ALDO CHERILLO RACCONTA IL LAGO DI AGNANO

cjerillolux

Pozzuoli.

Forse non tutti sanno che un tempo all’interno della conca d’Agnano esisteva un lago, probabilmente formatosi nel X secolo, sulle cui sponde oltre alla pesca e alla caccia si praticava la coltivazione della canapa tessile: una volta raccolta e caricata sui carri, la fibra veniva trasportato alle fabbriche di Miano lungo una strada impervia che si estendeva da Agnano a via Terracina fino alla Loggetta, risalendo per Via Pigna, scollinando sui Camaldoli e giungendo a destinazione.

La bonifica del lago, ideata per fronteggiare i casi di malaria che d’estate decimavano la popolazione, fu progettata nel 1835 in epoca borbonica ma venne realizzata solo dopo l’avvento dell’unità d’Italia tra il 1865 e 1871. Quando l’invaso fu prosciugato, sul fondale vennero scoperte ben 72 sorgenti d’acqua sorgiva che vanificarono le speranze di chi aveva investito capitali in quel progetto per poter poi lucrare sul terreno bonificato.

Di tutto ciò e altro ancora ha parlato Aldo Cherillo sabato 16 febbraio da Lux In Fabula a Pozzuoli in QUANDO C’ERA IL LAGO DI AGNANO nell’ambito della manifestazione QUATTRO CHIACCHIERE CON L’AUTORE.

Supportato da immagini fotografiche e disegni tratti dal volume IL LAGO DI AGNANO di Libero Campana, storico locale residente sul Pendio di Agnano che del lago conosce vita morte e miracoli, per oltre un’ora Cherillo ha illustrato alla platea con una narrazione semplice e chiara, inframmezzando dotte dissertazioni a simpatici aneddoti, la storia del lago nel corso dei secoli, fino al suo svuotamento mediante la costruzione di un canale sotterraneo lungo un chilometro e mezzo che sbucava a mare, tuttora visibile nei pressi del Dazio a Bagnoli, il cui scavo costò un caro prezzo in termini di vite umane.

Sul lago sorgeva la famosa “grotta del cane” – un ipogeo artificiale, molto probabilmente un sudatorio delle antiche terme greche – oggi interdetta al pubblico, così denominata per via delle esalazioni venefiche di anidride carbonica che vi si diffondevano: essendo l’anidride carbonica più pesante dell’ossigeno, il gas si depositava al suolo per cui qualunque animale vi entrasse e respirasse restava tramortito.

Per fronteggiare la miseria, gli abitanti del luogo accompagnavano i turisti in visita alla grotta recando con sé un cane che facevano entrare nel cunicolo. Non appena l’animale vi accedeva e perdeva i sensi, lo immergevano nel lago perché si riprendesse. Da qui la leggenda che le acque del lago fossero “miracolose”.

Con la passione tipica degli autodidatti, Cherillo ha fatto scoprire ai presenti aspetti dei campi flegrei ignoti che meriterebbero di essere divulgati, magari organizzando visite guidate per non dimenticare che la conca di Agnano è un cratere vulcanico spento da millenni.

La natura vulcanica della zona è testimoniata dalle intense fumarole in località Pisciarelli e dalle gloriose terme di Agnano, un tempo fiore all’occhiello di Napoli, che meriterebbero il giusto rilancio a livello locale e nazionale tornando a fungere da volano turistico per un territorio ricco di risorse ma povero di menti imprenditoriali capaci di sfruttarle al meglio.

 

Vincenzo Giarritiello

VOCE ‘E SIRENA, IL GRIDO DI RABBIA DI SANDRO DIONISIO AL CINEMA SOFIA DI POZZUOLI

PressBook ita

Di seguito l’intervista integrale al regista Sandro Dionisio pubblicata su comunicaresenzafrontiere.it

La sera del 4 marzo 2013 un incendio doloso distrusse quattro dei sei capannoni che componevano Città della Scienza uno dei luoghi simbolo della cultura napoletana. Da quel tragico evento il regista Sandro Dionisio trasse spunto per il suo film VOCE ‘E SIRENA che sarà proiettato lunedì 4 marzo al cinema Sofia di Pozzuoli nel sesto anniversario dell’incendio. Per l’occasione lo abbiamo intervistato.

Sandro Voce ‘E Sirena è un grido di rabbia contro la distruzione di un luogo simbolo della cultura napoletana o contro la distruzione dell’intera città?

Entrambe le cose. Chiaramente il film nasce come reazione d’impulso all’atto vandalico: come tanti napoletani, anch’io vedendo in televisione le immagini del rogo mi indignai pensando che gli intellettuali napoletani dovevano reagire alla distruzione di quello che era uno dei luoghi di cultura più importanti di Europa. Di conseguenza scrissi di getto un film che raccontasse la protesta della civiltà civile contro quel gesto criminale non limitandomi a documentarlo né a dar vita a un’inchiesta per individuarne i colpevoli e il movente, ma ho cercato di far sì che l’incendio simboleggiasse la rovina della città. Nei secoli Napoli è stata oltraggiata e saccheggiata dalle dominazioni straniere e dai potenti di turno. Sopportare tutto ciò stoicamente va a onore dei napoletani.

Non pensi che paradossalmente ciò potrebbe essere invece inteso come una sorta di ignavia da parte dei cittadini?

No, decisamente. Piuttosto credo sia una forma di incapacità a strutturare la protesta in termini rivoluzionari

Ci vorrebbe un Masaniello…

Questa è proprio la frase che dice Sofia, una delle due protagoniste del film. Io rispondo di no, perché Masaniello non ha mai risolto i problemi di Napoli così come non li ha risolti la Pimentel de Fonseca e tanti altri eroi cittadini. Napoli è sempre stata salvata dalla coesione sociale, dal popolo unito. Secondo me gli eroi non fanno le fortune di un popolo.

