A PASSEGGIO CON LUISA DE FRANCHIS

Di seguito la versione integrale dell’intervista pubblicata su comunicaresenzafrontiere.it

Luisa De Franchis, scrittrice e poetessa, ha pubblicato quattro raccolte di poesie – OGGI FINALMENTE HO TROVATO IL CORAGGIO, UN PO’ MARIA UN PO’ MADDALENA, AVVOLTA DA UNA RETE DI EMOZIONI, OLTRE IL MURO UN SORRISO. Collabora con le testate giornalistiche DONNA FASHION NEWS, REPORT CAMPANIA, CAPRI EVENT. Tiene corsi di scrittura creativa per ragazzi ed è docente di poesia presso l’Università Popolare di Pozzuoli.

L’intervista che segue è stata fatta in maniera estemporanea durante un incontro fortuito per le vie di Pozzuoli.

Luisa da un po’ di tempo stai insegnando poesia all’ “Università Popolare” di Pozzuoli. Ci spieghi come nasce questo tuo ruolo di docente?

È nato sette anni fa per incarico istituzionale da parte del dottor Alfonso Trincone allora Assessore alla Pubblica Istruzione al Comune di Pozzuoli: dopo aver letto un mio libro, mi chiamò per sapere se ero disponibile a organizzare e coordinare un laboratorio di scrittura creativa a livello scolastico. Fu così che prese vita il concorso BRICIOLE DI EMOZIONI a cui partecipano tutte le scuole puteolane primarie, secondarie e superiori. Da sette anni lo organizzo e presento avvalendomi di una squadra di collaboratori che mi sostengono con entusiasmo e impegno. Considera che ogni anno il carico di elaborati da esaminare è di circa seicento poesie. Un lavoro notevole ed estenuante, ma che non ci pesa!

Che cosa rappresenta per te la poesia?

Per me la poesia è vita, ossia la possibilità di poter elaborare in versi i vissuti miei e di quelle donne che decidono di raccontarmi i propri dolori, sofferenze, umiliazioni. Donne che hanno subito violenza e attraverso me trovano un canale che gli consente di liberarsi dal peso che gli grava sull’animo, rendendo pubbliche in maniera ufficiosa le loro storie di vita. Empaticamente faccio mie le loro emozioni, trasferendole in versi in maniera tale che, leggendo poi le mie poesie possano ritrovare se stesse nella tranquillità dell’anonimato. Una forma di resilienza: attraverso la poesia trovano il loro riscatto!

Quando nacque la tua passione per la poesia?

Sui banchi di scuola quando ero adolescente: conservo ancora i diari in cui le annotavo. Il mio primo libro di poesie raccoglie molte di quelle emozioni giovanili.

Nell’area flegrea sei conosciuta e apprezzata, pur non essendo la poesia di facile approccio per il pubblico…

Io invece credo averla resa tale perché ne faccio un discorso riguardante versi sciolti con temi liberi dove i ragazzi possono spaziare, senza fossilizzarsi su un argomento specifico. E ciò non è difficile perché credo che, soprattutto oggi, i giovani abbiano desiderio e bisogno di raccontarsi. Attraverso i miei laboratori di scrittura creativa offro loro l’opportunità per farlo. Così come la stessa possibilità la concedo alle signore che partecipano ai miei corsi di poesia all’Università Popolare. L’ho già detto prima, la poesia come terapia per ritrovare se stessi!

Il tuo approccio poetico è istintivo o meditato? Scrivi di getto o elabori i pensieri prima di metterli su carta?

Io scrivo dappertutto, nel senso che, seppure stessi guidando la macchina, se mi venisse un’idea, un pensiero, uno spunto mi fermo e prendo appunti su un qualsiasi pezzo di carta mi trovi in quel momento a portata di mano. A volte scrivo perfino sulle mani pur di non disperdere l’idea!

Dai una definizione alla tua poesia

Un messaggio!

Che tipo di messaggio?

Un messaggio da decifrare perché spesso nelle mie poesie credo di andare di là dalla poesia stessa. Nel senso che quello che si percepisce in maniera immediata non è realmente ciò che volevo intendere.

Significa che le tue poesie racchiudono una chiave anagogica?

Esattamente!

Tu sei appena uscita vittoriosa da un’esperienza di vita difficile: ti sei confrontata in maniera determinata e positiva con un carcinoma mammario. Pensi che la forza per superare tale scoglio senza mai cedere allo sconforto possa avertela data la tua vivacità poetica?

Assolutamente sì! Per fronteggiare questo drago ho sfruttato tutte le mie capacità umane. Personalmente sono convinta che ognuno di noi è dotato dalla vita di un kit per contrastare le avversità che incontrerà sul proprio cammino esistenziale. Io questo kit l’ho utilizzato e potenziato. Ho avuto la fortuna di essere accompagnata da ottimismo ed energia, spostando la mia attenzione dal problema alle mie tante attività artistiche e questo ha sminuito il mostro riducendolo a un topolino!

Che suggerimento daresti a quanti decidano di avvicinarsi alla poesia?

Di guardare in se stessi e con altri occhi la vita perché essa ci offre infiniti spunti per scrivere. Sta a noi cogliergli. Ad esempio, noi ora, mentre parliamo, stiamo passeggiando lungo un viale alberato. Anche le foglie di questi alberi o i fiorellini che vi spuntano possono generare emozioni. Bene, dove c’è emozione c’è poesia!

Progetti?

Per il futuro mi sento fortissima! Ho tanti progetti in pentola tra cui la pubblicazione della mia quinta raccolta di poesie per Natale.

Come donna ti senti realizzata?

Io amo la mia professione: lavoro nella direzione amministrativa di un centro di riabilitazione neuro/psicomotoria. Ho poi la fortuna di potermi esprimere attraverso la poesia; ho la fortuna di avere un bel compagno; ho la fortuna di avere due figli splendidi. E sono viva! Che altro potrei desiderare di più dalla vita?

 

LUX IN FABULA PRESENTA IL SAGGIO DI SALVATORE BRUNETTI “DIALETTO PUTEOLANO”

Di seguito la versione integrale dell’articolo pubblicato su comunicaresenzafrontiere.it

Sabato 18 maggio per la rassegna QUATTRO CHIACCHIERE CON L’AUTORE, alle ore 18 da Lux In Fabula, a Pozzuoli, in Via Rampe dei Cappuccini 5, si presenterà “DIALETTO PUTEOLANO – Saggio storico grammaticale” di Salvatore Brunetti, edito da LUX IN FABULA.

