: sulla quella a est, dov’era l’ingresso della casa, troneggiavano bottiglie di colore rosa e celeste per quanti sognavano l’amore o una sincera amicizia; su quella a sud, su cui si apriva l’unica finestra della baita, svettavano quelle rosse per quanti bramavano travolgenti passioni e epiche avventure; sulle mensole ad ovest, affiancate alla credenza sopra il cucinino, erano le bottiglie blu per tutti coloro che desideravano affermarsi professionalmente. Sulla parete nord, sovrapposta al camino sempre acceso cui erano accostati il letto e il comodino ingombro di libri e una lampada ad olio, c’era una mensola con tante bottiglie bianche ricoperte da uno spesso strato di polvere, imbrigliate in fitte ragnatele a testimonianza che mai erano state rimosse per soddisfare quanti desiderassero un mondo scevro da malvagità, dove gli uomini vivessero in pace rispettandosi gli uni con gli altri.

Finito di sistemare le bottiglie, l’uomo si sedeva al tavolo; accendeva la pipa; chiudeva gli occhi e, fumando, iniziava a pensare, il viso velato dall’acre vapore che si sprigionava dalla pipa, nell’attesa che qualcuno bussasse alla porta chiedendogli di aiutarlo a realizzare il suo sogno. Dopo averlo ascoltato, l’uomo avrebbe preso una bottiglietta il cui colore fosse in sintonia con il desiderio da realizzare, l’avrebbe stappata e, porgendogliela, gli avrebbe chiesto di bere l’acqua racchiusa.
Erano anni, non sappiamo esattamente quanti, forse un’eternità, che l’uomo s’era assunto quel delicato compito. Nel corso del tempo, un’infinità di persone s’erano avvicendate presso di sé per realizzare i propri desideri. e mai nessuno era andato via scontento!

Un giorno, mentre preparava la minestra con le verdure raccolte nel bosco, alla porta bussò un giovane viandante dai radi capelli scuri, lo sguardo triste.
L’uomo lo salutò cordialmente, invitandolo a mangiare con sé. Mentre assaporavano la minestra, gli domandò “Qual è il sogno che vuoi realizzare?”
“Desidererei che al mondo non esistessero persone come te, capaci di svelare alla gente come fare per realizzare i propri sogni!”
Ascoltandolo, l’uomo restò perplesso. Si sistemò sulla sedia. Pulendosi le labbra col tovagliolo chiese “Perché?”
“La realizzazione di un sogno ne sancisce anche la morte.”
“E allora?” incalzò dubbioso, portandosi alle labbra il bicchiere d’acqua. “ Sono tanti i sogni a disposizione d’ogni uomo che non basterebbero un milione di di esistenze per realizzarli tutti.”
“E’ vero” convenne lui, il volto rischiarato da un pallido sorriso. “Ma non pensi che in questo modo si prolunghi l’agonia degli uomini sulla terra? L’uomo deriva da Dio e a Dio deve tornare. Finché sarà schiavo del desiderio, concedendogli l’opportunità di appagare i propri sogni, rinvierà sempre l’inizio del cammino per ritornare alla casa del padre!”
I gomiti ritti sul tavolo, il mento poggiato sulle dita incrociate delle mani, fissandolo attentamente, l’uomo meditava su quelle parole.
Alla fine, rizzandosi sulla sedia, con convinzione, sorridendo rispose “Hai perfettamente ragione, aiutare gli uomini a realizzare i propri desideri li allontana da Dio. Da quest’istante chiuderò bottega e si arrangeranno da soli!”
“Ben detto” esultò lui. Afferrò il bicchiere e brindò al soffitto.
Dopo aver bevuto, il giovane si alzò e, con aria soddisfatta, disse “Bene, ora che anch’io ho realizzato il mio sogno, vado via.”
“Aspetta” disse l’uomo alzandosi dal tavolo. Si recò alla parete dove era la mensola con le bottiglie bianche e ne prese una. Vi soffiò sopra, diffondendo nell’aria una densa nube di polvere, strappando via la spessa ragnatela che l’avvolgeva. “Solo se berrai quest’acqua il tuo sogno si realizzerà” disse porgendogli la bottiglia.
Perplesso, il giovane bevve disgustato quell’acqua stagnante. Poi andò via.
L’uomo che realizzava i sogni lo accompagnò alla porta: chiuse l’uscio solo quando l’immagine di lui si dileguò nella boscaglia.

