LA REGISTA MARIA DI RAZZA SI RACCONTA

maria di razza

Di seguito la versione integrale dell’intervista alla regista Maria Di Razza pubblicata su comunicaresenzafrontiere


Maria Di Razza: regista, nata a Pozzuoli, Campania. Nel 2007 dirige Ipazia. Nel 2013 realizza il premiatissimo cortometraggio di animazione Forbici sul tema del femminicidio, menzione speciale ai Nastri d’Argento 2014. Con il cortometraggio in animazione Facing off  è finalista ai Nastri d’argento 2015, a cui segue (In)Felix, una fantasia animata distopica sulla Terra dei fuochi. 2018 con “Goodbye Marilyn”, cortometraggio animato,  partecipa nella sezione Eventi speciali delle Giornate degli Autori alla 75° Mostra del cinema di Venezia. 

Maria Di Razza, regista per caso o per passione?

Sicuramente per passione. Da che ero piccola mi piaceva il cinema. Soprattutto mi incuriosiva capire come nascesse un film, cosa si nascondesse dietro quello spettacolo proiettato su un telone bianco appeso al muro.

Lei è diventata famosa grazie ai film di animazione, eppure il suo primo film non è un cartone.

Prima di cimentarmi con i cartoni animati, mi venne voglia di raccontare il personaggio di Ipazia, la filosofa/scienziata greca uccisa dal fanatismo cristiano. Eravamo nel 2007. L’idea mi venne leggendo il romanzo Il Teorema del Pappagallo dove a un certo punto si accenna a questa donna. Da lì’ iniziai a documentarmi su di lei. Il cortometraggio, un lavoro di finzione anziché di animazione, è un prodotto artigianale che, quando lo rivedo, ci trovo sempre delle ingenuità da correggere. Quella era la prima volta che stavo sul set cinematografico, per giunta  dietro la macchina da presa, e avevo la timidezza perfino di dire stop! Dopo quel lavoro, mi presi una lunga pausa. Poi nel 2012 l’incontro con la regista Antonietta  De Lillo ha segnato la mia carriera. Antonietta aveva intenzione di fare un film corale sull’amore, mettendo in gioco il punto di vista di più persone per realizzare una fotografia dell’amore in tutte le sue sfaccettature. Indagandone le facce buie. E fu lei che mi dette lo spunto di raccontare del femminicidio come aspetto di amore-buio, l’amore che si trasforma nel tempo diventando altro. Così nacque Forbici!

“Forbici”  narra di un episodio di cronaca…

Sì, avvenuto a Palma Campania, dove il marito, durante la notte, mentre i figli dormivano, armato di due paia di forbici, uccise la moglie. La nascita di Forbici, se non l’ha cambiata, ha sicuramente dato una sterzata alla mia vita perché da questo piccolo racconto di animazione che dura tre minuti e mezzo, in bianco e nero, fatto con estrema  semplicità, si è scatenato l’incredibile: il film ha girato il mondo, partecipando a decine di festival; ha vinto un mare di premi; ha avuto una menzione speciale ai nastri d’argento.

Perché ha scelto di dedicarsi al cinema di animazione?

Prima di tutto per questioni economiche: l’animazione fatta in maniera semplice costa poco rispetto a un lavoro tecnologicamente curato tipo Disney. E poi l’animazione è un grande escamotage, permette di raccontare qualsiasi storia, perfino quella di un asino che vola! Ci sono due lungometraggi di animazione molto semplici cui sono molto legata, Valzer con Bashir e Persepolis, che pur nella loro semplicità, hanno raccontato storie potentissime arrivando agli Oscar. Il definirli semplici non è riduttivo ma sta a indicarne la diversità rispetto ai cartoni animati delle grandi produzioni i quali hanno un impianto tecnologico notevole, con effetti speciali tali che, nella loro grandiosità, stupiscono lo spettatore ma, probabilmente, lo distraggono dal messaggio contenuto nel film. Un lavoro di animazione “semplice”, per giunta senza sonoro, che racconta una storia potente, evidenzia la forza dell’immagine.

I suoi primi tre corto animati, oltre che per la semplicità, sono muti: ciò allo scopo di dare appunto valore alla forza delle immagini?

Anche. Ma soprattutto per dare spazio alle tematiche, consentendo allo spettatore, attraverso le immagini, di riflettere su quanto sta vedendo. In Facing Off il mio secondo corto animato, affronto il tema della chirurgia plastica cui molte persone ricorrono per migliorare il proprio aspetto a scapito dell’identità. Il film è stato anche un pretesto per fare un omaggio  ai grandi del cinema dato che nel suo interno vi sono richiami a capolavori del pasato. Partendo da Hitchcock, il mio mito, per poi proseguire   con Kubrik e tanti altri.

Parliamo del suo terzo corto (In)Felix: lei ha pubblicamente affermato che, tra tutti i film che finora ha realizzato, è quello cui è particolarmente legata.    

Vi sono legata prima di tutto perché parlo di uno spaccato della mia terra martoriata dal dramma della Terra dei fuochi. Precisamente della discarica Resit che, come ha confermato la perizia fatta dal geologo Balestri, sta inquinando le falde acquifere al punto che entro il 2064 lì non ci sarà più vita. Lo spunto lo presi leggendo la perizia di Balestri che si può scaricare da internet, un faldone di oltre duecento pagine, molto complicata perché ricca di termini tecnici. Nel leggerla, apprendendo quello che vi è sotterrato, mi pianse il cuore. Mi sembrava impossibile come l’essere umano potesse uccidere in quella maniera il proprio territorio. Ma, attenzione, la Resit non è un caso isolato. In molte zone di Italia e del mondo vi sono tante altre “Resit”, solo che non lo sappiamo!

(In)Felix è caratterizzato dalla bellezza dei disegni

Sì, sono di una bellezza incredibile. L’autore è Domenico Di Francia che ha fatto duecento tavole a china, rigorosamente a mano libera, che poi con Costantino Sgamato abbiamo digitalizzato e animato. Ogni disegno è un quadro: io ce li ho tutti conservati, sono spettacolari.

Se non erro lei per i primi tre corto si è servita di un equipe puteolana!?

Sì, perché anche Angela Aragozzini che ha animato Facing Off è di Pozzuoli. In (In)Felix ci sono le musiche di Antonio Fresa, napoletano, che ha poi fatto la colonna sonora di Goodbye Marilyn.

Con Goodbye Marilyn ha partecipato all’ultimo Festival del Cinema di Venezia, riscuotendo un grosso successo di critica e di pubblico. Pubblicamente non ha avuto problemi a dichiarare che quando ricevette la notizia che il film era stato selezionato per il festival per due giorni è stata su una nuvola.

Penso che chiunque al posto mio avrebbe avuto la stessa reazione. Per anni sono andata a Venezia da spettatrice. Ritrovarmi all’improvviso da protagonista è stata una cosa bellissima. Partecipare a Venezia era il mio sogno e l’ho realizzato! In questo devo ringraziare la casa di produzione Marechiaro Film di Antonietta De Lillo, che ha prodotto il film, per avermi lasciata libera di scegliere a quale festival partecipare, senza intervenire in alcun modo. L’idea di girare Goodbye Marilyn me l’ha data, seppure indirettamente, proprio Antonietta regalandomi a Natale il romanzo da cui ho poi tratto il film. All’epoca ero impegnata nella stesura di un progetto completamente diverso. Non appena lessi il romanzo, mi innamorai della storia e decisi di accantonare il vecchio progetto per realizzare il film su Marilyn che però non poteva essere raccontato senza le parole. A quel punto decisi di fare il cosiddetto salto di qualità.

Lei ha avuto l’ardire di far doppiare Marilyn a Maria Pia Di Meo, la più grande doppiatrice italiana che presta la propria voce a Meryl Streep, e l’intervistatore di Marilyn a Gianni Canova, giornalista di Sky nonché Pro-rettore dell’università IULM.

