LUX IN FABULA OSPITA “CONVERSAZIONI SOCIALMENTE UTILI”

Di seguito la versione integrale dell’articolo pubblicato su comunicaresenzafrontiere.it

Pozzuoli – presso Lux in Fabula, sabato 22 giugno, in appendice alla rassegna QUATTRO CHIACCHIERE CON L’AUTORE, si è tenuto l’incontro “CONVERSAZIONI SOCIALMENTE UTILI” rassegna itinerante organizzata dalla giornalista Carla De Ciampis:l’obiettivo è condividere in uno “spazio fisico” argomenti del vivere quotidiano attraverso la conversazione tra esperti di una materia e una ristretta platea di persone.

L’odierna “conversazione” ha visto protagonisti gli esperti: avv. Lucia Vitiello – ADUSBEF (Associazione Difesa Utenti Servizi Bancari e Finanziari) sede di Santa Lucia, Napoli –  il dott. Antonio del Prete – Direttore Organizzativo APS Sud Fundraising e un gruppo di soci dell’associazione Lux in Fabula.

L’ intervento dell’avvocato Vitiello ha toccato dapprima la figura del consumatore all’interno della legislazione italiana ed europea. Poi ha illustrato il ruolo indipendente e centrale dei consumatori con le banche, gli istituti di credito e assicurativi.

Dal 2007, grazie all’opera del legislatore, il cittadino è stato dotato degli strumenti idonei per potersi difendere anche in ambito bancario/assicurativo. L’esperta ADUSBEF ha continuato con una breve disamina del Codice del Consumo, lo stesso va considerato come una svolta importante nella tutela dei consumatori italiani, soprattutto per la rilevanza che assume in termini di politica del diritto.

La Vitiello ha ricordato la facoltà del consumatore, in ambito bancario, di richiedere per ottenere un mutuo, un prestito o altro, l’intera documentazione contrattuale prima di sottoscrive, per poterla esaminare con calma anche con l’aiuto di un esperto, o delle associazioni dei consumatori.

“Evitare – sottolinea l’avvocato – la prassi di firmare senza la dovuta consapevolezza e disamina”. Spesso, il sottoscrittore “incauto”  può incorrere in clausole capestro, con un dispendio di tempo e spese aggiuntive. Ha concluso “oggi il legislatore è a favore del consumatore, con un Codice sul Consumo, con le attività in autotutela e con le associazioni dei consumatori presenti su tutto il territorio“.

L’argomento “Forme di sostegno al territorio: il 5 x 1000 al Sud tra ritardi e difficoltà” trattato dal Direttore Organizzativo APS SUD Fundraising, Antonio Del Prete, ha evidenziato il ruolo fondamentale della comunicazione e del marketing per le Associazioni del terzo settore e ricerca.

Dopo un breve cenno sulle diverse destinazioni del 2, 5 e 8 per mille nelle dichiarazioni dei redditi (8×1000 – devoluto alle istituzioni religiose o Stato; 5×1000 – alle associazioni impegnate nel sociale, ricerca; 2×1000 ai partiti e movimenti politici) l’esperto ha chiarito il ruolo fondamentale dei dottori commercialisti e dei centri di assistenza fiscali-Caf- per la parte operativa e di informazione ai contribuenti a partire dal Codice Fiscale dell’Associazione a cui destinare.

Il Meridione – ha spiegato Del Prete – sconta la mancanza della comunicazione, del non fare marketing da parte delle Associazioni interessateIn Italia poco più dell’11% di questi fondi va al mezzogiorno. La maggioranza viene distribuita ad associazioni dislocate al Nord, in particolare in Lombardia e nel Lazio“.

Tale disparità non è da attribuirsi a una gestione “federalista” dei fondi, bensì a una capacità di fare comunicazione/marketing da parte di molte associazioni ma anche ospedali del centro nord rispetto a quelli del sud; unitamente a una disparità di redditi tra nord e sud a svantaggio di quest’ultimo.

“L’ importanza del fare una buona comunicazione si tramuta in cifre: per esempio, l’Ospedale Meyer di Firenze raccoglie tantissimo rispetto a qualunque ospedale pediatrico del sud. Le cifre si ottengono anche per un lavoro continuo tutto l’anno. Gruppi di volontari girano per i reparti pubblicizzando le attività dell’ospedale Mayer, invitando i genitori e parenti dei piccoli degenti a devolvere, quando sarà il momento, il proprio 5×1000 all’ospedale affinché possa finanziarsi e proseguire il proprio lavoro di ricerca, garantendo la migliore assistenza “. “L’importanza della scelta del 5×1000 nella propria dichiarazione dovrebbe essere percepita da ogni contribuente non solo barrando la casella relativa”.

Infatti, la destinazione, si effettua mediante l’inserimento del Codice Fiscale dell’Associazione prescelta. Il nostro 5×1000 se non indirizzato con il predetto codice fiscale confluirà automaticamente in un fondo generale che sarà, poi, distribuito alle prime 8 associazioni nazionali impegnate nella ricerca e nel sociale. Evidenzia Del Prete “tali 8 associazioni sono tutte dislocate nel centro nord, mentre potremmo favorire le nostre al sud destinando consapevolmente il 5 per Mille”.

La serata o meglio la Conversazione si è conclusa con la condivisa soddisfazione dei presenti e la necessità di incontrarsi di nuovo per proseguire questo “apprendimento sociale” su altre tematiche.

 

Vincenzo Giarritiello

“ERAVAMO TANTO RICCHI” LE MEMORIE DI ANNAMARIA VARRIALE

Di seguito la versione integrale dell’articolo pubblicato su comunicaresenzafrontiere.it 

La sensazione che si ha leggendo ERAVAMO TANTO RICCHI di Annamaria Varriale, edizioni Homo Scrivens, è di avere tra le mani un album fotografico in cui sono serbate in ordine cronologico le foto in bianco/nero di famiglia di più generazioni e, mentre lo sfogliamo, di sentire una voce di donna che in maniera didascalica, senza sbalzi emotivi, racconta ogni singolo scatto, soffermandosi sui particolari, imbastendo una storia lineare ed emozionante foto dopo foto.

Con voce ferma, perfino quando narra vicende tragiche come l’improvvisa scomparsa della mamma quando era ancora bambina, l’autrice tratteggia un affresco familiare di pregevole fattura narrativa, regalandoci un’opera affascinante in grado di farci vedere personaggi e scenari, respirare odori e profumi di cibi e stagioni, ascoltare suoni e voci di un passato a lungo sedimentato dentro di sé sotto forma di ricordi che fuoriescono lentamente dalla penna con leggerezza ed eleganza, ma con decisione e sostanza a conferma che lo scorrere del tempo non li ha minimamente scalfiti bensì fatti levitare.