Nel film ci sono due figure femminili, Patrizia interpretata da Cristina Donadio, Sofia da Rosaria De Cicco: una rappresenta la borghesia, l’altra il popolo, perché questa dualità?

Napoli è l’unica città europea in cui questi due aspetti sociali convivono in spazi minimi, che addirittura a volte invadono l’uno il campo dell’altro; e poi perché in questo modo il film si è avvalso di una dinamica particolarmente felice grazie alla straordinaria interpretazione delle due attrici cui si associa Agostino Chiummariello: se in un film i personaggi fossero tutti uguali la narrazione sarebbe monotona. Mentre credo che, avendo messo a confronto due anime diverse, sono riuscito a creare momenti di enfasi derivanti dal rogo. Ovviamente nel film ci sono anche aspetti comici perché spesso allegria e dolore camminano a braccetto a testimonianza dell’eterno dualismo esistenziale.

Perché hai scelto di girare un crossover, ovvero un mix tra film e documentario?

Il crossover somiglia a Napoli nel senso che questa contaminazione attiene al racconto che volevo portare alla luce: Napoli è una città contaminata per eccellenza, forse è la prima città multietnica del mondo. Non a caso in città abbiamo una fitta presenza di minoranze etniche che sono storiche. Napoli non è una metropoli lineare per cui bisognava girare il film con un linguaggio che mettesse in luce queste caratteristiche.

Possiamo dire che sei voluto uscire dagli stereotipi?

Diciamo che più che cercare di essere originale ho voluto essere aderente alla realtà. Quando una storia mi chiama – secondo me sono sempre le storie a offrirsi gli autori, non viceversa – e decido di mettermi al suo servizio, mi nascondo dietro di essa; divento invisibile evitando che si percepisca la mia incisività di regista in quanto non amo le regie muscolari il cui fine quasi sempre è quello di mostrare quanto si è bravi. Tutto questo non mi interessa. Per me la regia deve essere strumentale a quello che il film deve raccontare e in questo seguo le tracce di grandi maestri quali De Sica o Zavattini.

Dunque ti rifai al neorealismo…

Seppure il neorealismo è stato un movimento che è durato un breve arco di tempo,deve ritenersi come la vera rivoluzione del cinema mondiale. Personalmente cerco di pormi dietro la macchina da presa come facevano i maestri citati prima, in maniera sobria ponendo attenzione alla storia.

Nel film compaiono anche personaggi della cultura napoletana quali Aldo Masullo, Marino Niola, Enzo Moscato, ossia un mix culturale: perché questa scelta?

Perché volevo e voglio che gli intellettuali napoletani riflettessero e riflettano sul motivo di questa nuova ferita arrecata alla città; che, così come avvenne ai tempi del mio maestro Franco Rosi con Mani Sulla Città, la città esprimesse un pensiero su quanto è accaduto.

Quindi il film è anche una denuncia contro l’inazione degli intellettuali napoletani…

Assolutamente sì! Secondo me gli intellettuali napoletani, pur essendo spesso la punta di diamante dell’intellighenzia europea, hanno il grande difetto di non fare rete, per cui di non servire adeguatamente la città. Io ho messo il mio film al servizio di quest’azione collettiva a mo’ di trait d’union. Mi piacerebbe che gli intellettuali napoletani fossero più vicini l’uno all’altro in modo dare esito alle esigenze del popolo.

Da uomo di cultura e amante di Napoli come stai vivendo l’azione che la città sta intraprendendo verso gli immigrati dicendosi pronta ad aprire le porte del porto per farli sbarcare?

Su quest’argomento nel 2011 ho girato il film “Un Consiglio a Dio” dove Vinicio Marchioni interpreta un trovacadaveri che recupera da una spiaggia i corpi degli extracomunitari deceduti a mare durante il naufragio dei barconi della speranza. La mia opinione è che i migranti sono una ricchezza: come faremmo senza le ucraine che fungono da badanti ai nostri anziani e ammalati? Come faremmo senza i cingalesi e i cinesi che hanno portato un indotto economico fortissimo? Non dimentichiamo che al momento gran parte del nostro PIL è affidato ai guadagni delle persone di colore. Ormai è sancito che gli immigrati non sono solo disperati in fuga dalle guerre e dalla carestie ma sono addirittura imprenditori che portano risorse al nostro paese.

Dunque Napoli è obbligata ad aprirgli il proprio porto…

A imporglielo è la sua natura di città multietnica e patria di migliaia di emigrati all’estero!

Quali sono come regista le tue aspettative per il futuro?

Razionalmente mi verrebbe da dire nessuna perché, per quanto mi riguarda, ritengo che questo paese non abbia alcun futuro, soprattutto per i giovani: insegno cinematografia all’Accademia delle Belle arti a Napoli e ti dico che da insegnante sono molto preoccupato per il futuro dei miei ragazzi i quali esprimono bellezza e grande intelligenza. Tuttavia l’uomo di cultura che è in me rifugge da questo cinismo e reagisce esprimendo la propria arte perché fino a quando c’è alito nel corpo bisogna resistere e lottare affinché le cose cambino in meglio!