Il testo, scritto dall’autore su insistenza di Roberto De Simone, è successivo a SCRIVERE IL DIALETTO NAPOLETANO pubblicato da Brunetti nel 2000.

Se il testo sul dialetto napoletano non poteva considerarsi una novità, visti i tanti volumi sull’argomento che lo avevano preceduto, certamente questo sul dialetto puteolano deve invece reputarsi una chicca in quanto, al di là degli interessanti riferimenti storici inerenti la derivazione e lo sviluppo della lingua napoletana e del dialetto puteolano, è strutturato come un vero e proprio testo di grammatica dove si parte dall’analisi dell’alfabeto, passando per la coniugazione dei verbi, finendo in appendice con testi esplicativi.

Il linguaggio asciutto e distaccato con cui Brunetti spiega al lettore l’utilizzo delle lettere straniere tipo la “j (gei) al posto della I italiana” per evitare “che più vocali si trovino strettamente legate in successione, nel dichiarato intento di rendere più fluida la parola”; o quando, parlando degli accenti, afferma, “nel dialetto puteolano il ricorso all’accento scritto è spesso imprescindibile per le numerose parole dalla dubbia pronuncia, che in quanto dialettali sono poco conosciute al di fuori dei propri ambiti”, rende la lettura del testo molto sobria e gradevole.

Non adottando mai né virtuosismi letterari né leziosità grammaticali che appesantirebbero il testo, l’autore si garantisce la disponibilità del lettore a seguirlo nell’excursus linguistico. E quando si sofferma a parlare degli avverbi e dei verbi, è molto piacevole affidarsi alle sue dissertazioni: “l’avverbio italiano misto dovunque non esiste in dialetto, al suo posto si usa: a r’aò và và, a r’aò stà stà, a r’ao èè, pe teutte parte.”; “Sarà invece opportuno evidenziare alcuni aspetti particolari del verbo dialettale puteolano rispetto allo schema generale delle declinazioni italiane” […] “ Peraltro, tale forma verbale, in quanto confondibile con il verbo peuzzà, che vuol dire emanare un cattivo odore, viene spesso evitata ed opportunamente sostituita anch’essa con il presente indicativo, utilizzando l’ausiliario avaé (avere). In tal modo, le frasi di cui sopra diventano, nell’ordine: – Aveit’ ‘a iettà ‘u sango (avete da buttare il sangue); – Aveit’ ‘a campà cient’anne (avete da campare cento anni)…

Seppure si tratta di un saggio storico-grammaticale, come recita il sottotitolo, di pregevole fattura, il libro di Brunetti si rivela allo stesso tempo una piacevole e divertente lettura capace di strappare più di un sorriso al lettore. Un merito questo non da poco, che va ulteriormente ad arricchire un lavoro ben fatto, a prescindere dalla piacevole amenità che lo pervade, che ogni puteolano e appassionato linguista dovrebbe conservare gelosamente nella propria biblioteca perché, se il napoletano è una lingua, il puteolano è una lingua musicale di origine marinaresca che andrebbe tutelata gelosamente così come andrebbe tutelato gelosamente tutto il patrimonio artistico/culturale puteolano. Viceversa, in molti casi, è lasciato alla mercé della vegetazione e dell’oblio che, cancellando il passato, sradicano dall’animo dei cittadini la memoria delle proprie radice, rendendoli storicamente orfani e dunque succubi di chiunque si presentasse al loro cospetto come novello salvatore della patria.

Il libro di Brunetti non racconta solo la nascita e lo sviluppo di un dialetto – meglio sarebbe dire “di una lingua”- ma si pone come estremo baluardo a ogni tentativo di estirpare dalla mente e dal cuore dei puteolani la storia delle loro origini conservate in quell’apparente linguaggio sguaiato e nelle fattezze tufacee di una storica rocca deturpata da un infinito rifacimento strutturale che non si sa se e quando verrà mai portato a compimento…

VIAGGIO IN UN CAMPO ROM: LE FOTO DI SALVATORE DE ROSA

Di seguito la versione integrale dell’intervista pubblicata su comunicaresenzafrontiere.it

Pozzuoli: Sabato 4 maggio, per la rassegna ARTinGARAGE, curata da Gianni Biccari, all’Art Garage di Pozzuoli – Parco Bognar 21, adiacente alla stazione Metropolitana FS – si è inaugurata la mostra fotografica “VIAGGIO IN UN CAMPO ROM”, di Salvatore De Rosa.

L’esposizione durerà fino al 17 maggio e sarà visitabile dal lunedì al venerdì dalle 10 alle 22; il sabato dalle 10 alle 20; domenica chiusa. Ingresso libero.

Per l’occasione abbiamo intervistato l’autore.

Salvatore le foto dove sono state scattate?

Nel campo rom di Giugliano, era il 2014. Fui contattato, insieme ad altri due fotografi, da Vincenzo Tosti, attivista della terra dei fuochi, per denunciare lo stato di degrado in cui versava la struttura di accoglienza edificata dal comune senza tenere conto dei parametri europei. Dalle foto si evincono le tante pozzanghere di fango sparse sul terreno, i blocchi di cemento messi a casaccio e poi recintati e le case, vere e proprie catapecchie.

Da dove nasce questa propensione a documentare fotograficamente la vita in un campo rom?

A me piace la street photography, la fotografia di strada, e quando fui contatto per scattare questo reportage di denuncia non mi feci sfuggire l’occasione. E, visto che era per una buona causa, mi sembrò di prendere due piccioni con una fava. Quando entrammo nel campo, poiché i bambini andavano a scuola, portammo loro penne e quaderni rendendoli felici.

Di mostre fotografiche sui rom ne hai fatte già altre o questa è la prima volta?

No, non è la prima volta. La stessa mostra che è esposta oggi all’Art Garage, già fu presentata al Comune di Casalnuovo e lo scorso ottobre all’UCOP a Roseto degli Abruzzi. Ne ho fatte anche altre di mostre sui rom, diverse da questa. Sempre qui all’Art Garage ho esposto Viaggio in India. E poi ho avuto modo di esporre al FIOF di Orvieto.

In molte foto i soggetti sono primi piani di bambini, una scelta voluta o casuale?