Nel suo incedere narrativo la Varriale sussurra le parole, centellinandole come gocce di una medicina in grado di curare le ferite dell’anima, senza omettere nulla, neanche momenti imbarazzanti quali la decisione del padre, una volta rimasto vedovo, di rifarsi una vita senza dire nulla ai figli e, quando decide di andare a vivere con la nuova compagna anche lei vedova, non avendo il coraggio di comunicare la notizia ai propri cari, sparisce lasciando che a farlo siano i figli di lei, scatenando un putiferio. Un modo in apparenza vigliacco, ma che testimonia l’amore e il rispetto che Raffaele, così si chiamava il padre di Annamaria, nutriva verso i propri figli tanto da sentirsi in colpa per una decisione umanamente comprensibile, seppure difficile da accettare per una famiglia unita qual era la sua dove la figura di Carolina, la madre di Annamaria, si era sempre rivelata fondamentale non solo per il marito e i figli, ma prima di tutto per i propri fratelli e sorelle, portando alcuni di loro a vivere con sé sotto lo stesso tetto.

Tratteggiando luoghi e personaggio della propria infanzia, la scrittrice lo fa con chiarezza di particolari e padronanza di linguaggio che è impossibile al lettore, soprattutto se a sua volta è cresciuto e ha vissuto in quei posti, di non “vedere” quanto sta leggendo a conferma della potenza descrittiva dell’autrice: il Bar De Bono in Via Giulio Cesare, Sisina la fruttivendola, la Pizzeria Cafasso, la Mostra d’Oltremare, il Banco di Napoli a Fuorigrotta, la Torretta a Mergellina sono siti, locali e personaggi che chiunque abbia vissuto a cavallo degli anni cinquanta/settanta tra Fuorigrotta e la Riviera di Chiaia ben conosce e riconosce nei fotogrammi narrativi della Varriale.

L’intento della scrittrice è raccontare la storia della propria famiglia nell’arco di cinquant’anni, dalla fine della prima guerra mondiale al sessantotto; dove l’avvento della televisione e degli elettrodomestici sono segni emblematici di un indiscutibile cambiamento economico e sociale. Tuttavia la sensazione è che, attraverso il dipanarsi del filo della memoria, lei voglia dimostrare come l’unità familiare sia un valore imprescindibile e assoluto per essere felici. Per cui quel ERAVAMO TANTO RICCHI che dà il titolo al libro non si riferisce soltanto alla agiatezza economica, che per inciso alla sua famiglia non è mai mancata grazie alla ben avviata attività di barbiere del padre, bensì a quella umana, ormai quasi del tutto persa proprio in virtù dell’avvento tecnologico e del consumismo che hanno trasformato gli uomini da soggetti sociali in oggetti di consumo.

Il libro della Varriale può essere considerato un monito a ritrovare l’unità familiare, oggi sempre più in disfacimento perfino a tavola un tempo luogo deputato al rinsaldarsi della famiglia, essendo quella l’unica vera ricchezza degli uomini; a far sì che l’indicativo imperfetto del titolo, “eravamo”, quanto prima venga coniugato al presente con “siamo”, perché solo l’unità familiare è in grado di rendere felici.

In ERAVAMO TANTO RICCHI Annamaria Varriale si rivela narratrice doc, limitandosi a raccontare le vicende della propria famiglia e di se stessa senza porsi alcun problema stilistico; rivolgendosi al lettore come se parlasse a un amico che conosce da sempre. Ed è forse per questo motivo che, leggendolo, non ci si può esimere dal riflettere su ogni singolo episodio rapportandolo a se stessi, chiedendosi oggi che fine abbia fatto quella ricchezza un tempo denominata famiglia che si reggeva sulle cose semplici ma sincere, rendendo felice perfino chi aveva poco o niente!

Vincenzo Giarritiello

CORO GOSPEL DI POZZUOLI: INTERVISTA AL MAESTRO ENRICA DI MARTINO

Di seguito l’intervista integrale al Maestro Enrica Di Martino pubblicata su comunicaresenzafrontiere.it

 

Diplomata in canto al conservatorio di San Pietro a Majella di Napoli, Enrica Di Martino  vanta un’esperienza in campo nazionale ed europea; ha ricevuto diversi riconoscimenti come il secondo posto Concorso G. B. Pergolesi, il primo posto al “Concorso AMA Campi Flegrei”, Borsa di Studio Silvia Geszty a Neustad in Germania, terzo posto nel “Concorso Internazionale Caruso De Lucia”. Come formatrice ed insegnante di canto opera in scuole e teatri campani da oltre venti anni.

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Maestro quando nasce il coro gospel?

Il Coro Città di Pozzuoli ha solo tre anni di vita, ma in questi tre anni abbiamo davvero fatto passi da gigante. Era un desidero formare un coro di voci puteolane, eccoci qua. Ci tengo a precisare che il coro di Pozzuoli è preceduto dal Coro Gospel Eyael nato nel 1998 a Napoli. Io non sono puteolana, sono stata adottata da questa splendida città. Quando avevo la scuola a Napoli, nacque il coro Eyael che prende il nome dal mio angelo custode. Lo scopo di quel coro possiamo definirlo di tipo divulgativo affinché la gente prendesse conoscenza del gospel.

Come l’è venuta l’idea di creare un coro gospel a Pozzuoli?

Il gospel ha una forza trainante incredibile per cui ce ne siamo serviti per coinvolgere nel progetto anche chi non avesse il coraggio di cantare a causa dell’età avanzata: il coro è formato da elementi che vanno dai 30 agli 80 anni. Purtroppo al momento registriamo una scarsa partecipazione maschile, ma spero che quanto prima questo gap venga colmato con l’adesione al progetto da parte  di un numero crescente di uomini. Approfitto dell’opportunità che mi sta concedendo per invitare tutti coloro che hanno nell’animo il sogno di cantare di avvicinarsi al coro senza remore. Li aspettiamo!

Le audizione come sono articolate?

Avvengono in maniera costante ogni anno, solitamente tra ottobre e novembre, e il coro viene incrementato. Subito dopo incomincia un percorso di studio con sezioni lavorative diverse per portare lentamente tutti i componenti allo stesso livello.

Al momento di quanti elementi è composto il coro?

Circa cinquanta, ma il nostro obiettivo è arrivare a cento voci, formando il famoso gran coro che per gli americani è alla base e viene utilizzato come preghiera nella platea visto che loro non hanno il concetto di rispondere alla  messa ma di vivere la preghiera attraverso il canto. Il nostro obiettivo è appunto quello di rispettare tali principi, realizzando il gran coro di Pozzuoli.

Tra i tanti suoi attestati risalta la qualifica CFP e EVT metodo per l’insegnamento del canto moderno e l’impostazione vocale per gli attori: quando fa un’audizione e si trova al cospetto di chi non avrebbe le qualità par far parte del coro, lei come reagisce?

Partiamo da un presupposto, il canto è un diritto, come un diritto è parlare: se tutti hanno la voce per parlare ce l’hanno anche per cantare. Lo stonato non esiste,  chi lo è va corretto. Diverso è il discorso della musicalità che riguarda il solista il quale ha bisogno di qualità musicali più competenti rispetto al  corista. Il coro è una grande energia in grado di far sì che chi ha difficoltà nella musicalità guarisce e corregge, diventando tra i migliori elementi.

Dunque il coro come terapia…

Assolutamente sì!