 

Vincenzo Giarritiello

INTERVISTA AL CANTAUTORE NICOLA DRAGOTTO

nicola-dragotto-720x580

A seguire l’intervista integrale pubblicata su comunicaresenzafrontiere

Sabato 2 marzo alle ore 21 presso ‘A PUTECA ‘E LL’ARTE (direttore artistico Vania Fereshetian), a Pozzuoli in via Provinciale Pianura 16, (di fronte la stazione di servizio BA.CO.GAS.), si terrà il concerto del cantautore Nicola Dragotto.

Per l’occasione gli abbiamo posto alcune domande sulla sua attività artistica.

Nicola sono trascorsi quasi due anni dalla pubblicazione del tuo primo disco L’ULTIMA CAUSA. In questo frangente cosa è cambiato in Nicola Dragotto artista?

Più che cambiato è maturato l’approccio verso la musica e un po’ verso il mondo che mi circonda. Penso di aver raggiunto una maggior maturazione e nello stesso tempo serenità nel rapportarmi con le problematiche esistenziali da cui trarre ispirazione e humus per le mie composizioni.

Dopo tanti anni in cui il tuo riferimento artistico è stato Giorgio Gaber – non a caso ti definivi cantattore – ti sei degaberizzato, come ti piace dire, dando spazio a te stesso: un’acquisizione di autostima o una scelta conseguente all’uscita del disco?

Gaber è stato un punto di partenza in quanto, riprendendo la mia strada artistica in età matura, avevo pensato bene di dedicarmi al teatro canzone per riannodare un filo conduttore col mio essere artista. Il degaberizzarmi è legato a un momento di presa di posizione nel volermi sentire cantautore nel senso classico della parola. Però devo dire che anche negli ultimi spettacoli che ho fatto sono riuscito a raggiungere quella che mi sembra la formula vincente: una via di mezzo tra cantautore e teatro canzone. Unisco, infatti, alle mie composizioni musicali anche dei monologhi tratti dai miei precedenti spettacoli e brevi incursioni di poesia con versi di Pasolini perché mai come oggi Pasolini si sta rivelando profetico, quindi mi è sembrato giusto onorare colui che è stato non solo un faro ma sicuramente uno dei maggiori esponenti della cultura italiana di tutti i tempi.

La tua parentesi con il Be Quiet ti ha maturato a livello artistico o dobbiamo considerarla semplicemente una parentesi professionale?

L’esperienza del BE Quiet è stata unica, irripetibile di per sé, perché ritrovarsi in un locale underground, una cantina, partire da là e nel giro di sette anni approdare a un palcoscenico come quello del teatro Bellini, ritengo sia una soddisfazione unica per chi ci ha creduto e per chi ha avuto la forza di andare fino in fondo. Però adesso, pur rimanendo il Be Quiet nel mio cuore, vivo un momento di ricerca artistica personale.

Pubblicamente, anche sui social, non ti fai scrupoli di attaccare in maniera diretta un certo mondo dello spettacolo come ad esempio, hai fatto,all’indomani della serata finale di Sanremo. Sulla tua pagina Facebook hai scritto, cito testuale: “Anche quest’anno è andata. Caro Sanremo, io sono fra quelli che davvero non ti hanno onorato. Lo so, sono un peccatore. Non sono venuto alla messa. Non mi sono confessato sui social, non ho invocato questo o quel vincitore e addirittura non ti giustifico come fenomeno di costume. Non trovo utile criticare i soggetti partecipanti, sia i nuovi che i vecchi colpiti dalla sindrome di Dorian Gray. Quello che sento di criticare è la perdita del coraggio. La bellezza, la forza e la profondità di un testo sono oggetto di ghettizzazione. I mecenati hanno lasciato il posto a miopi ed avidi imprenditori dell’usa e getta. Ci si è dimenticato dei poeti: la voce del popolo, l’incarnazione della identità, dell’appartenenza. Il problema non è emergere, quanto cercare di restare a galla senza diventare uno stronzo. Il vero problema è questo andare avanti tanto per andare mentre tutto si va spegnendo lentamente, un camminare senza senso e chi va controsenso in modo ostinato e contrario, trova la risposta a tutta questa follia imperante, nella sua sola solitudine…”

Io non attacco il sistema di per sé. Per chiarirci, artisticamente credo di essere stato sempre ironico ma moderatamente misurato ed oggetto, finora in positivo, della critica altrui. Quello che non sopporto è l’atteggiamento irriverente di taluni che vivono una subnormalità aculturale definendosi o peggio, venendo definiti da cannibali addetti ai lavori e da spettatori buoi, artisti o addirittura poeti. Per me la poesia è un momento sacro che si fa carne e sangue. Il poeta è un Atlante condannato a portare sulle spalle l’imbarazzante peso della memoria del suo popolo. Credo che oggi ci sia molto edonismo da parte di sedicenti poeti e l’aspetto più triste e preoccupante è che vengono definiti tali anche dalla pletora per lo più incolta di facebucchini, che confonde frasi lanciate troppo spesso ad capocchiam nel mare magnum di internet, con la poesia.

Tu sei consapevole che tenendo questo atteggiamento ti fai nemici nell’ambiente?…

Scusa, di che ambiente parliamo? Se ci riferiamo a quello artistico puro, credo che possano soltanto sposare le mie affermazioni perché non ne faccio una questione di superiorità ma di buongusto, di educazione e di rispetto verso coloro che devono ascoltarti e leggerti e comunque non ho mai pensato di condizionare il mio lavoro e il mio pensiero su ciò che può dire o pensare di me la gente.

Per ora L’ultima causa è stato il tuo unico disco, hai in programma di inciderne un altro?

Se trovassi una produzione volenterosa, disposta ad accogliere le mie divagazioni, ne sarei ben lieto. L’importante da parte mia è riuscire a coltivare sempre le parole giuste anche attraverso l’amore che mi viene contraccambiato per quello che cerco di donare dal mio cuore agli altri.