Riguardo all’ardire, personalmente non so quante doti artistiche possiedo. Quando mi sento definire regista, pensando a Hitchcok o Scorsese, non credo di meritare quest’appellativo. Di sicuro sono una persona determinata. Mi ero  ripromessa di fare il salto di qualità. O lo facevo con queste caratteristiche, oppure tutto finiva ai primi tre corto. Per cui, lentamente, ho iniziato a lavorare al film la cui realizzazione ha richiesto complessivamente un anno e mezzo.

Al di là della delicatezza della storia di Goodbye Marilyn, personalmente, ho molto apprezzato  la colonna sonora di Antonio Fresia.

Ad Antonio ho dato carta bianca. Non sono voluta assolutamente intervenire in quanto con (In)Felix feci l’errore di dargli dei suggerimenti. In particolare sul finale del film, dove c’è la trasformazione degli animali, dissi che mi sarebbe piaciuta una musica del tipo La Cavalcata delle Valchirie di Wagner. Lui invece disse che ci voleva l’opposto perché una musica forte come intendevo io sarebbe stata didascalica. Quindi per Marilyn gli diedi campo libero.

E poi con il suo ardire telefonò alla doppiatrice ufficiale di Meryl Streep

Quella telefonata fu incredibile. Solo per reperire il numero ci avrò messo circa un mese. Poi, attraverso una doppiatrice, finalmente riuscii ad averlo. La chiamai, mi presentai e lei, “ma chi sei?” rispose. Le spiegai il motivo per cui la stavo chiamando. Inizialmente disse di no. Del resto, giustamente: io non sono una regista famosa; il film è un cortometraggio; lei doppia attrici e film da Oscar. Accettando era come se sminuisse la propria professionalità. Probabilmente anch’io avrei fatto lo stesso al suo posto.  Ciononostante, insistetti perché leggesse la storia e visionasse i disegni. Fatto ciò, se ne innamorò e disse sì. Il film le è molto piaciuto. Durante una telefonata dopo Venezia mi ha ringraziata per averle concesso la possibilità di doppiare Marilyn Monroe, seppure in forma animata, dicendosi speranzosa di poter lavorare ancora con me, lusingandomi molto.

La voce maschile è invece di Gianni Canova di Sky 

Altro mio mito: da appassionata di cinema, vedo i film su Sky e lui racconta i film in un modo che ti fa vedere certe cose che sfuggono finanche a un attento osservatore. Mi fa fare delle riflessioni su dei film che diversamente mai avrei fatta da sola. Con lui ci siamo conosciuti all’Ischia Film Festival dove presentavo Infelix che gli piacque molto, facendo una bellissima recensione. Quando gli chiesi se avesse voluto doppiare Goodbye Marilyn, immediatamente rispose di sì! Quando il film è stato proiettato a Venezia, lui era seduto al mio fianco durante la proiezione per la stampa: non credo di esagerare se dico che fosse più emozionato di me!

È tipico dei vincenti puntare in grande, lei punta all’oscar 2020?

A riguardo ci tengo a fare una precisazione. Quando al Rione Terra dissi di puntare magari all’Oscar 2020, lo dissi poiché il mio film è stato selezionato al Tirana International Film, un festival prestigiosissimo dove chi vince passa di diritto alle preselezioni dell’Oscar. Ovvio che se poi arrivasse l’Oscar ne sarei felicissima. Sarebbe una cosa meravigliosa. Ma da buon matematico punto i piedi per terra e evito di lasciarmi prendere dall’entusiasmo. Tenga presente che a livello personale la mia vita non è cambiata affatto: per vivere faccio l’impiegata; continuo a fare la mamma e la casalinga.

Progetti per il futuro?

Questa è una bella domanda. Come ho già detto, prima di lavorare a Marilyn ero impegnata in un altro progetto che ho poi accantonato e non so se lo riprenderò. Ora sono alla ricerca di una storia che mi appassioni come è accaduto per Marilyn, quindi non so nemmeno se il prossimo film sarà un lungometraggio o se continuerò a cimentarmi con il corto. Un lungometraggio di animazione significano almeno cinque anni di lavoro. Non percependo alcun contributo istituzionale per i miei film, finora ho fatto enormi sacrifici economici e ho avuto l’aiuto delle persone che mi vogliono bene. Anche se devo dare atto alla Regione Campania di essersi fatta carico in maniera postuma delle spese inerenti il soggiorno a Venezia di una parte del cast di Marilyn. Per questo motivo, se devo fare un nuovo lavoro, devo trovare una storia convincente che valga i sacrifici necessari per realizzarla.  

Ha mai pensato di fare un film di animazione ambientato a Pozzuoli o nei campi flegrei?

Francamente non ci ho mai pensato. Ma non perché non ami la mia terra. Come lo stesso sindaco Figliolia ha pubblicamente riconosciuto, in tutte le interviste che ho rilasciato a Venezia ho sempre citato Pozzuoli cui sono molto legata al punto che se mi regalassero una casa altrove, rifiuterei. Le mie radici sono qui, a Pozzuoli!

Vincenzo Giarritiello

INTERVISTA A NIKO MUCCI

NIKO

Di seguito ripropongo in  versione integrale l’intervista all’attore Niko Mucci pubblicata su comunicaresenzafrontiere  


Niko tu non sei napoletano…

No,ho origini abruzzesi e pugliesi. Ma, a parte qualche breve periodo della mia infanzia, ho vissuto tutta la mia vita a Portici. Per sbaglio sono nato in Piemonte.

Ti senti napoletano adottivo o napoletano a tutti gli effetti?

Mi sento un napoletano adottivo nella misura in cui mi ritengo un meridionale: di Napoli percepisco pregi e difetti. L’avere più origini e l’aver soggiornato in diversi luoghi del meridione d’Italia ha fatto sì che la mia formazione culturale fosse napoletanaNon dimentichiamo che a Napoli fu istituita la prima università italiana, e che Napoli e le sue province per secoli sono state, e lo sono tuttora, un’attrattiva per quanti in Europa e nel mondo, nel corso dei secoli, volendo formarsi culturalmente, inserivano la città partenopea nei propri viaggi di formazione. A Napoli e nelle sue province hanno visto la luce tanti uomini e donne che hanno condizionato e condizionano tuttora la cultura mondiale.

Uno di questi è sicuramente Gianbattista Basile di cui ti sei divertito a trasporre in teatro le favole del Pentamerone.

Questo è un progetto che iniziò a maturare quando ero ancora giovane. Caso ha voluto che successivamente, in età matura, mi incontrassi con un discendete di Basile, il regista Domenico Basile, il quale ha tradotto dal napoletano antico, non da quello moderno che noi oggi conosciamo, le cinque favole del Pentamerone e insieme ne abbiamo fatto delle rappresentazioni teatrali in strada a Giugliano, paese natio di Basile. In precedenza già mi ero cimentato con Basile. Per la precisione lavorando con Renato Carpentieri con il quale in ben due occasioni abbiamo portato in scena le favole di Basile. Questo mi ha imposto di studiare il napoletano, non solo da autori moderni, ma da autori del passato come appunto Basile.

So che sei appassionato della letteratura latino/americana. E definisci la cultura napoletana antecedente il terremoto dell’ottanta molto affine a quel tipo di cultura sudamericana. Puoi spiegare questa sottile caratterizzazione?

Prima di tutto penso che sia chiaro a chiunque abbia a vissuto Napoli, sia culturalmente che praticamente, che la città dopo il terremoto è cambiata a livello di impostazione culturale e politica; così come è cambiato il rapporto che la città aveva con la politica e con i propri sentimenti. Ritengo che dopo il terremoto la città sia diventata più cinica, più distaccata da tutta una serie di cose che, seppure facessero parte di un’oleografia, erano insite nel napoletano. Mentre dopo sono diventate solo cartolina. Viceversa un’attenzione non cinica verso i sentimenti, a mio avviso, è rimasta nella cultura di lingua spagnola, sudamericana in particolare. C’è una generazione di scrittori sudamericani moderni che, senza smarrire la classica verve surrealista che caratterizza da sempre quel tipo di letteratura, affrontano in maniera molto incisiva tematiche realistiche. Uno è De La Parra – uno psichiatra – di cui metterò in scena un testo; un altro è Jorge Accame di cui ho già proposto “Avana”, un lavoro molto bello che in Italia non era mai stato rappresentato. Entrambi mantengono un sottofondo di poesia a fronte di un cinismo realistico che possiamo ritrovare in Moscato e in altri autori napoletani, dando vita a una sorta di teatro della crudeltà alla napoletana.