Il sole era tramontato. L’uomo sparecchiò il frugale desco, indossò il pigiama e si coricò aprendo un libro.

Al riparo della fitta boscaglia, il giovane si svestì.
“Finalmente” disse tra sé, sorridendo malizioso. Man mano che indossava gli abiti che aveva nascosto nel terreno, la sua voce assumeva un tono sempre più cavernoso. “Quell’uomo mi aveva proprio stufato. Con quella sua maledetta mania di realizzare i sogni degli altri, facendogli bere quella disgustosa acqua appantanata, stava causando la fine del mio regno.”
Con la labbra lanciò un fischio sibilante: tra i cespugli, comparve uno stallone nero più della notte.
Il diavolo lo cavalcò e si lanciò al galoppo nella selva. Una lugubre risata riecheggiò nel silenzio.

Prima di spegnere la luce e addormentarsi, l’uomo che realizzava i sogni, con le mani incrociate dietro la nuca, sorrise al soffitto.
“Povero Belzebù” pensò. “Credeva che non l’avessi riconosciuto. Bramoso di affermarsi, non ha pensato che l’unico modo perché gli uomini divengano facili prede del diavolo è proprio quello di offrire loro la possibilità di realizzare ogni loro desiderio. Impedendoglielo, sfiniti dai tormenti dell’anima perché ciò che desiderano non si realizza, imploreranno la grazia di Dio, rinnegando le passioni di cui sono schiavi, affidandosi alla sua misericordia. Che stupido il diavolo, non si è reso conto che chiedendomi di realizzare il suo desiderio ha realizzato il mio: finalmente l’umanità ha intrapreso il cammino verso la pace!”
Così pensando, Dio sbadigliò, spense la luce, e, dopo tanto tempo, non sappiamo quanto, finalmente si riposò!

Fine

 

MUSEO DI NAPOLI, FINALMENTE SI MUOVE QUALCOSA. SPERIAMO SI MUOVANO ANCHE LE ISTITUZIONI.

Di seguito l’articolo integrale pubblicato su comunicaresenzafrontiere

Seppure a fatica e tra mille insidie, il Museo di Napoli, fondato e curato da Gaetano Bonelli, sta cominciando a farsi conoscere dai napoletani e dai turisti. Questo soprattutto grazie al passaparola di quanti, dopo averlo visitato, restandone affascinati, si attivano per farlo conoscere ad amici e parenti.

Allestito in uno spazio di 200 mq nella Casa dello Scugnizzo in Piazzetta San Gennaro a Materdei 3 per gentile concessione del dottor Antonio Lanzaro Presidente della Fondazione Casa dello Scugnizzo, Il Museo di Napoli, sarebbe meglio dire la Collezione Bonelli, consta di oltre diecimila pezzi originali tra locandine teatrali, bandi pubblici del regno borbonico e unitario, manifesti pubblicitari, foto, oggetti, documenti e tant’altro, raccolti dal curatore in oltre trentacinque anni di ricerche iniziate quando aveva appena dodici anni girando tra rigattieri e mercatini dell’antiquariato.

Il modo con cui Bonelli accoglie i visitatori è familiare, tipicamente napoletano. Prima di spalancare le porte di quella che lui a giusta ragione definisce la “stanza delle meraviglie”, li fa accomodare nel suo studio per spiegargli cosa stanno per vedere, non lesinando di “chiamare” il bar per offrirgli il caffè.

Dopo la dettagliata spiegazione, non avulsa da riferimenti critici verso le istituzioni le quali, pur avendo in più occasioni pubblicamente riconosciuto il valore storico e l’assoluta unicità della collezione, non sono mai andate al di là delle parole di prammatica o di qualche mera pergamena di encomio, l’ingresso nella sala espositiva catapulta gli ospiti in uno straordinario universo di ricordi cristallizzati nelle cornici alle pareti, nelle bacheche e nelle teche che adornano lo spazio dove è raccolta solo una minima parte dell’intera collezione, (dei locali a disposizione, al momento ne è utilizzato soltanto uno).