Nicola quanto incide la presenza della famiglia in questo tuo affrontare a viso aperto il mondo dello spettacolo?

La mia famiglia ha compreso le mie esigenze e mai come in questo momento, quando serve, mi è vicina sostenendomi. Diciamo che è passato il tempo in cui mi si chiedeva, mentre componevo, se i ceci dovessero essere cotti con l’aglio o con la cipolla. Ora la porta la si apre in silenzio e, se sto componendo, la si richiude, rimandando la domanda a data da destinarsi anche rischiando di restare digiuno!

Dallo spettacolo che il prossimo 2 marzo terrai a Pozzuoli, che Dragotto ci dobbiamo aspettare?

Il Dragotto di sempre: spontaneo, naturale, agrodolce. All’occorrenza sono critico, duro, ma anche molto irriverente verso me stesso. Quel che conta è divertirmi divertendo, invitando a riflettere e ridere di noi stessi, inventandomi il giusto registro per non annoiare chi ha deciso di investire su di me un paio di ore della propria vita.

Cosa vorresti che si dicesse di te, artisticamente parlando, quando non ci sarai più?

Ti rispondo alla Bukowski: uno stronzo di meno!

 

Vincenzo Giarritiello

DA LUX IN FABULA ELEONORA PUNTILLO, PROFESSIONE GIORNALISTA

eleonora-puntillo-1

Di seguito la versione integrale dell’articolo pubblicato su comunicaresenzafrontiere

Sabato 9 febbraio presso Lux In Fabula, a Pozzuoli, nell’ambito della manifestazione Quattro Chiacchiere Con l’Autore, si è svolto l’incontro con Eleonora Puntillo. Giornalista dal 1961, nel corso di oltre cinquant’anni di attività ha collaborato con L’unità, Paese Sera, La Repubblica, Il Roma, Il Corriere del Mezzogiorno, Il Corriere della Sera e con la rivista Polizia e Democrazia partendo dal ruolo di cronista fino a rivestire quello di capo servizio e inviato.

In poco meno di due ore di chiacchierata, Eleonora ha raccontato svariati episodi della propria carriera giornalistica, iniziando dalla vicenda di Felice Ippolito da lei narrata nel libro FELICE IPPOLITO UNA VITA PER L’ATOMO edito da EDIZIONI SINTESI, in cui racconta dello scienziato Felice Ippolito che, per le sue vedute avveniristiche in campo energetico tese all’utilizzo dell’energia atomica, fu osteggiato e deriso dai poteri, politici e non, dell’epoca.

Stimolata dalle domande e dalle riflessioni del pubblico, commentando la funzione del giornalismo moderno, la Puntillo ha espresso il proprio parere sull’avvento di internet e del digitale; riconoscendo alle nuove tecnologie il merito di aver reso possibile a chiunque l’accesso alle notizie, ma nello stesso tempo stigmatizzandone l’abuso indiscriminato che a suo dire avrebbe svilito una professione “nobile” dando a chiunque la possibilità di fornire informazioni in rete spesso con l’intento di divulgare falsità al fine di confondere le idee al lettore.

Come si conviene a un giornalista di “vecchio stampo”, la Puntillo ha ammesso di essere rimasta indissolubilmente legata alla carta stampata raccontando di quando, inviata a seguire un processo a Salerno, la mattina prima di entrare in aula invitava i colleghi a fare un’abbondante colazione e di come questi invece si limitassero a prendere un caffè per entrare subito in sala, mentre ella si attardava al buffet mangiando di tutto e di più. Ciò comportava che a un certo orario tanti giornalisti, vittime dei morsi della fame, erano costretti a recarsi al bar per mangiare un cornetto “sereticcio”, perdendo l’anima della discussione processuale che proprio in quel momento entrava nel vivo. Viceversa lei, proprio in virtù dell’essersi saziata abbondantemente prima che iniziasse il dibattimento processuale, non essendo afflitta dalla fame, era in grado di raccogliere tutte le informazioni e al momento che dettava il pezzo comunicava dettagliatamente al giornale la notizia, a differenza degli altri colleghi i quali, preso atto di questa sua prerogativa, nei giorni a seguire incominciarono a spulciare alle sue spalle quando scriveva, approfittando della leggibilità della sua scrittura chiara e lineare. Per evitare che continuassero a copiare, essendo laureata in filosofia, iniziò a scrivere gli appunti in greco scalzando tutti.

Parlando dello sgombero del Rione Terra avvenuto il 2 marzo del 1970, e di cui tra due settimane si ricorrerà il 49° anniversario, la giornalista non ha potuto fare a meno di manifestare le proprie perplessità sull’effettiva necessità di quel provvedimento che non solo lei reputa quanto meno avventato.

Ascoltare la Puntillo raccontare della propria esperienza professionale è equivalso a presenziare a una lezione di giornalismo dove il professore ha spalancato senza filtri il proprio animo agli “allievi”.

Grazie Eleonora!

POZZUOLI: TOBIA IODICE PRESENTA IL SUO SAGGIO SU D’ANNUNZIO A NAPOLI

tobia-iodice-870x462

A seguire la versione integrale dell’articolo pubblicato su comunicaresenzafrontiere.it

Piacevole serata venerdì 8 febbraio alla Biblioteca Comunale di Pozzuoli dove si è presentato il volume COME UN SOGNO RAPIDO E VIOLENTO di Tobia Iodice, edito da CARABBA: relatori Grazia Ballicu e Matilde Iaccarino; moderatore Antonio Alosco; in rappresentanza delle istituzioni Maria Teresa Moccia di Fraia Assessore alla cultura del comune di Pozzuoli.