Tu svolgi la tua attività teatrale in un cosiddetto teatro di frontiera perché situato in una zona periferica e “particolare” della città

Il TAN di Piscinola, ai confini con Scampia, Miano, Chiano; comuni dove non c’è un cinema, un teatro, non c’è nulla perché la gente possa divagarsi senza doversi spostare.

Pregi e difetti del lavorare in una zona di frontiera

Prima di tutto, lasciami dire che è bellissimo! Per quanto riguarda i difetti, una sorta di provincialismo da parte di alcuni abitanti di quelle zone che preferiscono spostarsi a Napoli, malgrado noi facciamo molte attività come quelle che si svolgono in città. Provincialismo che io ho già testato a Portici: noi facevamo una proposta e la gente invece preferiva spostarsi a Napoli per vedere o fare le stesse cose da noi proposte.

Non pensi che, più che provincialismo, possa trattarsi di una sorta di precauzione, nel senso che l’idea di dover andare in un luogo deputato “pericoloso” incida sulle scelte delle persone?

Questo sicuramente: tante volte, ai miei inviti a vederci a vedere al TAN, mi sento rispondere, “ma non è pericoloso?”. La mia risposta è sempre la stessa: ci vado da venticinque anni e non mi è mai successo niente! Purtroppo è difficile sradicare un luogo comune dall’anima della gente. Questo è l’aspetto critico dello stare in periferia. Il grosso pregio invece è che in quella zona esiste un associazionismo spinto e un interesse per fare le cose al fine di dire “noi non siamo la camorra, noi non siamo lo spaccio. Noi siamo gente che vuole vivere la cultura”.

Qual è stata la risposta del pubblico a questo vostro impegno?

All’inizio ottima: eravamo seguiti da un nutrito pubblico tanto da arrivare ad avere per una stagione teatrale circa cento abbonati che è tanto per un piccolo teatro come il nostro. Abbiamo creato una rete con altri teatri e un pulmino che porta la gente da Napoli centro fino a noi e poi la riaccompagna in città. Ma soprattutto abbiamo riscontrato un interesse e una voglia di fare da parte degli abitanti del posto che ci fanno venire la voglia di continuare. Considera che io vado da Portici a Piscinola, il nostro direttore artistico viene da Fuorigrotta. Malgrado le distanze, ci spostiamo con gioia perché in quel territorio c’è fermento culturale per dimostrare di essere la parte buona di Napoli!

Passiamo per un attimo alla tua passione per la poesia, come nasce?

Quando da ragazzo suonavo, avevo la tendenza a fare il cantautore quindi mi scrivevo i testi delle canzoni e molti li mettevo da parte. Molti anni dopo, lavorando in teatro, una sera che eravamo in tournée, nell’attesa che la compagnia che ci ospitava finisse le prove, cominciai a improvvisare dei versi e la cosa mi divertì molto. Visto che poi le persone a cui li feci leggere si divertirono a loro volta, cominciai a scrivere con continuità. Inoltre la scrittura mi è stata di grande aiuto nei momenti di depressione derivanti dallo stare lontano per lungo tempo dalla famiglia a causa del lavoro. Quando poi le iniziai a pubblicare su Facebook, più di un amico mi chiese perché non le raccogliessi in un libro. E così nacque la prima raccolta di poesie, ATTORI A BABORDO, tutte scritte in tournée. Avevo come punto di riferimento Isa Danieli con la quale lavoravo: un giorno, mentre eravamo in pausa, prese una mia poesia, la lesse e disse “ a mme ‘e rime nun me piaceno, ma chesta poesia è bella”. A quel punto mi sentii incoraggiato e decisi di pubblicare.

Anche la tua seconda raccolta di poesie ha un titolo che richiama il mare, NAVIGARE E’ TARDI, ci spieghi perché questo legame con il mare e la navigazione?

Ho sempre accostato la compagnia di teatro all’equipaggio di una nave, obbligato per tutto il viaggio a stare insieme, decidendo se accoltellarsi o collaborare per portare la nave in porto. E poi mi porto dentro il monologo iniziale di Ismaele in Moby Dick che termina dicendo, “il mare, dove ciascuno come uno specchio ritrova se stesso.”

Tua moglie è l’attrice Nunzia Schiano, il vostro è un rapporto in cui prevale l’intesa o il conflitto?, ovviamente mi riferisco alla vostra attività teatrale.

Per un lungo periodo siamo andati di amore e d’accordo su tante cose. Negli ultimi tempi qualche conflitto nasce rispetto alle valutazioni sui giovani attori: io sono più possibilista, lei invece è molto rigida. Le nostre discussioni vertono sulla misurabilità del concetto di talento, ossia se il talento si può misurare o no: io dico che esistono vari gradi di talento; lei invece sostiene che il talento o c’è o non c’è! E su questo ci facciamo delle battaglie ideologiche che mi sono divertito a traslare in un testo teatrale: l’anno scorso ho proposto a mia moglie un copione in cui io e lei eravamo una specie di aspettando Godot, due ex attori settantenni che su una spiaggia rivedono il loro percorso. Mi ha risposto,”non lo farò mai, sono contraria all’autoanalisi in teatro”.

Ultima domanda, tuo figlio ha anche lui intrapreso l’attività nel modo dello spettacolo, seppure da regista cinematografico. Il suo cortometraggio ‘Corduroy’ è tra i finalisti per la categoria al Festival del cinema di Roma: come padre sei orgoglioso, preoccupato o cosa?

Di mio figlio sono molto orgoglioso per il percorso che ha fatto: come me ha iniziato a suonare; quindi si è interessato di cinema; si è laureato al DAMS; ha fatto dei master. Tuttavia vorrebbe fare lo sceneggiatore. Ma quello che mi ha reso particolarmente orgoglioso è il modo con cui ha gestito la compagnia durante i tre giorni di riprese. Secondo me ha fatto un solo errore: nel cortometraggio Nunzia interpreta il ruolo di protagonista; un giorno le disse, “mamma devi metterti qua”, anziché chiamarla Nunzia. Per il resto ha gestito in maniera egregia una compagnia composta da persone più esperte di lui; ascoltando e portando avanti il suo progetto, mediandolo con l’aiuto degli altri. Non è cosa da tutti.

Niko progetti per il futuro?

L’uscita del terzo libro di poesie che si chiama BAIONETTE LE PAROLE, in cui sono racchiuse tutta una serie di poesie che scrissi quando fui costretto in ospedale in seguito all’incidente per cui ho rischiato la vita e che mi ha limitato nei movimenti. Ma che mi ha anche obbligato a una profonda riflessione su me stesso per capire come avrei dovuto rivedere la mia vita, a valutarla in modo diverso. Per quanto concerne il teatro, sono costretto a passare più tempo dietro le quinte, lavorando come regista,che non a stare sul palco come attore. Ma ti assicuro che ciò non sminuisce affatto la mia passione per il teatro. È solo un inversione di ruolo, per alcuni aspetti anche più affascinante della recitazione stessa. Seppure il contatto che hai con in pubblico quando sei in scena è tutta un’altra emozione.

Fatti una domanda e datti una risposta.

Quali pensi siano i punti finali del tuo percorso?… Citando Flaiano, speriamo che la morte ci trovi ancora in vita!

 

Poco prima di pubblicare l’intervista, apprendiamo che l’attrice Nunzia Schiano, al Festival del Cinema di Roma, ha vinto il primo premio come attrice protagonista nel cortometraggio “Corduroy” girato dal regista Francesco Mucci.
A Niko, Nunzia e Francesco i complimenti della redazione di Comunicare Senza Frontiere.

INTERVISTA ALLO SCRITTORE DAVIDE MORGANTI

L'immagine può contenere: 1 persona, spazio al chiuso

Di seguito ripropongo in versione integrale l’intervista allo scrittore Davide Morganti pubblicata su comunicare senza frontiere 


Professore di lettere, scrittore, sceneggiatore, giornalista sportivo, chi è Davide Morganti ?