Nelle due ore di visita Bonelli spiega ogni singolo pezzo, partendo dal citofono di fine ottocento alla parete d’ingresso, abbinandovi aneddoti storici per sancire quanto fosse avanzato il Regno di Napoli rispetto all’Italia preunitaria. Scopriamo così che i veri inventori della mongolfiera furono i napoletani Vincenzo Lunardi e Tiberio Cavallo i quali non registrarono l’invenzione, consentendo ai fratelli francesi Montgolfier di appropriarsi del brevetto; che l’inventore della forchetta, la posata che quotidianamente usiamo a tavola per mangiare, fu Giovanni Spadaccini, gran ciambellano di corte, su ordine di re Ferdinando II di Borbone il quale, amando la pizza e gli spaghetti, chiese che si inventasse un oggetto che gli consentisse di mangiare quando era a corte ciò di cui era ghiotto senza servirsi delle mani, come era invece solito fare quando si travestiva da popolano e se ne andava in giro per la città; che Napoli aveva fabbriche di carte da gioco, di figurine di calciatori, di sigari per nulla inferiori come qualità ai toscani e agli avana, di guanti famosi in tutto il mondo, di birra e di cessi tutte ai primi posti in Europa.

Quelli di Bonelli non sono i vaneggiamenti di un nostalgico borbonico, ma di chi, nel corso degli anni, ha sacrificato la propria vita a Napoli, raccogliendo pazientemente, spendendo per giunta una fortuna, pezzi di ogni sorta che riguardassero la città. Preoccupandosi di unire l’utile al dilettevole, approfondendo in maniera certosina la storia di ogni singolo pezzo perché convinto che avrebbe acquistato valore agli occhi delle persone se fosse stato accompagnato da un pedigree.

Da grande affabulatore qual è Bonelli incanta i visitatori animando con le parole bottiglie, biglietti del tram e biglietti per piroscafi diretti oltreoceano – la White Star, la casa armatrice del Titanic, aveva navi che partivano da Napoli per le Americhe – caffettiere “napoletane”, mattonelle, timbri e matrici per carte da gioco tutte rigorosamente di produzione napoletana. Dimostrando che fin poco dopo la fine della seconda guerra mondiale Napoli continuava ad avere tante eccellenze che lentamente sono andate a scomparire, soprattutto per l’incapacità degli stessi napoletani di apprezzare quanto avevano, probabilmente perché ignoravano e tuttora ignorano la gloriosa storia della loro città. Forse perché indotti in questo da ambienti politici e culturali autoreferenziali che hanno fatto di tutto, e continuano a farlo, per cancellare ogni traccia del celebre passato di Napoli Capitale senza però proporre alternative concrete e costruttive in grado di rilanciare la città.

Oltre a oggetti e stampe di ogni genere, la Collezione Bonelli si fregia di documenti del Banco di Napoli che nemmeno la Fondazione Banco di Napoli possiede, a conferma della vastità del lavoro svolto dal suo curatore nel corso degli anni. Anche in questo caso tale lavoro è stato pubblicamente riconosciuto dai responsabili della fondazione in visita al museo per visionare quanto vi è raccolto.

Se vogliamo dirla tutta, la Collezione Bonelli è un libro sulla storia di Napoli scritto con gli oggetti quotidiani che hanno segnato gli ultimi centosessanta anni della città cui le istituzioni locali dovrebbero il giusto riconoscimento. Magari mostrandosi altrettanto sensibili come la Fondazione Casa dello Scugnizzo, mettendo a disposizione dei locali in un luogo storico dove poter esporre in maniera permanente l’intera collezione, dando modo a Napoli di fregiarsi di un Museo che la celebri in maniera così puntuale, cosa che nessun’altra città al mondo può vantare, e ai turisti di iniziare finalmente a comprendere cosa è Napoli.

Se è vero che bisogna conoscere il passato per comprendere il presente, acquisire la consapevolezza di quanto fosse all’avanguardia ed economicamente ricca la Napoli preunitaria rispetto al resto dell’Italia dell’epoca cozza con l’attualità dove appare una città in perenne disfacimento civile, sociale, urbanistico e strutturale, alla disperata ricerca di una propria identità; una città che fatica a decollare, malgrado gli sforzi delle varie amministrazioni succedutesi nel corso degli anni, dove i diritti dei cittadini garantiti dalla Costituzione qui diventano concessioni per pochi intimi da strapparsi con i denti, spesso rimettendoci qualcosa.

La Collezione Bonelli ci racconta di una Napoli al top. Com’è possibile che, all’indomani dell’unità, quella perla del mediterraneo, terza potenza economica e militare dell’epoca, sia diventata lo spettro di se stessa?