Il libro, un saggio in chiave romanzata, narra il soggiorno di Gabriele D’Annunzio a Napoli tra il 1891 e il 1893: in fuga da Roma dove è pressato dai creditori che, alla sua partenza, gli depredano casa, il 31 agosto del 1891 il vate, uomo sconfitto, giunge in treno a Napoli.

Dopo i continui rifiuti dell’editore Treves a pubblicare L’Innocente ritenendolo un romanzo osceno trattando di un infanticidio, grazie alla pubblicazione in appendice dello stesso sul Corriere di Napoli fondato dai suoi amici Eduardo Scarfoglio e Matilde Serao, la figura di D’annunzio come autore e come uomo si riabilita agli occhi dell’opinione pubblica tanto che non sarebbe errato presumere che da Napoli parta la sua inarrestabile ascesa nell’empireo della poesia.

Amante delle donne e della bella vita che lo portano a essere perennemente a corto di danaro, anche a Napoli il poeta non esita a indebitarsi fino al collo attribuendo le cause della propria “sventura” finanziaria a chi gli suggerì di vivere al civico 9 di viale Elena, oggi viale Gramsci, attribuendogli l’etichetta di iettatore e non alla propria sventatezza nello spendere. Questo suo aspetto superstizioso lo spinge a frequentare gli ambienti occultistici di Napoli dove spicca la figura della medium Eusapia Palladino: D’annunzio partecipa ad alcune sedute spiritiche non tanto per sondare la presunta esistenza del mondo ultraterreno ma per avere un bel terno da giocare al lotto.

Narrando questo particolare peridio dannunziano, il volume di Iodice si avvale di una ricca documentazione storica, arricchita da lunghi spezzoni dell’epistolario tra D’annunzio e la sua amante romana Barbara Leoni a cui il poeta nelle sue quotidiane lettere giura eterno amore e fedeltà quando a Napoli aveva già intessuto la relazione con Maria Gravina, moglie del conte di Anguissola, da cui ebbe Renata la sua unica figlia, e altre liaison che ne rafforzano la fama di irresistibile seduttore.

Mentre nel suo intervento la Iaccarino ha tracciato un quadro pressoché completo dell’opera, soffermandosi su come nel libro si evinca un D’annunzio ottimo imprenditore di se stesso, capace di trovare i fondi necessari per la pubblicazione dei suoi libri, la Ballicu ha messo in risalto gli aspetti tecnici della scrittura di Iodice definendola “analitica e raffinata”, evidenziando il modo in cui l’autore tratteggia in maniera precisa i vari episodi narrati offrendo al lettore tutti i riferimenti affinché si faccia un’idea chiara di quanto avveniva.

Da fine storico qual è il professore Alosco non si è limitato a moderare il tavolo ma ci ha tenuto a precisare che, contrariamente a quanto si presume, D’annunzio non era affatto un nazionalista ma un radical socialista. A sostegno di questa sua considerazione l’illustre storico ha citato la Costituzione del Carnaro, scritta da D’annunzio e promulgata l’8 settembre del 1920 a Fiume, da tanti esperti ritenuta in assoluto la più bella Costituzione finora mai redatta.

Nel suo intervento conclusivo, dopo aver ringraziato il pubblico in sala, l’Assessore Moccia di Fraia ha supposto che durante il suo soggiorno napoletano D’Annunzio avesse visitato anche Pozzuoli, ricevendo assoluta conferma dall’autore a riprova che in passato anche il capoluogo flegreo era meta ambita degli ambienti culturali dell’epoca.

La serata si è conclusa con l’attore Marco Sgamato che ha letto in maniera intensa e coinvolgente alcuni passi del libro, supportato dal commento musicale del maestro Francesco Maggio.

Vincenzo Giarritiello

A POZZUOLI PRESENTATO “ARSENALE DI MEMORIE” DI IDA DI IANNI E MATILDE IACCARINO

fotocopertinaidamati-870x404

Di seguito la versione integrale dell’articolo pubblicato su comunicaresenzafrontiere.it


Pozzuoli.

Penso che chiunque abbia avuto la fortuna di assistere venerdì 1 febbraio nella sala convegni di De Gemmis a Pozzuoli alla presentazione di Arsenale Di Memorie, il libro scritto a quattro mani da Ida Di Ianni e Matilde Iaccarino per Volturnia Edizioni, sarà stato scosso in maniera positiva da un “arsenale” di emozioni grazie alla sincerità con cui le due autrici hanno raccontato la genesi dei rispettivi racconti che compongono il volume – LA BAMBINA AMERICANA Ida Di Ianni e DI MADRE IN FIGLIA Matilde Iaccarino.

Le storie, entrambe autobiografiche, narrano rispettivamente del complesso rapporto tra la Di Ianni e il padre, e Matilde e sua madre.

Il padre di Ida, figlio di quella società contadina arcaica dove l’uomo era il “padrone” e la donna la “serva”, quando la moglie stava per partorirla, organizzò in casa un buffet per brindare con gli amici alla nascita del maschio; cacciandoli via con rabbia quando gli fu comunicato che era nata “una bellissima bambina”.

Con le lacrime agli occhi, spesso interrompendosi per contenere l’emozione, la Di Ianni non ha esitato a condividere con il folto pubblico in sala momenti drammatici della propria esistenza. In particolare quello di questo padre/padrone che giunse a tinteggiare di scuro i vetri delle finestre di casa per impedire alla moglie di guardare fuori.