Il mio vero cognome è Palmieri. Bisogna fare questa scissione. A scuola sono il professor Palmieri, fuori sono lo scrittore Morganti. Anche se a volte i miei alunni mi chiamano professor Morganti. Ovviamente per scherzare. È una scissione che ho fatto venir fuori solo negli ultimi tempi. Per anni non ho mai detto nulla. Perfino a scuola non sapevano di questa mia “dicotomia”. Quando la scoprivano e mi chiedevano perché ne tacessi, rispondevo che non vedevo la necessità di renderla pubblica essendo il professore Palmieri.

Nella precedente risposta hai messo in risalto il tuo rapporto con gli alunni. Approfondiamolo: come si rapportano i ragazzi con questo professore che è anche uno scrittore di livello?

Sono molto incuriositi e orgogliosi tanto che molte volte mi hanno chiesto di leggere in classe i miei libri. Ovviamente mi sono sempre rifiutato in quanto reputo scorretto che un insegnante spinga gli alunni ad acquistare i propri libri per poi leggerli in classe. Solo l’idea che debbano comprare un mio libro e che poi io debba commentare me stesso mi sembra fuori da ogni logica, non solo deontologica ma del saper vivere generale!

Come nasce il rapporto tra Morganti, pardon, Palmieri e la scrittura?

Fin da piccolo ho cercato un cognome diverso da Palmieri perché mi piaceva nascondermi. Poi scelsi Morganti perché mi piaceva il cognome  di mia nonna paterna. Pensa che questo cognome mi si è talmente appiccicato addosso che ci sono persone le quali, quando scoprono che mi chiamo Palmieri, restano stupite. Per rivendicare il mio cognome reale ho preteso che nella bandella di La Consonante Kappa comparisse anche Palmieri.

Veramente volevo sapere come nasce il tuo rapporto con la scrittura…

Ah, scusa!… Francamente non lo so, scrivo da quand’ero bambino. Avevo pressappoco undici anni. Lo considero un fatto naturale. Quando da bambino ti lasci catturare da una passione artistica, o da una passione in generale, non sai, seppure lo speri, che possa essere un qualcosa che continuerai a fare da grande. Almeno così era per me. Tanto che poi, man mano che crescevo, mi chiedevo, “ma scrivo perché è una cosa che fanno tanti adolescenti, o scrivo perché un domani posso ottenere un qualcosa di più a livello personale e professionale?” E, una volta che mi ero posto la domanda, mi rispondevo, “superata l’adolescenza, vedremo se effettivamente ho il bisogno di dire qualcosa o se sto attraversando una fase che vivono molti miei coetanei!?” Ma soprattutto mi sembrava impossibile di poter fare ciò che sognavo di fare. Anche perché siamo abituati – sarebbe meglio dire “educati” – a pensare che tutto ciò che sogniamo difficilmente si realizzerà. Non a caso le nostre disillusioni nascono con la befana che non esiste!

So che hai fatto studi teologici: ciò in passato avrà certamente influito sulla tua scrittura!? Influisce tuttora o stai cercando di uscirne?

Per carità, non voglio affatto uscirne, ma ci voglio rimanere sempre più incastrato dentro! La cultura teologica permea completamente quello che scrivo. Io sono anche laureato in filosofia però la teologia è quello che più si incastra nelle mie ossessioni religiose. Considera che oltre ad aver studiato teologia ho anche studiato ebraico in sinagoga, ho pregato con gli ebrei; è una cosa che mi attraversa parecchio.

Hai fatto un percorso, seppure alla lontana, simile a quello di Erri De Luca il quale ha studiato l’ebraico per poi studiare la Bibbia dalla lingua madre.

So che De Luca traduce dall’ebraico ma penso che abbiamo fatto percorsi distinti: questa mia passione teologica risale a quando avevo diciassette anni. Credo che De Luca abbia cominciato molto più tardi. Avevo anche pensato di iscrivermi al corso di ebraico con il professor Battioni che è uno dei coordinatori della Bibbia di Gerusalemme. Ma poi non se ne fece niente in quanto, oltre a  studiare, già insegnavo religione in una scuola elementare di Cavalleggeri; poi l’ho anche insegnato alle medie e alle superiori.

I bambini come vivevano questa figura laica che insegnava religione?

Mi amavano moltissimo: dicevano che ero divertente e severo. Io ho sempre creduto che un insegnante debba essere una sorta intrattenitore/attore. Ma deve trasmettere contenuti altissimi!

Il tuo ultimo romanzo, La Consonante Kappa, ha avuto degli ottimi riscontri di critica cui però non è corrisposto lo stesso riscontro di pubblico, molto probabilmente per via della complessa architettura del romanzo dove si incastrano più personaggi e più storie, da Gesù a Lenin, passando per la caduta del muro di Berlino. Perché questo mosaico?

Come tutti i libri, il mio si può amare, odiare, denigrare o meno. Mediamente il lettore è abituato a una storia che si sviluppa linearmente dall’inizio alla fine. Per quanto mi riguarda, non ho un dogma, ossia non mi sento obbligato a scrivere una storia in maniera “rettilinea”, dall’inizio alla fine sempre con gli stessi protagonisti. Cosa che ho fatto tranquillamente in altri miei libri, come ad esempio Moremò. Ma ci sono momenti storici in cui hai voglia di pluralità. Sapevo benissimo che rischio correvo impostando il romanzo così com’è strutturato, ero consapevole che, di riflesso, non avrei avuto folle oceaniche in libreria per acquistare il mio libro. Ma scriverlo così come è era quello che volevo. Fa niente che non entrerò in classifica!

Al cinema è uscito Caina, la trasposizione cinematografica del tuo omonimo romanzo, per la regia di Stefano Amatucci, interprete Luisa Amatucci, a cui hai collaborato per la sceneggiatura. Indossare i panni di sceneggiatore è stato più facile o difficile rispetto a quelli di scrittore?

Caina è un incastro tra il romanzo che ho pubblicato con Fandango e un testo teatrale che scrissi nel 2009 dal titolo “il trova cadaveri”. Su suggerimento di Stefano, ho preso  la xenofoba Caina e questo testo teatrale, dove il trova cadaveri è un maschio che raccoglie cadaveri dalla spiaggia, e li ho scecherati. All’epoca il testo fu rappresentato al teatro Elicantropo con Stefano Meglio per la regia di Mario Gerardi: il personaggio originale è grottesco, molto buffo. Diversamente da Caina,  cupa e drammatica che Luisa Amatucci ha reso in maniera magistrale.

In passato hai tenuto laboratori di scrittura creativa. Pensi che un laboratorio sia in grado di sfornare scrittori?

No, assolutamente! Quando li coordinavo, facevo presente ai partecipanti che si veniva per confrontarsi, per leggere insieme. Personalmente lo ritengo un esercizio per aguzzare la vista sulla pagina, sui libri, più che ad appagare velleità di scrittore. Anche se poi in seguito molti di coloro che mi seguivano mi hanno detto “Davide, c’è un prima e un dopo di te per come scrivo.” Questo ti fa piacere. E uno che me lo ha detto è stato lo scrittore per ragazzi Antonio Tammaro che scrive storie delicatissime.

 Attualmente hai laboratori a Pozzuoli?

Non più .  A Napoli i laboratori di scrittura sono frequentati da tantissime persone. Evidentemente ai puteolani, ovviamente, parlo in generale, interessa ben altro. Magari rimpinzarsi più lo stomaco che la mente. O addirittura non interessa Davide Morganti, vallo a sapè!?

Quali sono gli scrittori su cui ti sei formato?

Da bambino Dostoevskij, Kafka e Strindberg. Da adulto stilisticamente mi hanno condizionato Albert Caraco e Federico Dozzi. La ricerca sulla musicalità della frase è durata parecchi anni. E ci sono scrittori che effettivamente  mi hanno indirizzato. La scrittura è un esercizio di ricerca! Non immagini quanto mi fa piacere quando chi ha letto un mio libro mi fa presente che, leggendo, aveva la sensazione che fosse stato scritto da più persone. Uno scrittore deve adeguare lo stile alla storia altrimenti fa tutto uguale, uno yogurt. E là sta la fatica: costruire storia, personaggi e stile. Ora che ci penso, un altro autore che mi piace molto è Winfriend Sebald, ha una scrittura ipnotica!