Onore alla Collezione Bonelli, la sua esistenza è una medicina per non dimenticare e, soprattutto, per ritornare a ricordare.

Chi di dovere si impegni affinché questa medicina sia disponibile per tutti, non solo per pochi privilegiati.

La presa di coscienza è la sveglia perché ogni popolo si rimbocchi le maniche e si dia da fare per costruire una società migliore per i propri figli!

Premesso che questa sveglia la si voglia dare davvero…

 

Vincenzo Giarritiello

 

UN UOMO FELICE

All’inizio incontrò la felicità cavalcando l’infinita onda della vita in un oceano nutriente.

Attraverso la spirale ombelicale, godeva della frenesia dei sensi di cui era preda sua madre ogniqualvolta suo padre la stringeva a se e l’amava dolcemente, accarezzandole i seni gonfi di vita, baciandola con passione, niente affatto inibito dal pancione che ella orgogliosamente mostrava. Entrambi erano consapevoli di rendere partecipe loro figlio racchiuso nel ventre di lei dell’amore che li univa e d’aiutarlo, in quel modo, a crescere felice.

Per nove mesi si avventurò in un mare d’emozioni, navigatore solitario alla scoperta di un mondo oscuro, dove l’eco sfocata d’incomprensibili parole sussurrate con dolcezza si dissolveva nell’infinità del sogno.

L’incanto di quegli istanti svanì nell’attimo in cui le acque iniziarono a fluire attraverso il canale esistenziale, trascinandolo con sé, e mani guantate lo strapparono all’oblio.

Riconobbe la felicità nel capezzolo colmo di latte che ogni quattr’ore gli si accostava alle labbra. Succhiandolo, riascoltava il ritmo che aveva scandito il lento evolversi della sua vita embrionale, addormentandosi felice perché il sogno era ripreso.

Crescendo, la felicità assunse il gustoso sapore degli omogeneizzati e della crema di riso che si stropicciava, impertinente, su tutta la faccia, suscitando la gioia di quanti lo guardavano pasticciare in quel modo.

Felicità era infilare le dita nel bicchiere colmo di succo di frutta che sua madre gli porgeva preoccupata, sperando che non lo riversasse sul pavimento appena lavato.

Felicità fu strappare le orecchie ad un cagnolino di pezza regalatogli dai nonni per la sua festa, o schizzare l’acqua mentre faceva il bagno circondato da pesciolini di plastica e anatroccoli di gomma.

Nei primi anni di scuola, la felicità assunse i dolci tratti del sorridente viso della maestrina che, pazientemente, insegnava a lui e agli altri bimbi a leggere e a scrivere. Spesso fingeva di non sentirsi bene in modo che lei lo tenesse vicino a sé fino a quando la mamma non lo andava a prendere.

Felicità fu la sagoma svettante di un abete ornato di luci e festoni, con tanti pacchi colorati, raccolti sotto rami colmi di aghi, che non vedeva l’ora di scartocciare per scoprire se dentro ci fosse il giocattolo tanto desiderato che gli era costato promesse impossibili da mantenere.

Da ragazzo la felicità si disciolse nel sale del sudore che gli solcava il viso mentre, in pantaloncini e scarpette chiodate, rincorreva, insieme con una frotta di ragazzini festanti, una sfera di cuoio rotolante sul prato dei giardini pubblici, incitato a gran voce da suo padre che gli gridava di fintare e di passare la palla al compagno smarcato sull’ala.

Tredicenne scoprì la felicità fluirgli tra le dita di una mano in un liquido denso simile a burro fuso. Lo scoprì mentre sfogliava, chiuso nel bagno, la rivista prestatagli dal compagno di banco: fissando con gli occhi sgranati i corpi delle donne nude ritratti sulle pagine patinate, l’essenza della vita si riversò nelle pieghe della mano donandogli un caldo piacere.

Comprese quanta vacua fosse quella felicità solitaria alcuni anni dopo, durante una festa di compleanno di un compagno… Per gioco, ballando con un’amica, accostò le labbra alla sua bocca assaporandone la timida e gustosa acerbità. Stringendola a sé, in un’interminabile danza senza musica, il calore della sua femminilità gli dilatò le vene e il cuore. In quegli attimi riconobbe la felicità nello sguardo timoroso di una fanciulla che, all’improvviso, scopriva d’esser ormai pronta per diventare donna.