Leggendo il vostro curriculum ho visto che come coro avete partecipato a diversi eventi, togliendovi delle belle soddisfazioni. A Pozzuoli, oltre alla chiesa di San Giuseppe, vi siete esibiti in altre chiese?

In tante chiese, perfino nel duomo durante il periodo Natalizio. Ma un altro nostro obiettivo è quello di non far vivere il gospel solo a Natale, ma nell’arco di tutto l’anno. Per quanto riguarda la chiesa di San Giuseppe, penso di non sbagliare affermando che possiamo ormai considerarla la nostra sede dove verranno organizzate delle rassegne ufficiali non solo di gospel, ma di musica colta, riferendomi a musica di un certo livello tipo quella classica, il jazz e il gospel appunto.

Come risponde il pubblico ai vostri concerti?

Dallo scorso dicembre, in maniera assolutamente entusiasmante! Nel duomo abbiamo avuto una tale affluenza di pubblico che dovette intervenire la forza pubblica perché si creassero le condizioni necessarie per dare inizio al concerto. Tra Napoli e Pozzuoli abbiamo festeggiato l’International Gospel Days dove ci siamo confrontati con altri cori gospel di livello internazionale provenienti da Parigi e da Ginevra, registrando nella chiesa di San Giovanni Maggiore la presenza di 1500 persone. Abbiamo concluso la rassegna a Monterusciello nella chiesa di Sant’Artema gremita di gente. Se questa non è una vittoria del gospel, come possiamo definirla?…

Il coro prevede anche il coinvolgimento dei ragazzi?

Soprattutto dei ragazzi! Ovviamente con uno studio mirato agli esami in conservatorio. A questo punto la domanda è: chi forma i ragazzi? Risposta, gli adulti! Di conseguenza ci siamo rivolti agli adulti in modo che la sensibilità e l’obiettivo nascesse da loro.  Così facendo i ragazzi rispondono in maniera ancora più entusiasmante in quanto si sentono sostenuti e guidati. Questo è molto importante.

Il suo approccio con gli studenti com’è?

Lo definirei molto profondo, forse troppo affettuoso. E questo è un rimprovero che mi faccio, ma vivo in maniera passionale tutto ciò. Però ci tengo a precisare che l’affetto non mi fa perdere la razionalità nel giudizio: più gli voglio bene, più voglio il loro bene  e quindi divento esigente!

Maestro presumo che le sia capito che qualcuno che lei avrebbe voluto entrasse nel coro si rifiutasse, in quel caso come reagisce?

Quando parliamo di musica le difficoltà di approccio sono di origine psicologica, ci sono delle resistenze. Personalmente sono molto attratta da chi si dimostra restio perché penso che abbia bisogno ancora di più della musica. A quel punto la mia insistenza è labile, ma costante come l’acqua che lentamente, goccia dopo goccia, nel tempo penetra perfino la roccia più dura. Ovviamente se mi rendo conto che davanti ho una montagna invalicabile, alla lunga lascio perdere. Non mi piace né costringere né forzare.

Progetti per il futuro?

Fare tanta musica a Pozzuoli organizzando rassegne mirate non solo a diffondere i nomi del coro  e della Campi Flegrei Academy, di cui vado orgogliosa, ma per dare un contributo fattivo alla città facendo dei concerti per aiutare a restaurare i monumenti della chiesa di San Giuseppe, per aiutare Africa in Testa e perché tutta la cittadinanza ne tragga benefici. Mi piace fare musica per il sociale, lo considero un motivo in più di sprone in questa splendida avventura!

FERDINANDO PISACANE IN MOSTRA DA “ART GARAGE” CON DIVERTISSEMENT – IL FOTOGRAFO E LA MODELLA

Di seguito l’intervista integrale al pittore Ferdinando Pisacane pubblicata su comunicaresenzafrontiere.it

Pozzuoli: Sabato 2 giugno, per la rassegna ARTinGARAGE, curata da Gianni Biccari, all’Art Garage di Pozzuoli – Parco Bognar 21, adiacente alla stazione Metropolitana FS – si è inaugurata la mostra “DIVERTISSEMENT–IL FOTOGRAFO E LA MODELLA” del pittore Ferdinando Pisacane.

 

L’esposizione durerà fino al 16 giugno e sarà visitabile dal lunedì al venerdì, dalle 10 alle 22; il sabato dalle 10 alle 20domenica chiusaIngresso libero.

Per l’occasione abbiamo intervistato l’artista.

Ferdinando, malgrado tu sia pittore, chiudi questa rassegna fotografica esponendo dei disegni in cui la figura femminile è oppressa come un’ombra dalla sagoma del fotografo. Leggendo la brochure di presentazione, l’idea nasce dal film “Blow Up” di Michelangelo Antonioni, dove, se non ho capito male, la donna è l’oggetto attraverso cui il fotografo afferma il proprio egocentrismo, donandole nello stesso tempo centralità… Ci spieghi meglio questo concetto?

La decisione di partecipare a questa rassegna nasce dal gradito invito di Gianni Biccari di inserirmi in cartellone con un tema distinto che la chiudesse. L’idea da cui traggono origine le opere esposte era considerare il rapporto tra fotografo e modella, prendendo per l’appunto spunto dal film di Antonioni del 1966 dove il fotografo si serve della modella per tirare fuori il proprio egocentrismo: scaricare attraverso di lei il proprio bisogno di appagare, intuire, scoprire, penetrare il senso di essere fotografo. Ovviamente a mia volta dovevo pormi il problema di cosa fossero per me il fotografo e la modella: il fotografo lo sentivo come un’ombra opprimente, per cui l’ho rappresentato con una sagoma nera, un’ombra appunto. Mentre la modella non poteva essere che leggera, leggiadra. Da qui l’idea di ritrarla solo con la matita per conferirle un aspetto molto delicato, prendendo spunto dall’attrice Sarah Miles che interpretò la protagonista del film.

Tra le opere esposte un disegno mi ha particolarmente colpito: in alto è ritratta la donna adagiata di fianco su una nuvola con le ali chiuse sulla schiena come se fosse un angelo; sotto di lei una serie di macchine fotografiche sospese nell’etere, dalla vaga forma fallica…

Ciò che può sembrare fallico è l’obiettivo che inevitabilmente si unisce al volto del fotografo facendo sì che la testa e l’obiettivo diventino un’unica cosa. La modella non è per niente intesa come oggetto, ma la sua leggerezza, caratterizzata dalla matita e le ali testimoniano il suo abbandonarsi volutamente al fotografo anziché esserne succube.

Invertendo i ruoli, non pensi che questa tua denuncia potrebbe farla un fotografo a un pittore?

Confesso che ho riflettuto molto su quest’aspetto: io non sono il terzo incomodo, ma uno che ha voluto immaginare il fotografo e la modella da pittore. Non mi interessa sapere come un fotografo potrebbe immaginare il rapporto tra un pittore e la modella. Per quanto mi riguarda, mi sono divertito a fantasticare come rendere artistico il tema. La mostra si intitola divertissement in quanto, man mano che pensavo, disegnavo, dando sempre più forma all’idea, utilizzando fogli 140×110 perché sentivo la necessità di muovermi in uno spazio ampio, divertendomi molto!