Ultima domanda, a cosa stai lavorando?

Su suggerimento di Gianfranco Di Fiore, uno scrittore bravissimo, ho ripreso dei romanzi vecchi, del 2007, del 2010 e 2017, e sto cercando di incastrarli per farne un unico romanzo. Inoltre ho anche altri due nuovi romanzi a cui lavorare. Ma non si può fare tutto!

Chiudo la mia intervista con :”Non sono mai riuscito a comprendere in che modo, in paradiso, un uomo si possa considerare beato senza sentire la sua santità diminuire sapendo che altrove, all’inferno, c’è qualcuno che soffre” dal romanzo “La Consonante K” di Davide Morganti.

RICORDO DI OSVALDO PETRICCIUOLO

09_0-189x300

Di seguito l’intervista pubblicata su comunicaresenzafrontiere a Brunilde Petricciuolo, figlia del maestro Osvaldo Petricciuolo che il 9 agosto 2018 avrebbe compiuto 88 anni, in cui la dottoressa ricorda il padre e la sua  versatilità artistica e professionale.


Pittore, scultore, scenografo, baritono, regista lirico, professore di scenografia, il 9 agosto di quest’anno Osvaldo Petricciuolo avrebbe compiuto ottantotto anni. Per celebrarne la memoria, abbiamo intervistato nella Casa d’arte/museo allestita dall’artista a Raggiolo, in provincia d’Arezzo, la figlia del maestro, Brunilde Petricciuolo.

Domanda: Dottoressa come mai suo padre, napoletano doc, decise di creare una casa d’arte a 500 chilometri da Napoli?

Risposta: Più di vent’anni fa, durante uno dei suoi tanti spostamenti legati alla sua attività artistica, papà capitò a Firenze. Lì ci fu chi gli decantò la bellezza di Raggiolo, stimolando la sua curiosità d’artista. Non appena rientrò in albergo, si documentò su dove fosse esattamente situato il paese e come ci si arrivasse. L’indomani, prese il treno per Arezzo, quindi la corriera per Bibbiena e poi un taxi che lo portò a Raggiolo.

D.: Quale fu il motivo principale che lo indusse a scegliere Raggiolo come luogo dove dare vita alla casa d’arte museo?

R.: A Raggiolo papà riscoprì la propria vena sacra di quando da giovane dipingeva i tappeti di arte sacra nelle chiese napoletane. Ciò avvenne perché da Raggiolo si ammira La Verna dove San Francesco ricevette le stigmate. E infatti nella sua produzione raggiolana, portò alla luce una propria tempera inedita del 1958 dedicata al santo. Inoltre, il trovarsi immerso nella natura del luogo, poter camminare sulle rive dei due torrenti che scendono per Raggiolo, il Barbozzaia e il Teggina, stimolò la sua verve naturalista spingendolo a dipingere le dodici tavole Casentinesi di cui successivamente dette alla luce una raccolta di cartoline per collezionisti.

20180808_195246-300x225

D.: Un ritorno all’impressionismo?

R: Più che impressionismo, la sua fu una vera e propria lettura dal vero di tutti i luoghi più caratteristici di Raggiolo anche per l’occhio più distratto. Consideri che arrivò addirittura a contare il numero esatto di tegole prima di ritrarre un essiccatoio di castagne.

D.: Questa precisione di dettagli la riscontriamo non soltanto ammirando le opere di suo padre, ma anche nel modo con cui ha ristrutturato il casolare dove ha poi allestito la casa/museo in cui è serbata una parte della sua produzione artistica. L’altra è sparsa in diversi luoghi del mondo, finanche negli Stati Uniti e negli Emirati Arabi. Due anni fa a Napoli è stata allestita una personale a Castel dell’Ovo con un buon riscontro di pubblico, ha in animo di allestirne altre?

R.: Ma certamente. Tenga conto che papà fondò l’Iterspatium Apertum, un’associazione culturale onlus di cui sono la soprintendente e mio figlio Alessandro il vicepresidente, con l’intento di diffondere il proprio messaggio artistico e culturale nel mondo. Il  nostro scopo è quello di proseguire  la sua volontà istituendo premi a lui dedicati a favore dei giovani artisti, creare dei percorsi alternativi turistici/culturali qui nel Casentino e allestire una serie di mostre dedicate a papà in tutta Italia.

D.: Riguardo al rapporto con i giovani, so che suo padre ci teneva molto ai giovani, così come altrettanto molti allievi ci tenevano a suo padre. Suo padre ha insegnato prima all’Istituto d’arte di Napoli, poi all’Accademia di Belle Arti di Reggio Calabria, quindi in quella di Bari e poi, nell’ultimo periodo della sua attività di professore, a Napoli. In questo suo itinere professionale, lei crede che suo padre oltre a dare, abbia ricevuto un arricchimento artistico?

R.: Certamente! Anzi, più che un arricchimento artistico, sicuramente un arricchimento umano. L’insegnamento per lui si è rivelato una sinergia, un dare e avere animico attraverso i giovani. E senz’altro ha scoperto delle ottime vene artistiche in tutti, o quasi tutti i suoi allievi.

D.: come tutti i veri artisti, suo padre era un carattere forte ma, nel momento della necessità, sapeva essere di una disponibilità assoluta. Crede che questa robustezza caratteriale possa averlo penalizzato per quanto concerne la sua affermazione di artista?

R.: Un vero artista tende a isolarsi non perché sia un orso ma perché ha bisogno dei suoi spazi per creare. Papà qui a Raggiolo ritrovò tutto quello di cui aveva bisogno per sentirsi un artista a 360 gradi.

D.: Da giovane suo padre organizzò a Napoli diversi eventi culturali di livello mondiale, ci può dire quali?

R.: nel 1961 fondò il “Centro Italiano di Arte, Cultura, Spettacolo – CIDACS” , a cui aderirono i maggiori esponenti dell’arte: il Premio Nobel Salvatore Quasimodo, Eugenio Montale, Marino Marini, Enrico Prampolini, Gino Severini, Goffredo Petrassi, Felice Casorati, Gino Cervi. Nel 1963 allestì la Prima Esposizione Internazionale di Scenografia Contemporanea e gli Incontri internazionali del Cinema presso il Teatro Mediterraneo della Mostra d’Oltremare di Napol, con 18 Nazioni partecipanti insieme a famosi artisti tra cui, oltre a mio padre, Pablo Picasso, George Braque, Roman Clemens, Mario Anghelopoulos, Anton Giulio Bragaglia, Fortunato De Pero, Giorgio De Chirico, Guido Marussig, Stelio Di Bello, Giacomo Balla e tanti altri. Nel 1966-67 organizzò  le “Celebrazioni per le Onoranze a Enrico Prampolini”  per il Decennale della scomparsa in cui tracciò un piano di diffusione internazionale dell’Arte Italiana sotto l’Alto Patronato del Presidente della Repubblica On. Giuseppe Saragat. Senza contare i tanti eventi lirici cui partecipò come baritono, regista e scenografo in italia e nel mondo .

D.: Secondo lei, suo padre era più legato alla sua attività di artista di opera lirica o a quella di pittore/scultore?

R.: Essendo un uomo di teatro, ha coltivato sia la scenografia, sia la musica in maniera univoca, integrandole affinché non fosse costretto a sacrificare una per l’altra.

D.: Quando è visitabile il musueo?

R.: Dalla primavera inoltrata a fine ottobre, su richiesta e prenotazione che possono effettuarsi attraverso i contatti presenti sul sito www.osvaldopetricciuolo.it

PERCORSI FLEGREI, MALAZE’

Risultati immagini per rosario mattera malazè

Di seguito la mia intervista su cominucaresenzafrontiere a Rosario Mattera, fondatore e Presidente di Malazè, l’evento acheo-eno-gastronomico che si svolge nei campi flegrei, giunto alla XIII edizione.

Giunta alla 13° edizioni è uno degli eventi di punta dei campi flegrei. Rosario Mattera, fondatore e Presidente di Malazè, intervista.