Premetto che i bambini rom hanno dei visi molto caratteristici, per cui si prestano alla fotografia, ma non è stata una scelta voluta, assolutamente! Però mi immagino oggi quegli stessi visi come saranno deturpati, visto che sono passati quasi cinque anni da quando li ritrassi. Poiché l’ambiente ti forma, considerando le condizioni disagiate in cui vivevano e la vita che facevano, oggi la bellezza di quei volti che traspare dalle foto si sarà certamente dissolta. Come è del resto accaduto alla “ragazza afghana” di McCurry: quando la fotografò bambina era bellissima; alcuni anni dopo era “orrenda” in quanto l’ambiente in cui viveva, caratterizzato da soprusi, sofferenza e dolore l’aveva deformata!

Come nasce la tua passione per la fotografia?

La passione per la fotografia è conseguente alla mia passione per i viaggi. Io viaggio da che avevo diciassette anni e fino a quarantadue anni non mi sono mai fermato. Inizialmente fotografavo me in quei posti, ad esempio mi ritraevo con l’autoscatto accanto a un monumento o con alle spalle un bel paesaggio. Col tempo ho poi capito che tipo di foto mi sarebbe piaciuto fare e mi sono preoccupato di mettermi nella condizione di soddisfare le mie esigenze artistiche attraverso lo studio.

Essendo appassionato di street photography i tuoi scatti sono rubati…

Infatti: la street photography si regge sui cosiddetti scatti rubati, o congelare con la foto momenti che ti colpiscono e vuoi immortalare.

Hai mai avuto problemi mentre scattavi che qualcuno non volesse essere ritratto?

Solo una volta a New York: vidi un personaggio particolare che si reggeva su una stampella e pensai di fotografarlo. Lui non gradì la mia attenzione e cercò di rincorrermi e colpirmi con la stampella. La foto venne male e la cancellai.

Tu vivi di fotografia?

No, purtroppo, anche se mi piacerebbe. Sono dipendente di un’azienda telefonica.

Dunque il tuo senso artistico è represso in un ufficio…

Diciamo che non mi dispiacerebbe avere un po’ più di tempo libero da dedicare alla fotografia. Ma va bene così, il lavoro prima di tutto!

Ti stai adoperando per far sì che la tua passione un giorni diventi un vero e proprio lavoro?

Sto investendo in corsi di studio e unitamente faccio mostre per farmi conoscere. Ho vinto diversi concorsi fotografici e la foto della bambina con la sigaretta qui esposta ha vinto il Nikon Photography photo challenge 2018 ed è tuttora esposta al terminal Uno di Milano Malpensa.

Sei un canonista o un nikonista

Sono un nikonista e un fujista. Oltre alla Nikon posseggo una compact Fujy con cui giro Napoli per scattare senza dare nell’occhio: essendo Napoli un teatro a cielo aperto, ti offre un’infinità di spunti come nessun’altra città al mondo.

Dammi una definizione generica di cosa è per te la fotografia e poi definisci la “tua” di fotografia.

Per me fotografare è bloccare/congelare dei momenti. Poiché amo la street photography, congelare dei momenti particolari che non si possono ripetere.

Progetti per il futuro?

Ce li ho ma per scaramanzia preferisco non sbilanciarmi.

 

IL VELO DI ISIDE: FIORELLA FRANCHINI RACCONTA IL SUO ROMANZO

Di seguito la versione integrale dell’articolo pubblicato su comunicaresenzafrontiere

Sabato 4 maggio, per la rassegna QUATTRO CHIACCHIERE CON L’AUTORE, da Lux In Fabula si è presentato il romanzo storico IL VELO DI ISIDE, di Fiorella Franchini, edito da Homo Scrivens. Ambientato nel 77 d. C., il racconto narra l’impossibile storia d’amore tra Cassia Livilla, sacerdotessa di Iside, e Valerio Pollio Isodorus, navarco della flotta romana di stanza a Miseno, cui si intreccia un piano terroristico finalizzato allo sterminio della classis pretoria misenensis e all’uccisione dell’imperatore Vespasiano durante le celebrazioni di apertura della nuova stagione di navigazione.

Servendosi di un linguaggio semplice e diretto, tipico di chiunque faccia giornalismo – l’autrice è giornalista/pubblicista – la Franchini ha illustrato in maniera dettagliata ai presenti in sala, passo dopo passo, la genesi del racconto e l’enorme lavoro di ricerca storica che ha dovuto compiere affinché la trama assumesse una struttura solida e convincente che consentisse al lettore di sentirsi proiettato nell’epoca in cui si svolgono i fatti.

Essendo Cassia Livia sacerdotessa d’Iside, l’autrice ha dovuto svolgere anche uno studio approfondito sul culto di Iside, importato a Roma quando l’Egitto divenne provincia romana, arricchendo la trama con un pizzico di magia iniziatica che accresce il pathos narrativo, rapendo il lettore nelle maglie dell’intreccio facendolo sentire a sua volta permeato dal velo di Iside.

Senza mai cadere nella retorica, rischio di tutti gli scrittori, in particolare di quanti si cimentano con un romanzo di forte impatto evocativo qual è IL VELO DI ISIDE, dove la forza descrittiva della narrazione è determinante per far presa sul lettore, così come è asciutta e distaccata nello scrivere, la Franchini si è dimostrata altrettanto equilibrata nelle vesti di oratrice, catturando su di sé l’attenzione del pubblico in sala  dall’inizio alla fine della serata, senza mai stancarlo.

Un ottimo preambolo pubblicitario per il volume e, soprattutto, un’ottima vetrina per l’autrice la quale non cerca di stupire, ma semplicemente di raccontare una storia quanto mai verosimile tanto da indurre a chiedersi se Cassia Livia e Valerio Pollio Isodorus sono frutto della sua fantasia o personaggi esistiti per davvero; così come tutta la vicenda narrata appare quanto mai reale grazie a una scrittura fluida e accattivante che la tesse magistralmente parola dopo parola, rigo dopo rigo.

Questi dubbi li solleva solo un vero scrittore. Fiorella Franchini dimostra di esserlo!