Ci racconti il tuo percorso artistico?

La fotografia l’ho sempre utilizzata come strumento per la pittura, nel senso che spesso ho preso spunto per un’idea da una fotografia, immortalando con lo scatto un soggetto o un particolare che mi interessava per poi riproporlo su tela. A cavallo tra gli anni 70/80 ho seguito fotografi di professione come ad esempio Mimmo Iodice. Ma poi ho fatto la mia scelta artistica, puntando sulla pittura. Per il mio modo d’essere ho bisogno di tenere le mani in pasta, di cercare di avvicinare quanto più è possibile il segno con il pensiero. Credo di essere stato sempre un pittore, seppure la pittura mi è molto servita per debellare forme di paura, di limiti. Una sorta di terapia.

Napoli è una città un po’ strana, molti artisti la amano e odiano contemporaneamente: il tuo rapporto d’artista con la città qual è?

Napoli è bella, produce delle splendide cose, ma difficilmente aiuta l’artista napoletano. Poi ci sono degli artisti un po’ più fortunati o ci sono dei momenti dove si dà più sostegno all’arte. Ma si potrebbe fare molto di più per coloro che per anni hanno operato nell’anonimato all’ombra del Vesuvio. Credo che ci sia davvero da lavorare e ho la sensazione, ma spero di sbagliarmi, che la città non sia culturalmente preparata a sostenere la crescita artistica!

A cosa attribuiresti quest’eventuale pecca?

La percezione è che si faccia cultura con la c minuscola. Le realtà artistiche, soprattutto quelle emergenti, vanno sostenute. Io conosco dei giovani artisti di una bravura e intelligenza straordinarie, ma molti di loro sono costretti a espatriare per trovare la propria realizzazione, non conseguendo a Napoli il giusto sostegno o valorizzazione. E ciò non depone certo a favore della città!

Progetti futuri?

Ho in cantiere alcuni temi importanti che si svilupperanno a settembre al PAN sulla figura dell’uomo: la mostra si intitolerà man dove lavorerò molto sul rapporto uomo/universo.

Se dovessi dare un suggerimento ai giovani artisti, che diresti loro?

Prima di tutto bisogna ben capire la scelta che si fa e bisogna lavorare con molto coraggio e serietà. Non bisogna minimamente lasciarsi vincere dallo sconforto, mai arrendersi!

Questa mostra già l’hai presentata in altre sedi?

No, è nata nel giro di un mese e mezzo, dopo che con Gianni ci eravamo sentiti, concordando che avrei fatto qualcosa per la rassegna che stava curando: mi sono chiuso nello studio è ho iniziato a disegnare. A riguardo ho seguito con attenzione tutti gli eventi cui hanno partecipato tanti bravissimi fotografi. Inoltre mi lega un rapporto di amicizia con Luca Sorbo che mi presenterà questa sera. Approfitto dell’attenzione che mi stai concedendo per ringraziare la professoressa Clementina Gily, docente di estetica, anche lei presente questa sera, la quale, per il suo ruolo, si è molto interessata alla mia attività artistica, e il mio amico poeta/scrittore Massimo Luongo.

Possiamo dunque affermare che Ferdinando Pisacane onora Pozzuoli con un’anteprima assoluta.

Assolutamente sì, e ne sono particolarmente onorato: questa è una terra che amo e per un periodo della mia vita ci ho anche vissuto, serbando dei ricordi splendidi!

 

 

Vincenzo Giarritiello

POZZUOLI: PRESENTATO “LA COLLINA D’ORO”, NUOVO ROMANZO DI MARCO CICONTE

 

Di seguito la versione integrale del mio intervento pubblicato su comunicaresenzafrontiere.it

 

Giovedì 30 maggio presso il Polo Culturale Palazzo Toledo di Pozzuoli si è presentato il romanzo LA COLLINA D’ORO dello scrittore calabrese Marco Ciconte, APOREMA EDIZIONI.

All’evento,moderato dal giornalista Gennaro Carnevale, oltre all’autore, hanno partecipato Maria Teresa Moccia di Fraia, Assessore alla Cultura del Comune di Pozzuoli, e lo scrittore Vincenzo Giarritiello. Letture di Angela Cicala.

Di seguito proponiamo in versione integrale l’intervento di Enzo Giarritiello.

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Ci sono libri che vorresti non finissero mai. Quello che presentiamo questa sera, per quanto mi riguarda, rientra sicuramente tra questi.

La Collina D’Oro, di Marco Ciconte, è un affresco dell’Italia dall’inizio del ventennio fino alla crisi finanziaria del 2008. Ambientato a Chiteria, paese immaginario, ma verosimile, racconta le vicende della famiglia Belcastro, partendo da Ntoni e Rosa, la cui fuga d’amore dà inizio al romanzo, fino a Peppino, il loro ultimogenito, e Teresa sua moglie, per finire ai loro figli. Ma il vero protagonista del­la storia, è la terra da cui i contadini traggono il sostentamento con il sudore e il sangue.

La storia della famiglia Belcastro, seppure completamente opera di fantasia, è credibile in quanto, i tanti episodi narrati appartengono alla vita quotidiana non solo di chi vive la realtà contadina, ma di tutti noi: dalle problematiche familiari a quelle lavorative, da quelle economiche a quelle sentimentali, dal rapporto con i figli a quello con i nipoti.

Con una scrittura alta, che non ha mai una caduta di stile, nelle oltre 300 pagine che compongono il volume l’autore intesse una trama dall’architettura solida e ben strutturata, la quale nemmeno per un istante, malgrado l’excursus temporale del romanzo ricopra circa un secolo di storia, obbliga il lettore a fermarsi per ritornare indietro perché non gli è chiaro qualcosa o ha perso il filo del discorso. Come un fiume che scorre tranquillamente nell’alveo, il flusso narrativo prosegue placidamente senza sbalzi di tono né cadute di stile, a conferma della cura con cui il romanzo è stato scritto e rivisto.

Appartenente al genere romanzo storico, La Collina d’Oro ci riporta alla mente Verga, Pirandello, Il Gattopardo di Tomasi Lampedusa, ma soprattutto Fontamara di Silone: Romanzi in cui si parla delle lotte contadine nell’Italia pre e post unitaria e repubblicana; e degli eccidi con cui le autorità spesso ponevano fine alle ribellioni, trovando in quel modo il pretesto per liberarsi di personaggi scomodi o vendicarsi di qualche torto subito.

Entrando nello specifico della struttura del romanzo, prima di tutto ci tengo a ribadire lo stile alto con cui è scritto: dall’inizio alla fine la voce narrante ci accompagna con un garbato sussurro, pagina dopo pagina, descrivendoci i fatti come se fossimo raccolti davanti a un fuoco ad ascoltarla. In questo caso al calore della fiamma si contrappone l’enfasi della narrazione svelandoci la matassa della trama intessuta di un realismo di pregevole fattura. Una fitta e intensa matassa di parole che rapisce, oserei dire ipnotizza, obbligando il lettore a proseguire nella lettura per conoscere il seguito della storia.