D: che significa Malazè?

R: La parola è di derivazione araba e indica il magazzino dei pescatori. Di sicuro è una distorsione dialettale che dalla Sicilia si è modificata, man mano che si risale il continente, almeno fino a Pozzuoli. Grazie per la domanda perché molti ritengono Malazè un acronimo o un gioco di parole.

D: Rosario, molti anni fa ti sei inventato Malazè, da dove nasce il progetto?

Risposta: L’edizione di quest’anno sarà la tredicesima, un bel viaggio. Diciamo subito che Malazè ha una mamma che lo ha generato, l’Associazione Campi Flegrei a Tavola. L’associazione nacque con l’intento di mettere a sistema e generare una forma di economia attraverso quello che io ritenevo e ritengo fosse uno dei giacimenti economici di questo territorio, ovvero l’enogastronomia. Soprattutto all’epoca che fondammo l’associazione, reputavo la gastronomia il grimaldello per far sviluppare economie in crisi o in via di estinzione, soprattutto la pesca e la piccola agricoltura che sono molto residuali per motivi diversi: la piccola pesca è andata a finire per scelte scellerate della comunità europea; l’agricoltura, ahimè, è andata a sua volta a esaurirsi in quanto abbiamo consumato tutto il terreno a nostra disposizione. Un po’ a causa degli eventi legati al bradisismo. Molto per via della speculazione edilizia che ha letteralmente violentato il territorio. Da qui l’idea di dare vita a un sistema per far sì che il ristorante potesse dare ancora linfa al piccolo produttore, non esistendo più giustificazioni affinché si facesse agricoltura. L’idea era quella di sostenere queste piccole aziende agricole che magari c’hanno ancora un piccolo numero di galline, un po’ d’uva, un po’ di ortaggi caratteristici del territorio. Poiché nel tempo le cose si evolvono, ed essendo questo un progetto che io ho sempre ritenuto work in progress, da lì poi è nata l’idea di Malazè.  Anzi, più che un’idea, un vero e proprio moto di ribellione nei confronti di chi millantava nel mondo il nome dei campi flegrei, da sempre oggetto di predazione,  per fare business. Nel senso che qualsiasi soggetto veniva da queste parti, in nome e per conto dei campi flegrei, si sentiva in diritto di presentare qualsiasi evento gastronomico organizzasse con l’appellativo “la cucina flegrea nel mondo”, seppure i piatti presentati non avessero niente da spartire con la tradizione flegrea. Viceversa noi ci preoccupavamo di recuperare le vecchie ricette, essendo consapevoli che la vera tradizione culinaria flegrea era tutt’altra cosa rispetto a quella presentata sui banchetti cui partecipavamo anche noi come associazione. E siccome non c’era nessun baluardo a tali ambiguità, tipo una forte rete di associazionismo, che tuttora manca sul territorio, o comunque qualcosa che rappresentasse e tutelasse il territorio da sempre terra di conquista, ecco l’idea di Malazè!

D: Rosario professionalmente hai legami con il settore della gastronomia?

RNessuno! Io arrivo a questo traguardo da grande appassionato. Sono sommelier e degustatore di olio.

D: Quindi un legame comunque  c’è, seppur labile…

R: Il legame c’è nel senso che io sono sempre stato amante della gastronomia, mi sono sempre piaciute le ricette. Anche se cucino in maniera amatoriale, sto dietro ai fornelli da che avevo l’età di quindici anni. Mamma non sapeva cucinare il pesce, in quanto di origine contadina. A me invece piaceva molto il pesce, e considerando che papà, in contrapposizione a mamma, era un isolano, dunque un uomo di mare, mi dissi che dovevo imparare a cucinare il pesce come meritava, anziché limitarmi a cuocerlo con il pomodoro come faceva mamma. Per cui  iniziai ad alimentare la passione della cucina, coltivandola in maniera scrupolosa fino a raffinarla. E poi ho fatto un lungo percorso di osservazione,come penso debbano fare un po’ tutti coloro che decidono da fare il cuoco o comunque di avvicinarsi alla cucina. Prima di fare ciò, ho girato l’Italia anche attraverso tour operator e altre associazioni. Mi sono trovato invitato più volte in consorzi all’estero attraverso canali cui ho avuto la fortuna di avvicinarmi. E alla fine di ognuno di questi viaggi, ogni volta che tornavo a casa, mi guardavo allo specchio chiedendomi, “mò che faccio?”. E la prima cosa che mi venne in mente fu di organizzare un evento enogastronomico sul Rione Terra.

D: Perché il Rione Terra?

RMolti degli eventi cui partecipavo si svolgevano in Toscana, precisamente nei castelli. A esempio mi ricordo una manifestazione che si chiamava “Amiata a tavola” , qualcosa di incredibile. Oppure feste che si svolgevano tra Arcidosso e Castel del Piano, e chi più ne ha più ne metta. Durante questi spostamenti, guardandomi intorno, pensavo a come sarebbe stato bello organizzare un evento del genere sul Rione Terra. Questa cosa riuscii a realizzarla nel 2003 con Le domeniche di Repubblica: demmo vita a  un evento bellissimo in cui coinvolgemmo una serie di operatori del settore gastronomico. E da qui venne poi quasi naturale organizzare Malazè che personalmente non considero un evento bensì un personale impegno civile nei confronti del territorio.

D: A proposito della riscoperta dei prodotti tipici del territorio flegreo, è noto che ti sei molto adoperato per la riscoperta e salvaguardia della chichierchia flegrea.

RIncominciamo col dire che il nome corretto è cicerchia, chichierchia è in dialetto. Il territorio flegreo è  famoso per la sua biodiversità. Molti non sanno che la cicerchia dei campi flegrei, in particolare quella di Bacoli, risalirebbe a circa duemila anni fa. A ciò è stato possibile risalire sottoponendo il germoplasma del legume all’esame della banca del seme, da cui si è rivelato che tuttora, il seme dell’odierna cicerchia, malgrado l’imbastardimento avvenuto nel corso delle epoche, ha ancora un residuato originario risalente a duemila anni fa, ovvero al periodo degli antichi romani. Non è fantastico? Inoltre  la necessità di salvaguardarla non è solamente legata all’aspetto squisitamente storico/scientifico, ma vi è anche un che di opportunistico. Mi spiego: diversamente dal territorio vesuviano, questa terra non ha elementi produttivi che la contraddistinguono. A esempio il Vesuvio ci ha l’albicocca, il pomodoro del piennolo che nascono solo lì e sono tutelati come prodotti tipici del territorio da tutta una serie di enti e associazioni. Anche qui nei campi flegrei ci sono prodotti tipicamente autoctoni come il pomodorino cannellino. Ma solo adesso, dopo anni e anni di nostre battaglie per la sua difesa, si è fondata un’associazione a tutela del prodotto che non escludo possa trasformarsi addirittura in un consorzio. La cicerchia dei campi flegrei ufficialmente nasce sedici/diciassette anni fa, appunto grazie al mio interessamento, tanto che alcuni la identificano come la cicerchia di Rosario Mattera;  anche perché a ogni manifestazione gastronomica cui ci presentavamo, uscivamo con questo grosso tegame colmo di cicerchia tanto che dopo due/tre anni dalla prima apparizione, della cicerchia dei campi flegrei ne parlò addirittura una rivista americana. La nostra necessità era quella di trovare un elemento gastronomico che contraddistinguesse in maniera indiscutibile i campi flegrei. E la cicerchia ci sembrò il giusto emblema. Considera che inizialmente la si produceva in piccole quantità che non superavano i 50/60 kg. Insistendo, nel tempo la cicerchia è entrata far parte della comunità del cibo, seppure i suoi costi, almeno a livello di produzione artigianale, sfiorano i 10 euro al kg in quanto, essendo un legume molto piccolo, la sue resa non vale il tempo e l’impegno richiesto dalla sua coltivazione. So bene che oggi se ti rechi in un qualsiasi centro commerciale, puoi trovare una scatola di legumi a 2/3 euro. Il problema è che di quel prodotto non conosci l’esatta provenienza. Probabilmente viene dal Sudamerica. Per cui non mangi un prodotto tipico del tuo territorio. La cicerchia, proprio in virtù della propria piccolezza e difficoltà che ne deriva dal coltivarla e pulirla,  non consente una produzione industriale. O almeno non la consentiva fino a due anni fa, quando nel salernitano non si è installato un laboratorio che la pulisce in maniera industriale per cui il produttore porta i sacchi di cicerchia lì per farle sgusciare. Ergo, se vuoi mangiare la cicerchia dei campi flegrei, devi venire per forza da queste parti. Punto!