Un arsenale di memorie forti quello di Ida, addolcito dal ricordo di questa figura paterna invadente e possessiva che però, quando si presentò al colloquio con i professori di liceo, nonostante lei avesse già diciotto anni, non esitò a rivolgersi loro chiedendo “come va la mia bambina?”; dissolvendo in un attimo con quella frase amorevole tutto quel costrutto di autoritarismo che lo permeava, rivelando un animo estremamente dolce.

Il titolo del racconto della Di Ianni prende spunto dal periodo che lei e la sua famiglia vissero in America. Fase esistenziale anche quella non semplice in quanto nessuna delle donne di casa, a partire dalla giovane nonna, accettò il trasferimento oltre oceano.

Momento particolarmente forte della serata è stato quando Ida ha pubblicamente confessato di aver perdonato il padre solo nel momento in cui si ammalò e lei lo accudì facendogli da badante fino alla fine.

Non meno forte per impatto emotivo è stata Matilde Iaccarino parlando della genesi del proprio racconto, un dialogo scritto alcuni mesi dopo la scomparsa della madre con cui non aveva affatto un rapporto semplice ma alla quale deve la propria passione per i libri e il carattere forte e determinato.

Con malinconia l’autrice ha narrato l’episodio che gli raccontava spesso la mamma di quando, poco dopo la guerra, sua madre la portava a vedere il luogo in cui si rifugiavano per ripararsi dai bombardamenti. Indignata per la sporcizia e la promiscuità che lo caratterizzavano, come “risarcimento” pretese in regalo un libro. Da lì non smise più di leggere e i libri sono poi stati il collante per eccellenza attraverso cui lei e Matilde hanno comunicato durante il loro conflittuale rapporto: “hai letto questo libro? Cosa ne pensi? Dovresti leggerlo…”

Con orgoglio Matilde ha narrato che da ragazza la mamma era talmente ribelle da non farsi scrupoli da entrare da sola in un bar per prendere un caffè, suscitando l’indignazione della gente del posto che lo raccontava al padre. Quando questi si lamentò con la moglie, si sentì rispondere: “la ragazza l’ho fatta con due gambe per cui può andare dove le pare!”. Da quel momento “mio nonno non disse più niente!”

Come per la Di Ianni con il padre, anche per Matilde la scrittura ha funto da arcolaio su cui dipanare la matassa dei ricordi dando un senso alle ombre che offuscavano il rapporto materno; un mezzo per rielaborare non solo il lutto derivante dalla scomparsa della madre, ma per comprendere, mentre i ricordi fluivano sulla carta, che in realtà quei conflitti erano sintomo del rispetto e dell’amore che nutrivano reciprocamente l’una per l’altra; che il loro era un normalissimo rapporto madre/figlia.

Se la Di Ianni ha sofferto per la presenza di un padre tiranno che giunse a ripudiarla perché non nacque maschio, Matilde ha sofferto la presenza di una madre che, rimasta vedova prematuramente, dovendo sopperire anche alla figura paterna, non si può escludere abbia strutturato il proprio ruolo in virtù di tale assenza dandole affettivamente meno di quanto avrebbe voluto donarle.

Oltre alle autrici meritano di essere segnalati gli interventi dei due relatori, la poeta Angela Schiavone e il professor Magliulo: la Schiavone ha tracciato per grandi linee le trame dei racconti, soffermandosi per lo più a parlare delle autrici che ben conosce essendo loro amica, tagliandosi un ruolo più da moderatrice che non da relatore; Magliulo ha esaltato l’indiscusso valore sociale del libro definendolo “non un libro privato ma pubblico perché narra il costume italiano, ossia come fino a pochi anni fa la donna fosse ancora vista da molti uomini come una creatura inferiore” e, oggi che finalmente sembra essere riuscita a conquistarsi una propria autonomia, sempre più spesso è vittima della violenza maschile a riprova che molti uomini, non accettando tale condizione di libertà, non si fanno scrupoli di comportarsi come quegli stessi musulmani contro cui inveiscono perché impongo alle donne il burqa, il silenzio e la violenza fisica se disubbidiscono.

Ha chiuso la serata l’intervento dell’assessore alla cultura del comune di Pozzuoli Maria Teresa Moccia Di Fraia la quale non ha nascosto la propria emozione per quanto aveva ascoltato, dicendosi felice che al tavolo sedessero quattro insegnanti – le due autrici e i relatori – “visto che oggi tale figura è sempre più svilita da una società in cui si è perso il senso delle parole”. Di riflesso l’assessore ha citato Lessico Famigliare di Natalia Ginzburg, invitando alla ristrutturazione del lessico affinché si desse nuovamente peso alle parole visto che oggi molte sembrano aver perso il proprio valore.

Vincenzo Giarritiello

QUATTRO CHIACCHIERE CON ENZO GIARRITIELLO

serata lux in fabula

Sabato 10 novembre ha preso il via a Pozzuoli, presso l’associazione culturale Lux In Fabula, la rassegna Quattro Chiacchiere Con L’Autore, una serie di incontri quindicinali con scrittori, poeti, pittori, autori vari in cui ogni artista si racconta.

Ha inaugurato la manifestazione lo scrittore Vincenzo Giarritiello il quale, intervistato dalla poetessa Luisa De Franchis, ha raccontato la genesi dei suoi due primi romanzi, L’Ultima Notte e Signature Rerum-il sussurro della sibilla , di cui si sono letti alcuni estratti; dei laboratori di scrittura creativa per ragazzi che ha tenuto nel corso degli anni in una libreria per ragazzi a Pozzuoli, al IV Circolo didattico di Pozzuoli e alla sezione femminile del carcere minorile di Nisida.