La travolgente forza della felicità lo sorprese l’ultimo anno di liceo, tra le ardenti braccia di una ninfa mediterranea che lo stordì con l’ansante galoppo dei sensi, trascinandolo in un turbinio di emozioni appagate quando il fiume del desiderio fu prosciugato dalla sete di lei.

Felicità fu una notte al chiaro di luna, su una spiaggia deserta, ad ammirare una bionda sirena dagli occhi dell’acqua uscire dal mare, vestita solo della sua pelle di stelle, distenderglisi accanto e offrirsi alle carezze dalle sue mani impazienti. Sfiorando le sinuosità di quella venere da fiaba, la felicità ammantò le loro anime nude unendole nell’eternità, al canto del mare, sull’umido arenile.

Felicità fu giurare eterno amore,in un piccola chiesa di campagna, a una donna che lo amava più della sua vita, attorniati da una folla festante che applaudiva sotto lo sguardo paterno e felice di un giovane prete.

Felicità fu stringere tra le braccia il figlio appena nato. Sentire le sue esili mani aggrapparsi al cotone della camicia nella disperata ricerca di una mammella cui nutrirsi per continuare anche lui a sognare.

Da vecchio, felicità fu alzarsi presto al mattino, farsi la barba con un pennello schiumoso, tendendo l’orecchio al caffè che sua moglie aveva messo sul fuoco; aprire il balcone e affacciarsi alla ringhiera con la tazzina fumante nella mano per il piacere d’ascoltare i rumori della città che lentamente si ridestava dal sonno, osservando dalle finestre aperte le mamme preparare i figli per la scuola o i mariti salutare dalla strada le mogli affacciate alle finestre.

Felicità fu lasciarsi annodare la cravatta dalla tremanti mani della sua donna imbiancata dagli anni e uscire di casa per comprare il pane caldo e il giornale che avrebbe sfogliato fino a quando l’orda di nipoti impazziti non avrebbe invaso la tranquilla esistenza di due vite felici ormai prossime al tramonto.

In ogni istante della vita riconobbe la felicità perché non finì mai di cercarla, perfino quando la malattia lentamente lo trasformò in un infante inerme dai ricordi confusi.

In punto di morte, i volti affranti dal dolore delle persone care si trasformarono in un luminoso cerchio di ricordi felici che avevano segnato la sua semplice esistenza di uomo capace di trovare la felicità anche nella sofferenza e nel dolore, perché per lui felicità fu vivere la sua semplice vita d’uomo fino all’ultimo respiro in cui suo figlio gli chiuse gli occhi ormai privi di luce.

 

PARADOSSI

Di seguito la versione integrale del racconto pubblicato su comunicaresenzafrontiere.it 

Svuotato d’ogni sostanza, il tempo ristagnava come nebbia nella stanza arredata con due sole sedie di legno, disposte l’una di fronte all’altra, rispettivamente occupate da un uomo sereno e da uno triste, entrambi vestiti di niente.
Fasci di luce, cadenti dal soffitto, avvolgevano le loro figure in opache fluorescenze, esaltandone i contrastanti stati d’animo trasparenti sui loro volti.
“Rabbi, potrai mai perdonarmi?” – chiese l’uomo triste, fissando la scacchiera di marmo del pavimento.
“Perdonarti di cosa?” – replicò serenamente l’altro.
“Di averti venduto come bestia al mercato.”
“Nelle azioni degli uomini dimora la volontà di Dio!”
“Mia madre, povera donna, sarà maledetta in eterno per avermi dato alla luce” – piagnucolò l’uomo triste. Dai suoi occhi il dolore stillava al suolo.
“Eppure il ricordo del figlio ne allevierà la sofferenza dal cuore ogniqualvolta la solitudine busserà alla porta della vecchiaia” – replicò l’uomo sereno.
“Il nome mio, immaginato nel silenzio del tempio, riecheggerà peggio di una bestemmia” – mormorò afflitto l’uomo triste.
“Ma rimarrà impresso in eterno nella memoria della vita, perché il dubbio marchiato dalle tue labbra sulla mia guancia ha sancito la vittoria del bene sul male!”
L’uomo triste levò lo sguardo, e crucciato fissò l’uomo sereno, non comprendendo il senso delle sue parole.
“Se il dubbio non ti avesse colto – continuò l’uomo sereno – e non mi avessi ingannato, come avrei potuto rimuovere, per sempre, dal cuore degli uomini la cenere che adombra le loro coscienze affinché la chiarezza attecchisca in loro?…Condanneresti mai il ferro del chirurgo?”
“Rabbi, che sarà di me?” – implorò l’uomo triste.
“L’ignoranza e l’ipocrisia umana ti condanneranno quale unico colpevole dei mali del mondo, così come la terra maledice il contadino che la ara preparandola alla semina per renderla feconda; o come l’albero ingiuria la mano che lo mutila affinché la vita rifiorisca rigogliosa dal suo stesso tronco; oppure come la pietra di cava sputa addosso all’artista che la violenta con martello e scalpello per donarle forma e senso.”
All’improvviso la stanza piombò nel buio.
Il timore riecheggiò nelle tenebre.
“Rabbi, che succede?”- riecheggiò la voce spaventata dell’uomo triste.
”L’ombra è figlia della luce: le tue labbra hanno spalancato le porte alla luce. Quanto più splendente sarà la luce, tanto più spessa sarà l’ombra che essa proietterà sul mondo, Giuda!”