 

ANTONIO MANNO E LE SUE “STORIE” ALL’ART-GARAGE DI POZZUOLI

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Di seguito la versione integrale dell’intervista pubblicata su comunicaresenzafrontiere

Pozzuoli: Sabato 13 aprile, per la rassegna ARTinGARAGE, curata da Gianni Biccari, all’Art Garage di Pozzuoli – Parco Bognar 21, adiacente alla stazione Metropolitana FS – si è inaugurata la mostra fotografica “STORIE”, di Antonio Manno.

L’esposizione durerà fino al 3 maggio e sarà visitabile dal lunedì al venerdì dalle 10 alle 22; il sabato dalle 10 alle 20; domenica chiusa. Ingresso libero.

Per l’occasione abbiamo intervistato l’autore.

Antonio quando hai scoperto la passione per la fotografia?

All’età di sedici/diciassette anni ho iniziato i primi timidi approcci. Poi a ventidue anni ho avuto l’opportunità di andare a lavorare a La spezia e in quei luoghi di una tale bellezza, come Le Cinque Terre e i tanti borghi marinari, per me sconosciuti, ho iniziato a fotografare per mostrarli ai parenti e agli amici quando tornavo a Napoli. Ovviamente non mi limitavo a fotografare i luoghi ma tra i miei soggetti rientravano anche le persone.

La tua mostra qui all’Art Garage si intitola STORIE, esattamente che tipo di storie?

Le storie della gente! Credo che dietro a ogni ritratto o scena che ritrae l’ambiente di lavoro o di vita di una persona ci sono tante storie. Principalmente la sua storia e quella di chi vive con lei, familiari o amici. Cercare di raccontarle attraverso uno sguardo, uno scatto. Ma anche attraverso il conoscersi prima di scattare la fotografia in quanto credo che prima dell’istantanea debba nascere un rapporto di fiducia tra il soggetto e chi lo ritrae.

Che tipo di approccio utilizzi per fotografare gli sconosciuti?

I miei scatti non sono i cosiddetti “scatti rubati”, non mi piace fotografare di nascosto una persona! Anche perché “rubare” una foto significa che il soggetto non sta guardando in camera e, come dice Ferdinando Scianna, “il ritratto è quando uno ti guarda”. Personalmente chiedo sempre alle persone se posso fotografarle e difficilmente mi rispondono di no. Forse perché ho un bel modo di avvicinarle…

Tu vivi di fotografia o di tutt’altro?

Sono impiegato civile presso il Ministero della Difesa, faccio il tipografo dall’età di dodici anni. Praticamente non ho mai smesso.

Auspichi di poter vivere un giorno di fotografia o preferisci rimanga un hobby?

Premesso che è difficile vivere di fotografia, a meno che non ti dedichi alle foto di cerimonia, mi piacerebbe che la mia fotografia fosse riconosciuta nel tempo. Non mi interessa arricchirmi con la fotografia, per quanto i soldi siano molto importanti, ma vorrei lasciare un’impronta di me come fotografo, anche se ciò accadesse negli anni a venire.

Preferisci fotografare solo in bianco e nero o alterni anche con il colore?

Fotografo anche a colori, ma credo che la vera fotografia sia in bianco e nero. Il colore, come molti sostengono, e io mi associo, distrae tanto: l’occhio di chi guarda si perde nelle sfumature cromatiche. Nel bianco e nero invece è il soggetto che catalizza lo sguardo del pubblico. Ovviamente ci sono poi foto che ad alcuni possono dire molto e ad altri nulla, sia fossero a colori o in bianco e nero, ma è un fatto squisitamente soggettivo che però non va trascurato.

Sei solito trattare le foto con Photoshop o preferisci lasciarle così come sono?

Se la foto mi convince così com’è, non la ritocco. Diversamente utilizzo Photoshop. Va però detto che essendo Photoshop un programma infinito, io ne conosco l’utilizzo solo per il 4-5%. Ossia per quello che mi serve a trattare una fotografia come quando si stampava in camera oscura.

Riguardo i soggetti da fotografare, hai preferenze o spazi senza confini?

Guardando le foto esposte ti accorgi che i soggetti ritratti sono per lo più persone anziane, ossia individui che secondo me hanno molto da raccontare avendo vissuto tanto. E poi, rispetto a un adolescente o a un trentenne per i quali l’apparenza ha un valore primario, una persona anziana non ha nulla da mascherare e dunque si mostra così com’è, senza “veli” fisici e morali.

Nelle tue foto risaltano molto le rughe sui volti dei soggetti, che cosa rappresentano per te le rughe?

Un fatto, una storia. Credo che le rughe siano la scrittura dell’esistenza umana. Verso di loro nutro una sorta di riverenza, ma non mi sognerei mai di ritoccarle per marcarle. Se lo facessi è come se alterassi un bel romanzo.

Da quando il digitale ha spodestato l’analogico, continui a stampare come facevi un tempo o hai abbandonato?

No, non stampo più, i costi di una stampa digitale sono abissali! Seppure pare che lentamente stia ritornando la moda del rullino in bianco e nero e di stampare in camera oscura. Magari nel tempo tornerò a farlo anch’io. Per ora, no. Ma ammetto che il fascino di veder “nascere” una foto in camera oscura non te lo toglie nessuno, è come veder nascere un figlio!

Hai già scattato la “foto della vita”?

Ci sono dieci fotografie che amo più di tutte, che sento più mie. Ma preferisco non averla ancora scattata, questo è per me una grande motivazione per fare sempre meglio.

C’è un momento che avresti voluto immortalare con uno scatto e che invece hai omesso di farlo?

Tantissimi! Uno in particolare: nel 2007 sono stato ad Auscwitz. Uscendo da un blok ad Auswitz 1 vidi in un angolo di marciapiede quattro ragazzi seduti che piangevano. Fui tentato di scattargli una foto, mi trattenni per rispetto del dolore che stavano vivendo in quel momento. Magari, se l’avessi scattata, quella sarebbe potuta essere la foto della vita…

Qual è il sogno di Antonio Manno fotografo?

Una pubblicazione con le mie foto.

Questa è la prima mostra che fai?

La prima dopo più di dieci anni.

Perché la decisione di ricomparire in pubblico dopo tanto tempo? Cosa ti ha spinto a farlo?

Pubblico molto sui social; la mia pagina Facebook è accessibile a chiunque in quanto credo che la fotografia, ma penso che il discorso possa estendersi a qualsiasi forma d’arte, vada condivisa. Per cui le mie foto, seppure virtualmente, sono sempre visibili da tutti. Ma stamparle, toccarle, vederle esposte un metro da me, per giunta in questo formato, mi fa sentire bene. È una bella scarica di adrenalina!