Sollecitato dalla De Franchis, l’autore si è a lungo soffermato su quest’ultima esperienza, definendola in assoluto “la più tosta ma anche la più formativa a livello umano” tra le proprie esperienze legate alla scrittura.

Entrando nel merito della propria attività di scrittore – oltre a L’ULTIMA NOTTE e SIGNATURE RERUM, ha pubblicato la raccolta di racconti LA SCELTA con le Edizioni Tracce di Pescara –, esortato dalle domande della De Franchis sui suoi interessi ermetici che si riflettono in maniera evidente in entrambe le opere, in particolare in SIGNATURE RERUM  al cui inizio è posta una frase di Giamblico tratta da I Misteri Egiziani, (invece quelli che sono migliori di noi conoscono tutta intera la vita dell’anima e tutte le vite precedenti di essa […]) ,  l’autore ha parlato della propria formazione culturale di matrice ermetica,  spiegando che vivere in una terra ricca di storia e, soprattutto, di mistero, come i campi flegrei, è per lui motivo di profonda riflessione e studio sulla vita e su se stesso.

In particolare, riferendosi al mito della sibilla Cumana, argomento di spunto per Signature Rerum, l’autore ha espresso la propria convinzione che l’acropoli di Cuma incarni una sorta di cammino iniziatico visto che l’itinerario si dipana dalle tenebre alla luce:  si parte dall’oscurità dell’antro della sibilla per poi lentamente salire fin su al tempio di Giove, transitando per quello di Apollo posto a metà del percorso.  Schema che ritroviamo tracciato in tante opere di matrice iniziatica tra cui La Divina Commedia di Dante.

La serata è stata allietata dalla presenza del cantautore Nicola Dragotto che, intervallandosi ai relatori, ha suonato alcuni brani tratti dal suo cd L’Ultima Causa.

Il prossimo incontro sarà sabato 24 novembre con il saggista/ studioso di religioni Enzo Di Bonito.

IL TRIBUTO DI POZZUOLI ALLA REGISTA MARIA DI RAZZA

Locandina-GOODBYE-MARILYN-nuova-e1532447792246maria di razza

Pozzuoli non poteva scegliere modo migliore per onorare una propria “figlia”, la regista Maria Di Razza premiata al Festival del Cinema di Venezia 2018 per il cortometraggio animato Goodbye Marilyn: venerdì 9 novembre nella sala Consiliare di Palazzo Migliaresi gremita di pubblico, in presenza dell’Assessore alla Cultura Maria Teresa Di Fraia e dell’esperto di cinema Giuseppe Borrone, raggiunti a fine serata dal Sindaco di Pozzuoli Vincenzo Figliolia trattenuto altrove da impegni istituzionali, è stato tributato il giusto riconoscimento a una donna che ha saputo trasformare la propria passione per il cinema in attività costruttiva e vincente, affiancando umilmente il proprio nome a quello della Loren tra i puteolani finora distintisi nel mondo del cinema.

Già autrice di tre cortometraggi animati altrettanto apprezzati dalla critica – Forbici sul femminicidio; Facing off sull’ossessione del rifacimento estetico del proprio corpo; (In) felix sul dramma della Terra dei fuochi – del cortometraggio Ipazia dedicato alla filosofa greca  trucidata dal fanatismo cristiano, con Goodbye Marilyn la Di Razza ha attualmente raggiunto l’apice della propria carriera cinematografica.

Durante la serata, culminante con la proiezione di Goodbye Marilyn, sono stati proiettati in sequenza cronologica i primi tre cartoni della regista dalla caratteristica di essere muti ma dotati di immagini potenti che denunciano il degrado a vari livelli in cui versa la nostra società. In modo particolare (In)Felix – film a cui la Di Razza ha ammesso d’essere molto legata, ringraziando pubblicamente il disegnatore Domenico Di Francia e l’animatore  Costantino Sgamato entrambi presenti in sala – è un’aperta accusa dell’inquinamento criminale in atto nella Terra Dei fuochi. Il film trae ispirazione dalla relazione finale del geologo Giovanni Balestri sulle condizioni di quel territorio: secondo Balestri entro il 2064 i rifiuti tossici avranno avvelenato le falde acquifere, determinando la sparizione di ogni forma di vita in quelle zone!

Per quanto riguarda Goodbye Marilyn, trattandosi della trasposizione cinematografica dell’omonimo romanzo di Francesco Barilli edito da BeccoGiallo Editore dove si immagina l’ultima intervista di una Marilyn Monroe novantenne a un giornalista, la necessità dell’utilizzo vocale ha spinto la regista a scegliere come doppiatori Maria Pia Di Meo voce italiana di Meryl Streep e il giornalista di Sky Gianni Canova. La bellezza della pellicola è accentuata dalla colonna sonora curata da Antonio Fresa.

Al termine delle proiezioni, la di Razza è stata onorata pubblicamente dal sindaco Figliolia con un breve ma commosso discorso, culminato in un abbraccio fraterno essendo i due amici.

Nei saluti di commiato la regista ha precisato che nel film  la frase finale rivolta da Marilyn al giornalista, “La prego, non mi faccia apparire ridicola”, è la stessa proferita da Marilyn Monroe nella sua ultima intervista prima di suicidarsi.

A conclusione un lungo applauso ha salutato la Di Razza che non ha nascosto le proprie ambizioni da Oscar per il 2020, a conferma che i vincenti pensano sempre in grande.

A questo punto non resta che incrociare le dita augurandole IN BOCCA AL LUPO!