 

Vincenzo Giarritiello

IL ROGO DI “NOTRE DAME” DE PARIS, TRA REALTA’ E FANTASIA

1-notredamedeparis-c15517

A seguire le considerazioni sul rogo di Notre Dame pubblicate su comunicaresenzafrontiere

Ieri sera mentre guardavo incredulo alla televisione l’incendio di Notre Dame a Parigi, il crollo della guglia mi ha ricordato quello delle “torri gemelle” di New York dell’11 settembre 2001. Con la differenza, non da poco, che mentre quella tragedia fu causata da un attentato di matrice islamica dove perirono poco meno di 3 mila persone, l’incendio di Notre Dame non ha prodotto né vittime né feriti e sarebbe da addebitarsi quasi sicuramente a negligenza umana, non a caso gli inquirenti hanno aperto un’inchiesta per incendio colposo escludendo il terrorismo.

Se per molti, non solo per i parigini, Notre Dame rappresentava un simbolo della cristianità, e dunque il suo rogo è una ferita mortale al cuore della Chiesa e dei suoi milioni di fedeli, per me essa effigiava un “libro di pietra”, definizione adottata dallo scrittore francese Victor Hugo nel suo capolavoro IL GOBBO DI NOTRE DAME. Nel libro quinto del secondo capitolo intitolato QUESTO UCCIDERA’ QUELLO, con “questo” lo scrittore si riferisce ai libri di carta prodotti mediante l’invenzione della stampa, mentre con “quello” ai libri di pietra come le cattedrali e Templi dell’antichità, sulle cui mura i costruttori avrebbero inciso sotto forma di sculture messaggi in codice racchiudendovi i misteri dell’umanità. Tali messaggi sarebbero decodificabili solo dagli iniziati, ossia coloro che abbandonano la vita comune e dopo un lungo cammino catartico fatto di studio, lavoro, preghiera e di una condotta di morigerata, assurgono al grado di INIZIATO.

Ovviamente Hugo non fu il solo a intuire – sarebbe più giusto dire “sapere” – che le cattedrali gotiche erano Templi sulle cui pareti gli antichi avevano inciso messaggi in codice. Un altro che affrontò in maniera dettagliata il tema fu l’alchimista francese Fulcanelli che scrisse due saggi, IL MISTERO DELLE CATTEDRALI e LE DIMORE FILOSOFALI, dove asseriva con l’ausilio di foto e dipinti che sulle pareti della Cattedrale di Chartres e di altre cattedrali gotiche francesi, inclusa Notre Dame a Parigi, i fregi scolpiti sulle mure e sulle colonne svelassero il mistero della Grande Opera, ossia come realizzare la trasmutazione alchemica del “piombo” in “oro”. Dove il piombo simboleggia l’uomo schiavo della materialità, mentre l’oro l’uomo spiritualizzato, cioè chiunque sacrifica la materia per elevarsi spiritualmente. Ma non solo: tali fregi, come ad esempio quelli presenti in molti templi egizi, testimonierebbero che gli antichi erano in possesso di profonde conoscenze scientifiche, ad esempio come produrre e utilizzare l’energia elettrica…

La precedente lunga premessa era indispensabile per giustificare la riproposizione su questa “pagina” delle considerazioni che scrissi sul mio blog quattro anni fa, subito dopo aver letto IL GOBBO DI NOTRE DAME. Spero sia un buon auspicio affinché in tempi brevi Notre Dame sia nuovamente riconsegnata all’umanità in tutto il suo splendore artistico, religioso e iniziatico.