Seppure stiamo parlando di un romanzo, dunque di un’opera in prosa, mentre leggiamo, percepiamo una sensazione di musicalità. È questo uno dei principali meriti che, da praticante della scrittura, riconosco a Ciconte: la sua è una scrittura musicale e lirica. È come se l’autore, scrivendo, avesse colto il pretesto per dare vita a uno spartito musicale, anziché a un libro, da suonarsi nella mente del letto­re. Questo aspetto si apprezza ancor di più leggendo ad alta voce!

La musicalità la riscontriamo non solo nel flusso narrativo, ma anche nei dialoghi, tra gli ostacoli più difficili per uno scrittore. Al pari della trama, le conversazioni tra i personaggi hanno il pregio di essere composte in modo diretto, altalenando le voci degli interlocutori senza frapposizioni indicative del tipo, “disse bevendo”, oppure “lavandosi le mani”, o “levando lo sguardo” e altro ancora.

Lo scambio di battute ricorda il ping pong e non confonde mai il lettore in quanto è preceduto a monte da un’accurata preparazione “scenica” da parte dell’autore per indirizzarla nella giusta direzione senza mai perdere la linearità della narrazione. In tal senso, quando lessi il libro, questo aspetto mi fece sorgere il sospetto che Ciconte scrivesse anche per il teatro, come poi egli stesso mi confermò.

Altro aspetto che merita d’essere elogiato è la rigorosità con cui sono descritti sia gli ambienti contadini e metropolitani, sia l’epoca storica in cui la vicenda si dipana. In questo caso la penna di Cicon­te si trasforma in pennello e le lettere in colori, disegnando scene e luoghi in maniera così dettagliata che, mentre leggiamo, abbiamo la sensazione di vedere davvero quegli ambienti e quei paesaggi proposti sulla carta come se fossero un quadro su tela.

Passando alla caratterizzazione dei personaggi, trattandosi di una saga familiare che richiama alla mente anche UN CAPPELLO PIENO DI CILIEGE della Fallaci, bisogna dar merito a Ciconte di aver descritto in maniera praticamente precisa ogni singolo protagonista, sia in chiave psicologica che fisica. Grazie a questa indiscutibile capacità icastica dell’autore, Ntoni, Rosa, Luigi, Salvatore, Maria, Peppi­no e tutti gli altri protagonisti diventano visibili e credibili tanto che non possiamo fare a meno di chiederci se ci troviamo al cospetto di personaggi di fantasia o realmente esistiti.

Seppure la storia tratta vicende legate alla questione meridionale dall’inizio del ventennio fino a oggi, cogliendone infinite sfaccettature, a partire dal caporalato, tuttora in essere in molte regioni del meridione, essa ci descrive con esattezza di date e luoghi quella che fu la storia del nostro tempo, spaziando dalla marcia su Roma alla guerra civile in Spagna, dal bando delle leggi razziali alla seconda guerra mondiale, dal referendum tra monarchia e repubblica alla riforma contadina, dall’immigrazione in Germania per motivi di lavoro di migliaia di meridionali a tangentopoli. Testimoniando come per molti uomini del sud gli eventi bellici e poi emigrare all’estero per trovare lavoro furono una sorta di estrema possibilità di fuga da una realtà triste che concedeva poche chance di riscatto sociale; o come la politica da sempre abbia strumentalizzato il voto con offerte cui i poveri disgraziati non potevano rifiutare, restando alla fine delusi perché spesso disattese.

È il caso del referendum tra monarchia e repubblica dove i sostenitori di quest’ultima, per convincere i contadini a votare per la repubblica, promisero in cambio la repentina realizzazione e attuazione della riforma agraria che invece ci fu solo molti anni dopo.

Un altro punto che mi piace segnalare del libro è l’ampio spazio che l’autore dà alle figure femminili: Rosa, Maria la Cordara, Teresa, Maria Concetta, per citare le principali, con i loro caratteri forti e decisi possono essere definite a pieno titolo antesignane del femminismo. Donne che sostengono le scelte dei mariti, anche se andassero contro gli interessi familiari, in quanto consapevoli che gli uomini vanno sostenuti per potersi sentire tali; oppure colte e impegnate nel sociale, Teresa, inducendo chi le vuole conquistare, Salvatore, a interessarsi di politica, fa niente che non ne capisce nulla, pur di stargli vicine.

Tutto quello che ho fin qui descritto non è altro che il denso scenario che circonda la vera protagonista, Molina: terra ostica che Peppino decide di coltivare comunque, malgrado sia da sempre abbandonata per via della sua durezza e sterilità, perché da ragazzo vi fu chi gli predisse che un giorno avrebbe trovato la collina d’oro, metafora con cui possiamo identificare la realizzazione i nostri sogni. Quei sogni per i quali saremmo pronti a dare in cambio perfino la nostra vita pur di vederli materializzarsi, a costo di rimetterci i soldi e la faccia. Così come fa Peppino, anche se poi la dura realtà gli imporrà di compiere scelte diverse che non sto qui a elencarvi per privarvi del piacere della lettura.

Concludo affermando che, dal mio punto di vista, il romanzo di Ciconte andrebbe suggerito come libro di testo nelle scuole perché nelle sue pagine riscopriamo la storia non solo di una famiglia, ma di una nazione intera. In particolare di un popolo, quello meridionale, dall’avvento del fascismo a oggi!

La collina d’ora è l’epopea di gente di disperata che cullava un sogno comune: riuscire un giorno a liberarsi dal fardello della povertà, risalendo uno alla volta i gradini della scala sociale, arrivando all’apice per riscattare se stessi e il passato delle proprie famiglie.

Per scoprire se tutto ciò si realizzerà, non resta che leggere il libro di Marco Ciconte.

Vi assicuro che non ve ne pentirete!

 

LUX IN FABULA: IL RECUPERO DEL PATRIMONIO NATURALISTICO E ARCHEOLOGICO DELLA CONCA DI AGNANO

Prima o poi l’impegno e la pazienza ripagano, portando i frutti sperati.

È così che, dopo più di due anni dalla prima proposta datata febbraio 2017, giovedì 30 maggio, presso il plesso scolastico alberghiero G. Rossini sito ad Agnano, l’Associazione Lux In Fabula, presieduta da Claudio Correale, con la collaborazione del Comitato Civico Pendio Agnano, presenterà un progetto per il recupero dei siti archeologici e del patrimonio naturalistico dell’intera Conca di Agnano, coinvolgendo gli alunni dei tre istituti superiori della zona – Rossini, Boccioni, Labriola.

La conferenza, prevista per le 15,30, a cui sono stati invitati i Presidi degli altri due istituti coinvolti nel progetto, sarà aperta da Claudio Correale che spiegherà cosa è Lux In Fabula e quali attività svolge sul territorio. Quindi la parola passerà alla professoressa Anna Di Corcia per descrivere il patrimonio artistico e archeologico tuttora esistente nella Conca di Agnano, del tutto ignoto ai più. La serata verrà conclusa da Aldo Cherillo del Comitato Civico, il quale racconterà in maniera dettagliata la storia del Lago di Agnano e dell’economia che sorgeva e si sviluppava sulle sue sponde fino a quando non fu bonificato dopo l’unità di Italia.