Progetti per il futuro?

Mi godo il momento!

 

Vincenzo Giarritiello

ANTONINO TALAMO: COME TRASFORMARE IL CORPO IN STRUMENTO DI PERCUSSIONE

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Di seguito la versione integrale dell’articolo pubblicato su comunicaresenzafrontiere

Pozzuoli – Serata dai ritmi intensi, tipicamente sudamericani, quella che si è svolta sabato 13 aprile da Lux In fabula: per QUATTRO CHIACCHIERE CON L’AUTORE, il multipercussionista Antonino Talamo, classe 1978, ha presentato il libro BATUQUE NA MAO, vero e proprio manuale per utilizzare il proprio corpo come strumento di percussione da suonarsi rigorosamente con le mani.

Contrariamente a quanto si potrebbe presumere vista l’apparenza frivola dell’argomento, in maniera molto professionale l’artista, che ha alle spalle un bagaglio di esperienze musicali di tutto rispetto – nel 2000 ha fatto parte del gruppo LA CONTRADA DI LUCIANO RUSSO; dal 2006 coordina il laboratorio di percussioni corporali BATUQUE NA MAO, da cui appunto il titolo del libro; dal 2012 al 2018 ha collaborato con la manifestazione teatrale ALTOFEST; nel 2017 con IL POZZO E IL PENDOLO e I DUELLANTI; nel 2018 con DIGNITA’ AUTONOME DI PROSTITUZIONE a Cinecittà – ha spiegato ai presenti in sala come fare per trasformare il proprio corpo in strumento di percussione e come ciò consenta agli individui un’ulteriore scoperta di se stessi.

Illustrando quali modalità adottare per far sì che i vari organi e arti del corpo – gambe, braccia, torace, bocca – si prestino all’utilizzo musicale, Talamo ha altresì spiegato che tale approccio corporale è un’ottima premessa empatica con il prossimo in quanto la consapevolezza che il corpo fisico possa prestarsi a un utilizzo diverso da quello canonico presuppone un approccio mentale di notevole elasticità; quindi coloro che riescono a entrare in questa logica altresì sono capaci di comunicare tra loro con particolare intesa essendo accomunati da una visione alternativa e alta del proprio corpo rispetto alla visione comune.

Nel suo libro Talamo non si limita semplicemente a darci delle indicazioni tecniche, ma coglie l’occasione per aprirci un varco in un mondo a noi del tutto ignoto, di stampo tipicamente sudamericano, per lo più brasiliano, con ripetuti e affascinanti richiami magici, che meriterebbe d’essere sondato con profondità e rispetto.

Attraverso il suo libro il musicista ci dice come fare!

 

Vincenzo Giarritiello

“IO SILANO…CHI SONO?” GUGLIELMO MOSCHETTI RACCONTA IL SUO ROMANZO DA LUX IN FABULA – POZZUOLI

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Serata davvero particolare quella di sabato 6 aprile nella sede di Lux In Fabula, a Pozzuoli, dove si è presentato il romanzo IO SILANO… CHI SONO? di Guglielmo Moschetti, edizioni GM.

 

Poliziotto in pensione con la passione della scrittura, prima di entrare nel merito del testo, l’autore ha tracciato in maniera certosina il proprio passato professionale, illustrando ai presenti i propri successi investigativi con l’ausilio di un filmato composto da un collage di foto e articoli di giornali dell’epoca relativi alle varie operazioni di polizia cui Moschetti ha preso parte durante la lunga carriera di poliziotto, spesso servendosi dell’intuito.

Con fare appassionato l’autore si è soffermato su ogni singolo fotogramma, raccontando nei dettagli l’operazione di polizia cui si riferiva, citando i colleghi e i superiori che vi avevano partecipato, dimostrando tra l’altro una memoria di ferro.

Tale premessa introduttiva gli è poi servita per spiegare il motivo per cui è nato il libro e i tanti altri che ha scritto, tra cui diversi manuali dell’ABC investigativo per quanti decidessero di diventare guardia giurata.

In tutte le sue opere, sia saggi che narrativa, Moschetti ripropone sempre uno spaccato del proprio passato professionale a dimostrazione che un autore, quando crea, non può prescindere dal trarre ispirazione dalla vita.

Appassionato di fantascienza, in particolare delle opere di Peter Kolosimo, Moschetti ha trasposto nel romanzo, oltre al suo passato di poliziotto, la passione per la fantascienza dando vita a un thriller fantascientifico il cui protagonista, Silano, è un agente al soldo di un’agenzia per la sicurezza del pianeta da cui riceve ordini telepaticamente: “Inviato a Napoli per una nuova missione” Silano si imbatte in un uomo che sta per suicidarsi….

Il romanzo, caratterizzato da una scrittura fluida e da una trama ben strutturata, è un susseguirsi di colpi di scena con un finale a sorpresa.

Buona Lettura!

Vincenzo Giarritiello

ANTONIO IOVINO SI RACCONTA: “IL GRUCCIONE”, UNA STORIA LUNGA OLTRE 100 ANNI

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A seguire l’intervista integrale all’imprenditore Antonio Iovino, titolare dell’agriturismo IL GRUCCIONE, pubblicata su comunicaresenzafrontiere.it

Per quanti amano gli agriturismi segnaliamo IL GRUCCIONE, sito a Pozzuoli in Via San Gennaro 63; tel. 0815206719. Posizionato sulla sommità della collina delimitante la strada che da Napoli si inerpica all’Accademia Aereonautica di Pozzuoli per poi declinare a capofitto verso il capoluogo flegreo, Il Gruccione si affaccia, all’esterno, sul mare, offrendo un panorama da sogno e, all’interno, sul cratere di Agnano.

Oltre a gustare i piatti tipici della tradizione flegrea e Puteolana cucinati con prodotti autoctoni, i clienti hanno l’opportunità di assaggiare l’ottimo vino delle Cantine Antonio Iovino, acquistabile presso il punto vendita aziendale unitamente a tutta una serie di prodotti agricoli di rigorosa produzione locale. Per conoscere il segreto del successo di questa realtà economica flegrea, abbiamo intervistato il proprietario Antonio Iovino.

 

Come nasce IL GRUCCIONE?