——————————————————————————-

Di libri sull’ermetismo ne ho letti tanti. Così come ne ho letti diversi sul significato ermetico delle cattedrali gotiche e degli antichi insediamenti archeologici quali la piana di Giza in Egitto con le sue misteriose piramidi e la sfinge. Ogni autore, analizzando quei siti millenari, sembra faccia chissà quali scoperte legate alle origine della civiltà umana; alla presunta esistenza in un lontano passato di una civiltà tecnologicamente avanzata nella quale molti identificano l’Atlantide di cui parla Platone nel Timeo e nel Crizia.

Perfino il Fulcanelli, famoso per IL MISTERO DELLE CATTEDRALI, analizzando i portali e le statue di Notre Dames de Paris, giunge alla conclusione che quei simboli racchiuderebbero il segreto della Pietra Filosofale e farebbero riferimento a un antico passato dell’umanità sepolto nella sabbia del deserto…

Poi leggi NOTRE DAMES DE PARIS di Victor Hugo e ti rendi conto che lo scrittore francese è stato l’antesignano di tali teorie e studi; che il Fulcanelli e tutti gli altri che hanno successivamente affrontato l’argomento gli hanno semplicemente fatto il verso, prendendo spunto dal suo grandioso romanzo…

Addirittura nel 2° capitolo del libro 5° intitolato QUESTO UCCIDERà QUELLO, parlando dei “libri di pietra” uccisi da quelli stampati, riferendosi ai monumenti dell’antichità costruiti con gli stessi criteri filosofici con cui successivamente furono edificate le cattedrali gotiche, in rapporto alle piramidi d’Egitto Hugo suppone che sulla loro superficie “sono scivolate le acque del diluvio”.

Tesi che oggi tende sempre più ad accreditarsi grazie alle moderne strumentazioni atte a misurare l’età dei monumenti, anticipando di migliaia di anni la costruzione delle piramidi e della sfinge. Questa ipotesi è avvalorata negli ultimi anni dall’archeo-astronomia, neo-disciplina scientifica grazie alla quale, attraverso sofisticati software, è possibile risalire all’esatta posizione delle stelle in cielo migliaia di anni fa.

Mediante questa nuova tecnica di ricerca, prendendo in esame la piana di Ghiza con le sue piramidi e il Nilo, più studiosi sono giunti alla conclusione che il sito riproporrebbe in terra l’esatta disposizione della costellazione di Orione” così com’era circa 10.300 anni fa: le tre piramidi riprodurrebbero quella che all’epoca era l’esatta posizione in cielo delle tre stelle che ne formano la “cintura” mentre il Nilo l’equivalente posizione della Via Lattea.

Tesi ampiamente discussa e suffragata dallo scrittore britannico Graham Hancock nel suo best seller IMPRONTE DEGLI DEI. Hancock addirittura riferisce che le scanalature sulla sfinge sarebbero conseguenza dell’erosione dell’acqua e risalirebbero a oltre 9 mila anni fa, epoca dell’ultima glaciazione, dunque di un vero e proprio diluvio che si abbatté sulla terra. Inoltre egli ipotizza che la testa originale della sfinge non sarebbe quella attuale ritraente il volto del faraone Chefren, bensì tutta la struttura, non solo il corpo, in origine riproducesse un leone in riferimento alla costellazione del Leone in cui sorgeva il sole circa 10.500 anni fa. Solo successivamente, circa 2500 anni, la testa della sfinge sarebbe stata modificata in quella che conosciamo oggi…

Fantasie? Probabile! Una cosa è certa, nel suo romanzo Victor Hugo, seppure en passant, afferma che le acque del diluvio sarebbero scivolate sulle pareti delle piramidi…

Come faceva lo scrittore francese a conoscere una possibile verità che solo negli ultimi vent’anni sta tendendo ad affermarsi, seppure osteggiata dall’archeologia ufficiale?

Potere della sua geniale fantasia o che?…

Vincenzo Giarritiello