L’intento del progetto è far scoprire a quanti non conoscono questa realtà storica e naturalistica, obliata da oltre un secolo, quanto importante fosse la Conca di Agnano e quanti e quali siti archeologici di importanza straordinaria, oggi del tutto abbandonati alle sterpaglie e al degrado, vi sorgevano e tuttora vi sorgono nell’assoluto anonimato senza che le istituzione facciano nulla per ridare loro un pizzico di dignità. Senza tralasciare le oramai disastrate Terme di Agnano, il cui glorioso passato oggi è solo un pallido ricordo.

Il progetto prevede il coinvolgimento delle scuole e dei cittadini affinché ragazzi e adulti acquisiscano consapevolezza del valore del proprio territorio; adoperandosi in maniera sinergica, costruttiva e responsabile per recuperarlo e preservarlo al fine di rilanciare a livello civico e turistico l’intera area della Conca di Agnano.

FIORELLA FRANCHINI CI RACCONTA IL SUO ROMANZO “IL VELO DI ISIDE”

 

Di seguito l’intervista integrale pubblicata su comunicaresenzafrontiere.it

Fiorella il tuo romanzo, Il Velo Di Iside, è un romanzo storico con venature misteriosofiche, oserei dire esoteriche, visto il tema trattato. Ti piace questa definizione, o preferisci dargliene una diversa?

Preferisco considerarlo soprattutto un romanzo storico. Le venature esoteriche derivano dal fatto che il culto di Iside si è prestato nel tempo a queste interpretazioni in quanto sia il tempio che il culto di Iside sono stati utilizzati dalle società esoteriche e massoniche. Ma si tratta essenzialmente di un romanzo storico che possiede tre piani di lettura: sentimentale, thriller e storico.

In termini e tempi di fatica, quanto ti è costata la ricerca storica?

Un anno di letture e studi tra saggi, articoli e romanzi per cercare di inquadrare bene il periodo storico per evitare di dire sciocchezze. Quando si scrive un romanzo storico, lo scrittore fa un patto con il lettore assumendosi la responsabilità di narrare storie verosimili in assoluta attinenza con l’epoca in cui si dipana la trama. Bisogna dunque inquadrare bene l’epoca per evitare gli strafalcioni. Seppure il lettore sa benissimo che si appresta a leggere una storia di fantasia, il contorno deve essere assolutamente realistico affinché si senta coinvolto mentre legge.

Pur essendo i protagonisti del romanzo frutto della tua fantasia, Livilla Claudia, la sacerdotessa, ha un riferimento storico reale in cui potremmo identificarla?

No. Tutti personaggi sono assolutamente inventati, non avendo attualmente riscontri storici legati alla presenza del culto di Iside a Napoli. Lo stesso tempio di Iside a Neapolis non è stato ancora ritrovato. Tuttavia abbiamo delle indicazioni da Bartolomeo Capasso che lo poneva nel centro storico di Napoli dove oggi è allocata la statua del fiume Nilo. Addirittura si suppone che la stessa Cappella San Severo facesse originariamente parte del nucleo urbano in cui sorgeva il tempio di Iside, essendo tutta quella zona anticamente abitata da una nutrita comunità egiziana. Seppure tuttora del tempio non si hanno tracce, considerando anche la toponomastica di quella zona in cui molte vie e vicoli hanno nomi che richiamano all’Egitto, è probabile che davvero il tempio fosse edificato in quell’area e fosse sontuoso come l’ho immaginato. Non si può escludere che, avendo Napoli subito nel corso dei secoli continue invasioni di popoli diversi, ognuno dei quali riadattava l’aspetto urbanistico e architettonico della città in rapporto alle proprie usanze e esigenze, scavando in profondità nel sottosuolo, prima o poi, non venga alla luce il tempio reale. Nello stesso tempo ho cercato di dare vita a una figura di sacerdotessa un po’ romanizzata in quanto l’avvento dei romani a Napoli influenzò tutto ciò che l’aveva preceduto. Lo vediamo con la statuaria: l’Iside egiziana è diversa dall’Iside romana, come possiamo constatare visitando la mostra del sacro alla Pietrasanta dove è esposta una statua di Iside di matrice romana, non a caso denominata Iside Romana.

Tu sai che anche a Cuma sono stati rinvenuti resti di un tempio di Iside…

A Cuma hanno trovato qualcosa, ma nulla esclude che anche a Pozzuoli non ci fosse un iseo. Non dimentichiamo che il bradisismo ha sommerso tanti tratti della costa per cui non possiamo escludere che i resti del tempio non siano sommersi. Il culto di Iside era molto diffuso sia nei porti che in tutta la Campania. Essendo stata Pozzuoli il primo porto commerciale dell’Impero Romano, fino a quando non fu costruito quello di Ostia, è improbabile che nel capoluogo flegreo non vi fosse un iseo.

Iside è una delle tante iconografie con cui viene rappresentata la Grande Madre…

Sì, in lei convergono tutte le attribuzioni che anticamente caratterizzavano il sacro femminile. Partendo appunto da Iside, passando per Ishtar, Artemide, Giunone fino poi a trasformarsi in quella che oggi noi riconosciamo come la Madonna. Iside raggruppa in sé tutte le caratteristiche del femminile divino, travalicando le singole religioni: la fedeltà, la maternità, l’amore.

Potrebbe ritenersi una scelta di genere il motivo per cui tu abbia narrato le vicende di una sacerdotessa di Iside?

Non credo. Quando in passato ho scritto romanzi di avventura, in molti mi attribuivano una scrittura di stampo maschile. Ovviamente, narrando il romanzo una storia d’amore, quest’aspetto particolare l’ho visto dal punto di vista femminile. Nello stesso tempo al protagonista, il navarco Valerio Pollio, uno dei tre comandanti della flotta romana di stanza a Miseno, ho attribuito la passione per la poesia, cosa insolita per un soldato. Ma da donna mi piaceva l’idea di dargli una venatura romantica.

Oltre a Il Velo Di Iside, quale altro romanzo hai pubblicato?

Korallion. Anche quello è ambientato tra Partenope e i Campi Ardenti, essendo innamorata di entrambi i luoghi. Lì ho cercato di rappresentare i popoli italici che hanno preceduto i romani, dai sanniti agli etruschi che vennero in queste terre alla conquista di Cuma. Per quanto riguarda i Campi Ardenti, ossia i Campi Flegrei, era un luogo dove, lo dico sempre, c’era già la leggenda prima che iniziasse la storia! Non a caso i greci avevano situato nei Campi Ardenti l’ingresso all’Ade; Ercole vi aveva imprigionato i giganti; lì c’era la Sibilla. Era un luogo già conosciuto prima ancora che la storia cominciasse. Era un sito mitico come pochi che mi dà sempre intense suggestioni. Anche in quel caso ho immaginato la storia d’amore tra un re etrusco e una fanciulla greca cui si intreccia la scomparsa del corpo della sirena Partenope deposto sull’isolotto di Megaride. La ricerca che ne segue sviluppa la storia in tutta la Campania. Anche in questo caso ho dovuto fare una grossa ricerca storica e poi ho fatto leggere quanto avevo scritto a un archeologo per evitare di dire inesattezze.