Nasce dopo un lungo percorso di lavoro familiare protrattosi per oltre un secolo. La mia famiglia produce vino dal 1892. Prima mio nonno e poi mio padre producevano il cosiddetto “vino del contadino”: producevamo uve di Piedirosso e Falanghina che successivamente imbottigliavamo completando la filiera vinicola. Nel 2003 il sottoscritto ha imbottigliato la prima bottiglia di vino DOC Antonio Iovino. Ho il marchio DOC dei Campi flegrei e rientro nel disciplinare del DOC dei Campi Flegrei, per cui il marchio è registrato. Abbiamo iniziato prima con l’attività vitivinicola, poi si è affiancata quella agricola con la semina di prodotti di stagione. Da qui è nata l’idea di affrontare la sfida legata all’agriturismo, cucinando i nostri prodotti e abbinandoli alle pietanze del nostro menù.

Le vostre ricette sono tipiche dei Campi Flegrei o “toccate” anche altre realtà culinarie?

Per quanto ci riguarda siamo legatissimi al territorio flegreo, quindi ci preoccupiamo di attenerci scrupolosamente alla tradizione flegrea. Nello stesso tempo abbiamo dato vita a una cucina rivisitata, che di base si attiene a quella del territorio, adattandola a modo nostro. Ad esempio, quando è il periodo dei mandarini, ci siamo inventati uno spaghetto con mandarini e alici del golfo di Pozzuoli che è una bontà, glielo assicuro!

Pozzuoli e i campi flegrei richiamano al mare: la vostra cucina tratta solo piatti di terra o anche di mare?

Come lei vede le nostre terrazze si affacciano non solo sul golfo di Pozzuoli ma anche su quello di Napoli. Per cui in ambito culinario siamo fortunati perché possiamo offrire pure piatti di pesce, ma esclusivamente pesce azzurro. Ossia pesce povero e del golfo di Pozzuoli: alici, parametro, cozze flegree abbinandoli ai nostri prodotti agricoli.

Il pesce lo proponete in qualunque stagione o solo in determinati periodi dell’anno?

Solo in periodi particolari e con il pescato consentito del Golfo di Pozzuoli!

Quindi se uno volesse venire da voi per gustare un piatto di pesce deve venire in estate…

Sì perché quello è il periodo delle cozze, delle alici puteolane e del parametro.

Tra i tanti prodotti tipici del territorio flegreo, negli ultimi tempi si sta riscoprendo la cicerchia, voi la trattate?

La cicerchia è un legume tipicamente bacolese. Noi siamo legati alla tradizione puteolana, trattiamo altri tipi di legumi, ad esempio il fagiolo piccolo dei campi flegrei.

Suo figlio Giuseppe è chef: la decisione di estendervi dalla produzione vinicola alla ristorazione è una conseguenza della scelta professionale di suo figlio, oppure Giuseppe ha preso spunto dall’evoluzione dell’azienda di famiglia?

Essendo giovane mio figlio ha tratto spunto e vantaggio dall’iniziativa imprenditoriale che abbiamo intrapreso a livello familiare. Da anni faccio parte di un’associazione nazionale della Coldiretti. Provenendo da una famiglia contadina, anche mio figlio ha nell’animo la passione per la terra ed è stato eletto nella Coldiretti come un agri-chef. Inoltre è vicepresidente regionale degli agriturismi campani.

Sul lago d’Averno avete rilevato uno storico vigneto che apparteneva a un glorioso marchio di vini flegrei che purtroppo non esiste più, cosa producete?

Prima di rispondere, faccio una premessa: i nostri vigneti sono tutti storici e rientrano in un disciplinare speciale della regione Campania. Siamo tre le prime dodici aziende storiche della Campania! Il vigneto del lago d’Averno cui lei si riferisce è un vigneto antico su cui sono piantate viti di 80/100 anni fa. Purtroppo una storica cantina che ha fatto da apripista nel settore dei vini flegrei ha chiuso e io ho voluto rilevare quei vigneti perché non morissero e continuassero a dare l’ottimo vino che tutti conoscono.

Voi producete solo Piedirosso e Falanghina o anche altri tipi di vini?

Esclusivamente Piedirosso e Falanghina DOP dei Campi Flegrei. Se lei prende una bottiglia del nostro vino “Cantine Iovino Antonio”, sull’etichetta leggerà, “prodotto all’origine”. Significa dalla vite alla bottiglia finita. Noi non compriamo uva, né commercializziamo vino e quant’altro. I prodotti che offriamo ai nostri clienti sono tipici del territorio e di nostra esclusiva produzione! I nostri vini hanno partecipato a importanti fiere, distinguendosi sempre per l’alta qualità: siamo stati al Vinitaly, al ProWine di Dusseseldorf, a Radici del sud a Bari. Lo scorso anno, tramite l’ambasciata italiana presso il Parlamento Europeo a Bruxelles, in occasione della festa della Repubblica Italiana, gli europarlamentari italiani, incluso il Presidente Tajani, hanno brindato con il nostro Piedirosso annata 2016! Oltre a questa bella soddisfazione che attesta la qualità dei nostri vini, un ulteriore attestato di qualità lo abbiamo avuto da Gambero Rosso e da Guido Veronelli. Senza contare i tanti articoli su riveste specializzate che testimoniano la bontà e la tipicità dei nostri vini.

Voi qui nell’agriturismo avete anche un punto vendita, qual è il prodotto che va per la maggiore?

Ovviamente il vino e poi tutti i prodotti ortofrutticoli stagionali. Lei quando viene a fare la spesa da noi non troverà mai delle primizie, come spesso accade altrove. Noi seminiamo, raccogliamo e vendiamo in base ai tempi di semina e di maturazione richiesti per natura dai singoli ortaggi. Ad Aprile abbiamo seminato il pomodoro puteolano e quello vesuviano con il pizzo. A marzo abbiamo seminato le zucchine che inizieranno a sbocciare verso giugno.

Quali sono i progetti per il futuro?

Migliorarci sempre come azienda vinicola in quanto anche il vino, come tutte le cose della vita, è in continua evoluzione. Rispetto ad altri marchi standardizzati nella loro produzione, annata per annata i nostri vini cambiano in quanto, essendo come azienda legati moltissimo al territorio e al clima, la nostra produzione vinicola è soggetta a questi fattori. Penso che il rispetto con cui ci rapportiamo alla natura, non forzandola nella maturazione, ma rispettandone i tempi di semina e germogliazione, garantisce la bontà dei nostri prodotti. Noi non sottomettiamo la natura alle nostre esigenze commerciali forzandola, bensì ci affidiamo completamente a lei. I nostri prodotti riflettono gli umori della terra. Devo dire che fino a oggi siamo stati ben ripagati!