D: Malgrado la denunciata difficoltà nel riuscire a creare una rete associativa nei campi flegrei, oggi esiste una  realtà di livello internazionale, Malazè, quale il suo percorso?

R: In primo luogo la massima trasparenza: vista dall’esterno Malazè può sembrare una realtà che muove, e soprattutto fa incassare a chi lo organizza, chissà quanti soldi. Niente di tutto ciò. Seppure non ho mai negato che se un giorno Malazè dovesse rivelarsi per me fonte di reddito, non me ne vergognerei. Altro elemento di successo, il basso budget di investimento. Vista dall’esterno, l’organizzazione di Malazè viene reputata  come un qualcosa di mastodontico, la cui spesa realizzativa chissà a quanto ammonta.  Per realizzare Malazè vengono spesi non più di 10 mila euro; chi vi partecipa, non deve pagare nulla; ma sa benissimo che, mettendo a disposizione la propria realtà imprenditoriale, ne riceverà in cambio notevole visibilità. A scanso di equivoci, ci tengo a precisare che Malazè mi appartiene. Nel senso che il marchio è registrato a nome mio; io ne sono il presidente e io ho l’ultima parola in qualunque decisione si deve prendere, seppure mi piace confrontarmi con i miei collaboratori. Questo mi consente di non dover dare conto a nessuno per ciò che devo fare, solo a me stesso, sia nel bene che nel male. Non nego che in questo modo mi sono fatto qualche nemico. Ma così ho tutelato Malazè da eventuali speculatori e forse, proprio per questo motivo, siamo arrivati alla tredicesima edizione che si svolgerà dal 15 al 25 settembre prossimo,  non più sull’intero territorio bensì in tre distinte location: Castello di Baia, Rione Terra, cratere degli Astroni. Decisione presa di comune accordo con Fabio Borghese, l’altra spina forte di Malazè, fondatore e direttore di CREATIVITAS – CREATIVE ECONOMY LAB, dopo aver ponderato tutta una serie di questioni organizzative che per un momento mi avevano addirittura convinto a non continuare con Malazè per dare vita a un nuovo progetto di cui non voglio parlare, essendo evaporato. E meglio è stato perché mi stava rubando solo energie psichiche alla realizzazione della nuova edizione di Malazè. 

D: malgrado molti siti archeologici dei campi flegrei sono abbandonati all’incuria e al degrado, voi abbinando visite archeologiche guidate con soste in aziende agricole per gustare prodotti tipici del territorio, avete trovato il modo di attirare un turismo di elite, anno per anno. Una bella soddisfazione!

R:  Malazè è l’unico evento in Italia, anzi l’unico festival archeo-eno-gastromonico. Noi questo siamo: questa è stata la sfida. E dico anche di più: in tempi non sospetti ho affermato che il problema di fare turismo in questo territorio non erano i siti chiusi, perché c’è la possibilità, al di là che molti siti non sono fruibili, di fare turismo archeo-eno-gastronomico. Perché rispetto a dieci anni fa oggi ci sono le cantine che fanno accoglienza, fanno turismo internazionale, organizzando corsi di cucina e degustazione a 100 euro al giorno. Poche persone ma di alta qualità. C’è un turismo che non si conosce, che è canalizzato, di qualità a cui noi abbiamo sempre ambito e a cui abbiamo lavorato perché il nostro modello è proprio questo e l’abbiamo creato all’interno di un discorso mentre tutti si lamentavano del fatto che non si facesse turismo a Pozzuoli e nei campi flegrei perché i siti erano chiusi. Io ho sempre detto pubblicamente, in più occasioni, perfino in televisione, che la scusa che qui non si facesse turismo perché i siti non erano accessibili dava l’alibi alle amministrazioni di scaricare le responsabilità sulla soprintendenza e ai giovani di questo territorio di dire che non ci sono opportunità. Io invece dico che ci sono opportunità, che i giovani molto spesso sono fermi. E dietro il ragionamento secondo cui “qua non si può fare” c’è la risposta del perché tutto rimane immobile. E dirò di più: la mia preoccupazione è che se domani mattina mettessimo a sistema il discorso dei siti archeologici, mancherebbe un numero adeguato di guide turistiche e figure simili. E non è un caso che queste figure stanno arrivando da Napoli, guidando gruppi di turisti. Consentimi di fare un paragone per meglio chiarire il concetto di immobilismo cui mi riferisco: il Rione Terra ha distrutto nella fantasia di noi puteolani un modello di sviluppo diverso. Io provocatoriamente davanti al sindaco dissi durante un incontro al Rione Terra, “io provo a chiudere gli occhi e mi chiedo: se non ci fosse stato il Rione Terra e questi 300 milioni di euro li avessimo spesi per fare altro, forse oggi Pozzuoli non sarebbe ancora in stand by per decidere che fare sulla rocca”. Per me il Rione Terra non è il volano bensì la morte del turismo sul nostro territorio. Se queste risorse fossero state investite in una mobilità interna alternativa, forse oggi Pozzuoli sarebbe turisticamente al top. Il problema, a mio modo di vedere, è che non c’è mai stata una visione di creare un turismo diverso e di qualità. E tuttora un’idea del genere non c’è!

D: a Pozzuoli perché, salvo eccezioni, molte  realtà non decollano ?

RIo, anzi noi ci siamo riusciti ma, fondamentalmente perché abbiamo creato un modello. Adesso ci vorrebbe la cosa più importante, chi dà l’accelerazione. In questo territorio, secondo me, è mancato un vero e proprio cantiere di progettazione dove chi fa una certa cosa, chi ha un’idea trovasse chi lo ascoltasse e lo aiutasse nel realizzarla. Noi ci abbiamo messo quindici anni per arrivare dove siamo arrivati. Probabilmente se avessimo trovato a livello istituzionale qualcuno che ci avesse ascoltati,  avremmo impiegato la metà del tempo. Ma io la politica la capisco, essa ha un atteggiamento predatorio, non intenso in senso offensivo: essa è consapevole che oggi c’è, domani non è detto, per cui deve guardare al momento non al domani per dimostrare ai cittadini di avere fatto. Purtroppo per fare le cose ci vuole lungimiranza e pazienza! Tutte queste cose di cui stiamo parlando io le ho portate nei tavoli istituzionali, da cui poi mi sono allontanato. Noi abbiamo una rete di soggetti rappresentata da Claudio Boccia, direttore generale di FederCultura; Fabio Renzi, il Segretario Generale della Fondazione Symbola; Salvatore Cozzolino, professore di design, Presidente dell’AD Campania  e altri soggetti di alto livello. Con questi signori parli di cultura in funzione del 2020/2030. Parli di futuro! E alla fine, dopo che fai tanto per questo territorio, devi anche sentirti additato come uno snob o chissà che! Per esperienza ho imparato che quando ti criticano significa che stai facendo bene. Per cui io vado avanti per la mia strada. Che per ora resta Malazè! 

Dal 15 settembre tutti invitati .

A PASSEGGIO CON ANTONIO ISABETTINI, IL MAESTRO D’ARTE

isabettiniantonio

Di seguito la mia intervista per comunicaresenzafrontiere al maestro d’arte Antonio Isabettini


Ininterrotti quarant’anni di attività artistica, classe 1955, Antonio Isabettini, di origini puteolane, è oggi un punto fermo per gli appassionati dell’area flegrea raccontata attraverso la pittura.  Una sera d’estate a passeggio per il Rione Terra si racconta all’amico VincenzoCome nasce Antonio Isabettini pittore?