Come e quando nasce Fiorella Franchini scrittrice?

Nasce a dieci anni quando vinsi il mio primo premio di poesia. Da allora non ho mai smesso di scrivere. All’età di vent’anni ho iniziato la mia carriera da giornalista e solo nell’89 ho iniziato a scrivere romanzi. Essendo una salgariana, le miei prime storie erano avventure ambientate in Africa, nella ex Iugoslavia, in Vietnam. Poi ho deciso di parlare della mia terra, ma in maniera diversa, uscendo fuori dagli stereotipi positivi e negativi, trattandone la storia antica.

Hai intenzione di scrivere qualcosa su Pompei?

Ci sto pensando.

I tuoi progetti per il futuro come scrittrice?

Prima di tutto ho intenzione di continuare a collaborare come giornalista per Il Denaro occupandomi di cronaca culturale, recensendo libri e parlando di eventi e mostre.

Oltre a scrivere, sei donna e madre.

Anche lavoratrice, sono funzionario alla Corte di Appello di Napoli.

Come riesci a gestire questa tua triplice funzione?

Non lo so, l’importante è esserci riuscita senza mai rubare né tempo né spazio alla famiglia. Finora con la scrittura ho ottenuto delle belle soddisfazioni, pur non essendo uno scrittore di bestseller. Ma mai disperare!

 

INTERVISTA AD ANDREA AULETTA, AUTORE DEL ROMANZO “AMORE CANE”

Di seguito l’intervista integrale pubblicata su comunicaresenzafrontiere.it

Pozzuoli. Sabato 25 maggio da ‘A Puteca ‘E ll’Arte di Vania Fereshetian, si è presentato il romanzo AMORE CANE di Andrea Auletta, 44 anni, architetto. Abbiamo colto l’occasione per intervistare l’autore.

Andrea il tuo romanzo, Amore Cane, racconta l’amore tra l’uomo e la natura.

Sì, è un amore con la natura vissuto attraverso il rapporto tra il protagonista e il cane che lo aiuta a riscoprire l’autenticità delle cose, il piacere di uno stile di vita più calmo, più umano!

È un amore cercato, nel senso che lui il cane lo vuole, o nasce all’improvviso, per caso?

All’improvviso. Mentre sta lavorando, viene colto da un attacco di panico; scappa dall’ufficio, sale in macchina e, camminando, si ritrova in campagna. A questo punto scende dall’auto e si calma. Passeggiando nel verde, si imbatte in un casolare dove al cancello d’ingresso è legato un cane che, non appena lo vede, inizia ad abbaiare. Mentre si avvicina, nota che l’animale ha le mammelle sporgenti per cui capisce che si tratta di una cagna che ha da poco partorito. Nel frattempo compare Nicola, il proprietario del cane, personaggio chiave, con cui il protagonista fa amicizia. In quel contesto decide di adottare un cucciolo della cagna e da lì nasce poi la storia.

Dunque il romanzo sarebbe una metafora attraverso cui tu lanci il messaggio che per ritrovare se stesso l’uomo deve ricoprire l’amore per la natura…

Non solo per la natura, ma prima di tutto riscoprire l’amore per se stesso e per la sincerità. Con il titolo, Amore Cane, ho voluto indicare che solo riscoprendo la sincerità dei gesti naturali potremmo vivere meglio. Come ogni animale, un cane quando ringhia, abbaia, quando morde, scodinzola o ti fa le feste è sempre sincero, a differenza di tante persone che si vestono di ipocrisia. Ritorniamo a essere un po’ più sinceri con noi stessi e con gli altri. Liberiamo il nostro istinto!

Dunque, paradossalmente, attraverso il tuo romanzo, ci inviti a ritornare a essere un po’ più istintivi, ovvero animali, anziché razionali. Fai tuo il messaggio di Rousseau, De Foe e altri filosofi e scrittori vissuti a cavallo tra il diciottesimo e diciannovesimo secolo per i quali l’uomo, per essere felice, doveva ritornare a vivere allo stato primitivo in sintonia con la natura.

Perfetto, riscopriamo la nostra innocenza! Torniamo ad avere il coraggio di essere noi stessi senza reprimere gli slanci emotivi come se fossero qualcosa di cui vergognarci. Perché avere pudore dei nostri sentimenti, delle nostre emozioni, di quel che siamo davvero?

Questo è il tuo primo romanzo?

È il primo che ho pubblicato, seppure nel famoso cassetto ne ho diversi terminati. E poi ho pubblicato una raccolta di poesie.

Da sempre sostengo che sia più facile per chi scrive versi cimentarsi con la prosa che non viceversa. Me lo confermi?

Non saprei… Personalmente scrivo in versi da sempre, è un fatto istintivo! Ma ora che mi ci fai pensare, volgendo la mente a molti scrittori veri, noto che chi scrive poesie, spesso scrive anche romanzi. Mentre è difficile che chi scrive romanzi si cimenti anche con la poesia.

Come nasce la tua passione per la scrittura?

È una cosa innata che ho fin da piccolo. La scrittura per me da sempre rappresenta il mezzo attraverso cui do voce alla mia interiorità, comunicando al mondo che mi circonda ciò che ho nell’anima: una sorta di terapia!

Le tue letture preferite?

Proprio oggi mi è arrivato La Favola Bianca di Antonio Moresco, uno scrittore che amo molto. Così come mi piace molto Franco Arminio. E ovviamente i classici.

Tu di professione sei architetto: come riesci ad abbinare il tuo spirito artistico di scrittore e, soprattutto, di poeta, con quello razionale, oserei dire matematico, dell’architetto?

Seppure, come dici, la mia professione contempli aspetti caratteriali di tipo matematico, allo stesso tempo richiede anche molta creatività, se pensiamo alla progettazione. Se poi vogliamo addentrarci in un altro campo, quello giuridico e burocratico, visto che sono CTU al tribunale di Napoli, lì entrano in gioco solo i fattori razionali. Diciamo che riesco a gestire in maniera molto equilibrata la mia parte razionale con quella fantasiosa e istintiva, evitando che una prevalga sull’altra.

Quanto tempo hai impiegato per scrivere il romanzo?

Oltre un anno. Quando iniziai a scriverlo, non sapevo esattamente come si sarebbe sviluppato. L’ho scoperto man mano che andavo avanti con la stesura.

Quindi quando scrivi non hai in mente un canovaccio da seguire.

No, non sempre. Nel caso specifico avevo un’idea di base, ma non sapevo come si sarebbe poi ampliata. Preferisco che le cose scivolino via da sé, senza una forzatura di fondo. Ovviamente tutto si incastra con il messaggio che voglio trasmettere, quello sì che ce l’ho bene in mente!

Progetti per il futuro?