Qual è il sogno di Antonio Iovino?

Che questo territorio, uno dei più belli al mondo, si sviluppasse turisticamente anziché limitarsi a essere transito obbligato per chi va alle isole, facendo conoscere finalmente nel mondo la bellezza dei campi flegrei!

Vincenzo Giarritiello

RELAZIONE TENUTA AL CONVEGNO “POZZUOLI E’ MEMORIA”

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Di seguito la relazione che ho tenuto venerdì 4 aprile al convegno POZZUOLI E’ MEMORIA, nell’ambito della rassegna “Giovedì Letterari al Museo del Mare” in svolgimento al MMN (Museo del Mare di Napoli).

Il video integrale del mio intervento.


Da ragazzino mi piaceva molto ascoltare le storie risalenti all’epoca della seconda guerra mondiale. In particolare mi piacevano quelle in cui si narrava di persone che avessero fatto qualcosa di speciale, ma di cui si era persa ogni traccia, le quali mi diventavano familiari grazie alla potenza affabulatrice dei narratori, quasi sempre i nonni. Pur conoscendole a memoria quelle storie, non appena mi si presentava l’occasione, chiedevo di raccontarmele di nuovo. Se mi si rispondeva “ma già la conosci”, replicavo, “mi piace, voglio sentirla ancora”.

Negli anni ho maturato la convinzione che ogni individuo, per quanto umile fosse la sua condizione sociale, ha un’interessante storia personale da raccontare. L’importante è trovare chi sappia raccontarla e il mezzo per diffonderla.

In virtù di ciò, quando Carla De Ciampis e Fulvio Mastroianni mi proposero di collaborare con “Comunicare Senza Frontiere”, il loro sito web, accettai a patto che mi fosse concessa l’opportunità di dare voce non solo a persone di un certo spessore culturale e sociale, ma anche a quelle comuni. Fu così che mi inventai il ciclo di interviste che va ormai avanti da quasi un anno, durante il quale ho intervistato non solo artisti di professione tipo gli scrittori Davide Morganti e Nando Vitali, i registi Maria Di Razza e Sandro Dionisi, il cantautore Nicola Dragotto, la geologa Ann Pizzorusso autrice di TWITTANDO DA VINCI, una sorta di Codice Da Vinci in chiave scientifica, Gaetano Bonelli fondatore e curatore del Museo di Napoli,  il maestro d’arte Antonio Isabettini e Rosario Mattera, questi ultimi entrambi al nostro tavolo questa sera, solo per citarne alcuni senza far torto a tutti gli altri, ma anche a chi si diletta artisticamente o è impegnato nel volontariato, il cui operato passa sotto traccia perché non riesce a trovare i canali giusti che gli garantiscono la meritata visibilità e dunque la possibilità di lasciare nel tempo un’impronta di ciò che ha fatto al di là delle contingenze quotidiane.

Questo fu uno dei motivi per cui con Claudio Correale e Enzo Di Bonito decidemmo di dar vita alla rassegna QUATTRO CHIACCHIERE CON L’AUTORE. A essa hanno partecipato persone che svolgono tutt’altra professione per vivere, ma sono accomunate dalla passione per l’arte a trecentosessanta gradi. Si va da chi ama scrivere a chi dipinge, a chi fotografa, a chi si preoccupa di mettere in risalto aspetti storici del territorio ignoti ai più. È il caso di Aldo Cherillo che tenne un’interessantissima conferenza sul lago d’Agnano prosciugato pochi anni dopo l’unità di Italia, ma la cui esistenza è tutt’oggi testimoniata dallo sbocco a mare presso il Dazio di Bagnoli di un rigagnolo di acqua termale che per oltre un chilometro scorre sottoterra in un canale artificiale proveniente dalle terme di Agnano, inglobando lungo il suo percorso gli scarichi di molti edifici abusivi sorti negli anni, traducendosi in fogna, affogando la storia nella…

Poiché due più due fa quattro, approfittando della mia collaborazione con Comunicare Senza Frontiere, mi assunsi l’impegno di tenere una cronaca completa della rassegna, evento per evento, senza escludere di intervistare qualcuno dei protagonisti.

In breve ciò si sta rivelando di un’efficacia straordinaria per garantire visibilità ai partecipanti grazie alla condivisione attraverso i vari social, Facebook in primis, degli articoli e delle interviste fatti da me.

Contrariamente a quanto si pensa, i vituperati social non sono esclusivamente strumenti da aborrire a prescindere in quanto si prestano a un utilizzo sconsiderato, spesso criminale, da parte di molti frequentatori. Come qualsiasi strumento, la loro funzione è neutrale. A determinarne la “tendenza”, è sempre chi se ne serve.

È per me motivo di gioia, dopo aver pubblicato e condiviso un pezzo, essere contatto dai diretti interessati per ringraziarmi. La felicità che percepisco nella loro voce o la gioia che traspare dai loro sguardi mi ripagano ampiamente dell’impegno profuso nell’offrirgli una piccola vetrina.

Ancora oggi tante persone guardano con sufficienza o addirittura con scherno chi si adopera culturalmente, definendolo un illuso o addirittura un fallito. In pochi immaginano quanta fatica costi scrivere un raccontino di mezza pagina o una breve poesia che abbiano un senso. Pochi sono in grado di apprezzare l’impegno di chi dipinge o di chi fotografa. Oppure la tenacia e la pazienza di chi fa ricerche al fine di riportare alla luce e tenere viva la storia del territorio.

Il lavoro che sto svolgendo lo considero una sorta di archivio in cui raccolgo gli articoli e le interviste sia in rete che su carta, riproponendoli integralmente sul mio blog e stampandoli per poi conservarli in faldoni, affinché non vadano dispersi e dimenticati.

Il lavoro sinergico con Lux In fabula  e Comunicare Senza Frontiere è finalizzato non solo a far conoscere e dare voce a quanti a livello amatoriale si impegnano artisticamente e culturalmente, ma anche a lasciare nel tempo una testimonianza tangibile del loro lavoro.