Risposta: sicuramente per passione. Fin da ragazzino nutrivo una forte predisposizione al disegno e alla conseguente pittura. Ovviamente il talento e la passione sono importanti, ma, se non vi si abbinano l’impegno e lo studio, difficilmente si va avanti. Per raffinarmi stilisticamente ho frequentato l’istituto d’arte e successivamente l’Accademia di Belle Arti.
D.: i tuoi  esordi giovanili?
R.: nel 1970, all’età di quindici anni, ho vissuto in prima persona il trauma dello sgombero del Rione Terra, l’anima di Pozzuoli. Abitavo a cento metri dal rione ricordo i camion dell’esercito e i pullman su cui venivano caricati gli sfollati per essere trasferiti provvisoriamente al costruendo ospedale del Frullone a Miano. Una tragedia epocale, una pulizia etnica di cui ancora oggi, a distanza di quasi cinquant’anni, non riesco a capacitarmi. A seguito di questi  eventi, negli anni successivi, desideroso di immortalare il quartiere abbandonato, vagavo per il Rione insieme a un gruppo di pittori puteolani, molto più grandi e bravi di me, a cui spesso portavo il cavalletto, rubando il mestiere. Il Rione Terra era interamente transennato, e per ritrarne i palazzi, i vicoli, le piazzette in modo da serbarne il ricordo per le generazioni a venire, scavalcavamo i muri perimetrali, aggirandoci tra macerie e sterpaglie che ormai prendevano il sopravvento. Nel 1972, all’età di diciassette anni, un amico gallerista di Napoli, mi organizzò la prima personale, portando nel capoluogo il grido d’allarme per quello che irrimediabilmente si stava perdendo.
D.: è da qui che nasce la tua  identificazione come  memoria storica di Pozzuoli?
R.: Certamente fu il periodo che incominciai ad appassionarmi per la storia della mia città. Il mio punto di riferimento artistico deriva dalla scuola di Posillipo, famosa per i suoi vedutisti, gli stessi che hanno dipinto questi luoghi all’epoca del Grand Tour. Vivere in un contesto storico/culturale ricco di monumenti e di storia come Pozzuoli e i Campi Flegrei ha alimentato la mia passione per i paesaggi, spingendomi non solo a dipingere ma a documentarmi per avere maggiore consapevolezza su ciò che ritraevo. La mia finalità è che ogni mio quadro non sia una “semplice” cartolina romantica, ma un vero e proprio “racconto storico”, per quanto sia possibile. A scanso di equivoci, ci tengo a precisare che non sono uno storico bensì un appassionato della storia del territorio flegreo: il mio non è un lavoro da studioso, bensì di chi è innamorato della propria terra, delle proprie tradizioni e cerca con tutte le proprie forze di immortalarle su tela, sperando di suscitare emozioni in chi guarderà quei quadri, affinché non cadano mestamente nel dimenticatoio!
D.: Oltre che pittorico il tuo impegno è a tutto tondo su Pozzuoli e Campi Flegrei?
R: certo, elencare tutti gli eventi, manifestazioni, convegni, mostre a cui ho partecipato oppure ho dato il mio contributo sarebbe un lavoro immane. Essendo innamorato della mia terra e della mia città, per quanto posso, cerco di tenere vivo l’interesse della cittadinanza, illustrando pubblicamente non solo la mia arte, ma soprattutto ciò che essa rappresenta e, in particolare, perché si ostina a rappresentare proprio quello. Come tanti, anch’io sono convinto che se non si rinverdisce nella gente la memoria storica del luogo in cui è nata e vive, quel luogo è condannato a morire. Torniamo per un attimo al Rione Terra, in particolare ai lavori di ristrutturazione incrementati negli ultimi tempi, vedi l’inaugurazione del duomo di Pozzuoli e i sottostanti scavi archeologici: più volte, pubblicamente, in presenza delle autorità e di chi era responsabile dei lavori di recupero della rocca, ho sbattuto i pugni sul tavolo, contestando che i lavori si stavano facendo senza amore e, in qualche caso, obliando la memoria storica – vedi le cappelle votive del rione -; suggerendo che nel progetto di riqualificazione si prevedesse di riproporre nel suo stato originale un antico “basso” in modo da consentire alle generazioni future di avere modo di vedere come si viveva negli anni addietro lassù. Invece, nulla. A scanso di equivoci, sia chiaro che io non ho niente contro ciò che diventerà domani il Rione Terra. Solo che avrei gradito si salvaguardasse meglio la sua originalità per non alterarne, o addirittura cancellarne  la storia e di esempi ce ne sarebbero tanti. Prendiamo l’ex palazzo Migliaresi. Io ho avuto la possibilità di visionare documenti in cui la presenza di palazzo Migliaresi risale addirittura al 1300. Bene: oggi palazzo Migliaresi è un palazzo vecchio di vent’anni: della struttura originale non è rimasto nulla; in  pratica un falso storico.
D.: spostiamoci per un attimo sull’annosa questione relativa all’abbandono e al degrado in cui versano diversi siti archeologici di Pozzuoli e dei Campi Flegrei. Anche questa vergogna sarebbe conseguenza del disamore che alcune persone nutrono verso il territorio?
R.: disamore e interessi economici sicuramente hanno determinato negli anni che alcuni siti archeologici fossero privilegiati rispetto ad altri. E ciò mi ferisce profondamente, non solo come puteolano ma prima di tutto come cittadino del mondo. Mi chiedo come certa gente non si renda conto che la salvaguardia del patrimonio archeologico, non solo garantisce la memoria storica di un territorio ma può farne la sua fortuna economica. Non di pochi ma di tutti! Prendiamo la strada romana e la fiancheggiante necropoli ricca di colombari, ipogei, e mausolei, del tutto abbandonata, del Ponte della solfatara, che si prolungherebbe per circa tre chilometri, fino a incontrare quella di via Celle fino a San Vito. O la Stadio di Antonino Pio, o le Taberne di via Luciano. Senza contare l’anfiteatro Flavio, la Grotta di Cocceio e la pseudo grotta della Sibilla sul lago d’Averno… È mai possibile che non ci si renda conto che il ripristino di questi siti possa fungere da grande catalizzatore turistico al punto che Pozzuoli potrebbe competere con Pompei? Possibile che mentre a Verona, nell’arena, per tutto l’anno organizzano spettacoli di ogni tipo con un ricco cartellone di livello internazionale, nell’anfiteatro di Pozzuoli, dove in un recente passato si sono organizzati spettacoli con artisti di calibro internazionale, ormai da anni non si riesca a organizzare nulla? Possibile che in questa città debba vigere la filosofia del turismo “zeppole e panzarotti”?…
D.: sarebbe a dire?
R.: se il sabato e la domenica sera scendi a Pozzuoli, guardandoti intorno, hai la sensazione di trovarti nella più grossa friggitoria d’Europa. Per carità, mi rendo conto che ai tanti ristoratori che svolgono l’attività in piazza e nel centro storico, ciò va benissimo. Quello che mi fa rabbia è che gli stessi dovrebbero capire che se la città si rivalutasse turisticamente, attirando un turismo di livello superiore, loro non ci perderebbero nulla. Anzi ci guadagnerebbero in quanto i turisti che verrebbero non sarebbero quelli del “magna e fuggi”, che spesso provocano anche problemi di ordine pubblico, ma persone interessate a tutto il contesto storico/culturale del luogo , non solo all’aspetto culinario.
D.: progetti per il futuro?
R.: sto preparando una raccolta di tavole in cui illustro la Pozzuoli scomparsa, ovviamente supportato da un approfondito lavoro di ricerca in quanto la storia di un luogo non la si può abbandonare alla fantasia o al sentito dire.
Saluto Antonio Isabettini, nei pressi del porto di Pozzuoli, ricordandogli quanto detto in convegno presso l’ex convitto delle monachelle ad Arcofelice: “dopo avermi ascoltato, se soltanto uno di voi inizierà a far sue notizie e informazioni, avvicinandosi con amore al territorio, potrei dirmi soddisfatto” . Certo, Vincenzo : in questa società dove sembra si faccia di tutto per sedare la memoria delle persone,  dove pensare con la propria testa sempre più spesso equivale a un crimine, il nostro messaggio di artisti viene recepito da uno su mille, possiamo già essere soddisfatti!