Sto scrivendo altri tre romanzi.

In contemporanea?

Sì! Se nel corso della stesura di una storia mi viene lo spunto per un’altra, mi fermo e passo a quella nuova per non perdere l’idea. Poi sono in lizza per un concorso letterario.

Auspichi di riuscire a vivere un giorno solamente di scrittura?

Mi piacerebbe, ma so che non è semplice!

DA LUX IN FABULA SALVATORE BRUNETTI HA PRESENTATO IL SUO SAGGIO SUL DIALETTO PUTEOLANO

Di seguito la versione integrale dell’articolo pubblicato su comunicaresenzafrontiere.it

Pozzuoli. Sabato 19 maggio da Lux in Fabula, per la rassegna QUATTRO CHIACCHIERE CON L’AUTORE, Salvatore Brunetti ha presentato il saggio “Dialetto Puteolano”, edizioni Lux In Fabula.

L’autore ha spiegato al folto pubblico presente in sala che lo spunto gli fu dato dal maestro Roberto De Simone il quale, ritenendo il puteolano un dialetto musicale per via dei continui sbalzi di tono che lo caratterizzano, motivo per cui invece molti lo considerano sguaiato, lo sollecitò affinché, dopo lo studio sul napoletano pubblicato molti anni prima, Brunetti ne facesse uno sul puteolano non solo in termini storici, ma soprattutto linguistici e grammaticali per affermarne l’unicità.

L’autore, un arzillo pensionato assolutamente privo di quella boria che spesso caratterizza gli autodidatta, ha ammesso che in questo caso non ha avuto alcuna difficoltà a completare il lavoro in quanto aveva alle spalle quello corposo svolto per il napoletano, lingua madre del puteolano, per cui scriverlo non gli è costato né fatica né tempo: “l’ho scritto in venti giorni, mentre per completare quello sul napoletano impiegai anni!”

Tra i tanti meriti, a Brunetti va riconosciuta la capacità di esprimersi anche oralmente in modo semplice e chiaro, senza frasi a effetto, riflettendo il linguaggio pulito e lineare del suo libro. Gli va inoltre riconosciuta la disponibilità a non sottrarsi alle tante domande dei presenti, intervallando le risposte con aneddoti brillanti e alle richieste di leggere alcune poesie in puteolano riportate in appendice del libro per far sentire la differenza che lo contraddistingue dal napoletano, suscitando con la recitazione dei versi l’ilarità della sala.

Così come piacevole e divertente fu la lettura del saggio, altrettanto si è rivelata la presentazione del libro i cui proventi andranno a sostegno delle attività culturali di Lux In Fabula.

Un grazie a Salvatore Brunetti per aver dimostrato che cultura e simpatia possono tranquillamente andare a braccetto, se si è dotati di intelligenza e umiltà!

“PASSAGGIO A CALCUTTA” – MARCO MENDUNI DA ART IN GARAGE – POZZUOLI

Di seguito l’intervista integrale pubblicata su comunicaresenzafrontiere.it

Pozzuoli: Sabato 18 maggio, per la rassegna ARTinGARAGE, curata da Gianni Biccari, all’Art Garage di Pozzuoli – Parco Bognar 21, adiacente alla stazione Metropolitana FS – si è inaugurata la mostra fotografica “PASSAGGIO A CALCUTTA”, di Marco Menduni.

L’esposizione durerà fino al 31 maggio e sarà visitabile dal lunedì al venerdì, dalle 10 alle 22; il sabato dalle 10 alle 20; domenica chiusa. Ingresso libero.

Per l’occasione abbiamo intervistato l’autore.

Marco ci potresti narrare la genesi di queste foto?

Le foto sono state scattate nove anni fa a Calcutta in occasione di un viaggio che organizzai dopo aver ascoltato chi già c’era stato e ne esaltava l’originalità e la genuinità rispetto ad altre città indiane molto più turistiche. Ammetto che, dopo tanti anni, pur essendo stato in tanti altri posti, quel viaggio mi ha lasciato forti emozioni!

Vivi di fotografia?

No, lavoro in banca. Ma sono anni che coltivo la passione fotografica.

Ti pesa questa dicotomia impiegato/artista?

Effettivamente mi sento un po’ dottor Jack e mister Hyde: giacca e cravatta a lavoro; jeans e t-shirt per fotografare. Ma ci si abitua!

Quando nasce la tua passione per la fotografia?

In tarda età, avevo circa venticinque anni. E di ciò mi rammarico perché ho perso anni di esperienza e di tecnica, anche se poi ho cercato di rimediare lasciandomi trascinare dalla passione.

Per affinare la tua tecnica hai frequentato qualche corso?

No, solo qualche workshop con fotografi di livello internazionale per apprendere dalla loro esperienza i segreti base per scattare buone foto.

Sbaglio o le tue foto appartengono alla categoria della street photography?

Sì! Seppure, volendo essere precisi, potremmo dire che sono una via di mezzo tra la street e il reportage tradizionale.

Quali sono i soggetti che prediligi fotografare?

Spesso mi capita di fotografare bambini. Tuttavia i soggetti delle mie foto sono molteplici, come si evince anche dalle foto qui esposte.

Quando hai fatto la tua prima mostra?

Penso una quindicina di anni fa a Napoli.

Questa all’Art Garage è la tua prima personale?

Ce ne sono state altre.

Se dovessi spiegare la fotografia in generale e la “tua” fotografia in particolare, come le definiresti?

In generale per me la fotografia rappresenta il congelare in un solo attimo un concetto ben più vasto e ben più ampio. A livello personale, invece, la fotografia è un’esigenza comunicativa. Uno strumento che mi consente di esprimermi attraverso un linguaggio particolare.

Se tu ora, all’improvviso, dovessi decidere di partire per un nuovo viaggio fotografico dove andresti?

A distanza di nove anni, tornerei in India per vedere altri luoghi, perché, al di là dei cliché, l’India è un luogo a sé stante, che ti trasporta in un’altra dimensione.

Un altro luogo che ti piacerebbe fotografare?

Sicuramente il Sudamerica. Magari la Patagonia, la Bolivia. Luoghi dove c’è una natura molto particolare, molto forte e popolazioni che mi suscitano interesse.

Fotografi solo a colori?

No, spesso mi servo del bianco/nero. Anche se per il lavoro qui esposto scelsi il colore proprio per via dei mille colori che caratterizzano l’India, Calcutta in particolare.

Foto di Napoli ne hai scattate?

Sì, ma non molte perché, come spesso accade, quando vivi quotidianamente in un luogo, non mostri la stessa attenzione che invece hai quando visiti posti sconosciuti che difficilmente rivedrai.

Hai già scattato la “tua foto della vita”?

No! Dico sempre che la foto più bella è quella che ancora devo scattare.

Progetti per il futuro?

Qualcosa nel napoletano con tematiche sociali.

Nutri l’ambizione di vivere un domani solo di fotografia?

C’è stata, da giovane. Poi ho raggiunto la personale consapevolezza che se vivessi di fotografia perderei la libertà di scegliere dove andare e cosa scattare. La libertà non ha prezzo!