Entrando nel merito del valore artistico dei protagonisti, personalmente mai stroncherò chi pratica l’arte per puro diletto seppure fosse evidente che non è  portato: praticandola a mia volta, so bene quanto valore abbiano il sostegno e l’incoraggiamento morale degli altri quando si decide di rendere pubbliche le proprie creazioni.

È vero, fare cultura è una cosa seria, e sicuramente c’è chi, pur non avendo un particolare talento artistico, si ostina a voler praticare l’arte a ogni costo in quanto facendolo trova una ragione di vita. Stroncare senza “se” e senza “ma” lo ritengo privare una persona della fiducia in se stessa, della speranza e della dignità, rischiando di gettarla in un baratro senza fondo da cui difficilmente risalirà.

A chi non ha le qualità necessarie per essere un nuovo Picasso, un nuovo Dante o un nuovo Henri Cartier-Bresson non si deve mai dire “lassa sta’, nun è arta toia!”. Bisogna invece spronarlo, dicendogli “bravo, si vede che hai talento. Affinalo con lo studio e con la pratica e vedrai che alla lunga anche tu otterrai dei buoni risultati!”.

Ovviamente così facendo si corre anche il rischio di imbattersi in chi invece pensa d’essere un novello Michelangelo o D’Annunzio, e, se solo ti permettessi di dargli dei consigli o di fargli delle annotazioni garbate per aiutarlo a crescere artisticamente, ti guarderà risentito dall’alto in basso come se tu non capissi a quale genio ti trovi davanti.

Chi si impegna con umiltà nel fare qualcosa di costruttivo per sé e per gli altri, a mio avviso va sostenuto sempre. Non gli si devono mai tarpare le ali, seppure vola basso. Offrirgli un supporto che gli garantisca di lasciare una traccia nel tempo di sé credo possa incentivarlo a coltivare e ad affinare il talento e, dunque, ad alimentare propria la crescita interiore perché diventi una persona migliore.

Nell’epoca attuale in cui c’è sovrabbondanza di mezzi di comunicazione, è paradossale che si dia spazio sempre ai soliti “noti”. Metterne qualcuno a disposizione anche degli “sconosciuti” affinché ci si possa ricordare di loro e di ciò che fecero, credo debba essere un dovere della società multimediale qual è la nostra.

Dare voce e visibilità a chi non riesce a ottenerle è quello che cerchiamo di fare con questo nostro lavoro.

Speriamo di riuscirci!

FEDERICO RIGHI E LE SUE FOTO SUI VIAGGIATORI DELLA CUMANA ESPOSTE A POZZUOLI

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Pozzuoli: Sabato 30 marzo, per la rassegna ARTinGARAGE curata da Gianni Biccari, all’Art Garage di Pozzuoli – Parco Bognar 21, adiacente alla stazione Metropolitana FS – si è inaugurata la mostra fotografica “I FLEGREI: a state of mind”, di Federico Righi. L’esposizione si protrarrà fino al 12 aprile e sarà visitabile dal lunedì al venerdì dalle 10 alle 22; il sabato dalle 10 alle 20; domenica chiusa.

Per l’occasione abbiamo intervistato l’autore.

Federico la tua mostra si intitola, “I FLEGREI: A STATE O THE MIND”, ossia “i flegrei: uno stato mentale”, cosa vuoi esattamente intendere con ciò?

Viaggio moltissimo nei treni della cumana che, soprattutto quelli vecchi, evocano dei pensieri che riportano all’epoca del grand tour. Riallacciandomi al discorso del grand tour ho immaginato i flegrei non come un popolo, ma come una condizione mentale che fosse la stessa di chiunque a quell’epoca venisse nei campi flegrei e restava affascinato respirandone l’aria, ammirandone i colori e i sapori, emozionalmente rapito dai sussulti della terra, come accadde a Goethe durante il suo viaggio in questi luoghi.

Quindi una condizione mentale inconscia…

Sì, ma che si riflette nei volti, negli sguardi delle persone. Secondo me il flegreo è una sorta di dio sceso in terra che, qualunque cosa gli accada, ha la forza di reagire, di combattere, di ricominciare.

I tuoi scatti sono rubati, o coordinati con i soggetti ritratti?

I miei scatti seguono la scia della street photography che, secondo me, è la vera fotografia, ossia immortalare l’istante. Non a caso Cartier Bresson diceva, “la fotografia è il momento decisivo”. Occhio, cuore e mente si devono trovare sulla stessa linea dell’obiettivo e devono scattare quel momento anziché un altro. Io credo di aver abituato il mio occhio a guardare i movimenti degli sguardi delle persone e aver raggiunto una condizione tale da percepire quando è l’istante in cui posso scattare per coglierne l’essenza da imprimere per sempre sulla foto.

Ti è mai capitato che qualcuno si sentisse infastidito dall’essere fotografato?

Una sola volta e, ascoltate le ragioni, ho accettato di cancellare la foto dalla memoria.

La tua passione nasce da ragazzino o è maturata nel tempo?

Il primo scatto l’ho fatto con la macchina di papà a cinque anni. A undici già sviluppavo le mie fotografie. Quindi ho abbandonato per poi riprendere da grande seguendo il mio maestro Augusto De Luca, fino a tagliarmi un mio spazio al punto da essere riconosciuto dalla comunità fotografica.

Vivi di fotografia?

No, sono un funzionario dello stato. La fotografia è un hobby, se così si può dire, che mi ha dato e mi sta dando tante soddisfazioni.

Questa è la tua prima mostra?

Come personale, sì. In passato ho partecipato a diverse collettive. Faccio anche installazioni, come ad esempio quella di Aversa contro la violenza sulle donne che ebbe un buon seguito.

Che cosa rappresenta per te la fotografia?

Un elemento che porta il ricordo. La fotografia cristallizza l’istante rendendolo eterno! E poi è uno strumento per la documentazione per cui ha tante sfaccettare che spaziano dal reportage, alla narrativa, alla storia.

Prossimi progetti?

Le foto qui esposte mi sono valse il PREMIO AUTORE REGIONE CAMPANIA e hanno determinato che il prossimo congresso FIAF, federazione italiana associazioni fotografiche, si svolgesse al MAN di Napoli. E poi ho in preparazione diversi cose che vedranno la luce nei prossimi anni.

In bocca al lupo

Crepi!

Vincenzo Giarritiello