LA BOTTEGA DEI SEMPLICI PENSIERI: COSTRUIRE UN MONDO SENZA DIVERSITA’

signora e ragazze

Martedi 25 settembre, nell’ambito di Malazé, il festival ArcheoEnoGastronomico in corso di svolgimento nei campi flegrei dal 15 al 25 settembre, presso Villa Avellino – Residenza Storica, a Pozzuoli, a partire dalle 19.30 si svolgerà un incontro con lassociazione La Bottega Dei Semplici Pensieri il cui scopo è quello di inserire i ragazzi down in maniera stabile nel mondo del lavoro, attraverso una serie di laboratori di formazione nell’ambito del catering, del bar e della ristorazione che, laddove non si raggiungesse l’obiettivo primario, rappresentano ugualmente una sorta di “percorso terapeutico”, favorendo l’acquisizione da parte dei ragazzi di maggiore indipendenza e autostima.

In quel contesto l’associazione presenterà il progetto Brindisi Solidale che “prevede la nascita di un piccolo apecar modificato dove i ragazzi possono offrire un brindisi agli eventi o a matrimoni, se gli sposi vogliono festeggiare in maniera solidale, a fronte di una donazione.

Al fine di conoscere meglio La Bottega, abbiamo posto alcune domande a Mariolina Trapanese presidente dell’associazione.

 

Signora lo scopo principale della vostra associazione prevede l’adeguata formazione e il successivo inserimento nel mondo del lavoro dei ragazzi down: come nasce tale iniziativa che è sia un onere che un onore sociale?

Nasce da un’esperienza personale di avere un figlio con un deficit intellettivo. Quindi insieme con altre mamme ci siamo incontrate al termine di un ciclo scolastico. Oltre le scuole superiori – i ragazzi hanno frequentato l’istituto alberghiero -, non vedevamo nessun tipo di futuro per i nostri figli. E non volevamo vanificare la loro esperienza scolastica. A questo punto abbiamo detto “ok, diamoci da fare” e abbiamo messo in piedi tutta una serie di attività, attraverso dei progetti, che potessero migliorare sempre di più la loro formazione avvenuta già in età scolare. In questo modo abbiamo creato la nostra associazione, ponendoci l’ambizioso scopo di creare una scuola di formazione per ragazzi diversamente abili. Seppure non le nascondo che le difficoltà sono tante!

Difficoltà di che tipo? 

Purtroppo come associazione non abbiamo una sede adeguata per il tipo di lavoro che facciamo.  Quindi, per il momento, ci adoperiamo con progetti extrasede. Del resto, come lei stesso vede, qui dove stiamo non possiamo fare granché (attualmente la sede dell’associazione è situata  in un appartamento su piano rialzato in un condominio sito in  Corso Italia 388,  a Quarto n.d.r.). Abbiamo fatto la richiesta per avere un bene confiscato al fine di poter disporre di una struttura ricettiva che ci consentisse di creare sia laboratori di formazione che eventi in maniera del tutto autonoma.

Malgrado non abbiate una sede confacente alle vostre necessità, comunque riuscite e fare cose pregevoli come appunto inserire nel mondo del lavoro alcuni dei vostri ragazzi.

Per quanto concerne l’inserimento nel mondo del lavoro, abbiamo cominciato con Garanzia Giovani e tre dei nostri ragazzi sono riusciti a ottenere un contratto di lavoro per sei mesi. Oltre ciò, abbiamo messo a punto dei progetti, tra cui Raccogliendo Mi Trasformo dove i ragazzi stazionano su un campo agricolo dal momento della semina. Questo progetto lo facciamo in collaborazione con l’Università di Agraria di Napoli, presso il centro di sperimentazione a Castel Volturno. I ragazzi seminano il mais e da quel momento in poi seguono tutto il percorso relativo alla trasformazione e crescita del seme in pannocchia. Lo scorso anno ci siamo occupati della produzione della farina di polenta. Quest’anno vogliamo andare oltre, creando dei biscotti. In virtù di ciò ci siamo accordati con delle aziende. Nel caso specifico Casa Infante che accoglie i nostri ragazzi nei suoi laboratori e li avvia, con l’ausilio di tutor, all’autonomia della preparazione dei biscotti. Questo è uno dei traguardi che abbiamo raggiunto nell’anno in corso.

muro bottega

Se non erro avete fatto anche dei corsi per pizzaioli

Abbiamo tenuto un corso per pizzaioli alla Multicenter School. Successivamente i ragazzi hanno fatto esperienze in alcune pizzerie napoletane. Purtroppo tutto si conclude con l’esperienza. Il passaggio successivo che prevede l’integrazione a tempo indeterminato nel mondo del lavoro è molto lontano. Almeno per quel che riguarda il nostro territorio. Questo è il motivo per cui ci siamo dato come obiettivo uno step successivo che contempla la nascita della cooperativa sociale per concretizzare il percorso di formazione compiuto dai ragazzi. A riguardo sempre con la Multicenter School abbiamo creato all’interno dell’istituto un angolo bar, nominato Ke-bar, che in realtà è un’aula di formazione dove i nostri ragazzi, mediante turnover, si alternano al banco in modo da migliorare sempre di più le loro conoscenze, capacità lavorative e il rapporto con l’utenza. A riguardo mi lasci dire che, ragionando con il direttore della scuola, convenimmo che tale esperienza è formativa non solo per i nostri ragazzi, ma anche per gli stessi studenti della Multicenter in quanto li educa ad avere un approccio normale verso ragazzi con deficit di apprendimento.

Le istituzioni vi supportano adeguatamente?

Per alcuni aspetti sicuramente ci sono vicine – approvano, ci danno i patrocini. Ultimamente abbiamo vinto un bando europeo, Benessere giovani, sia con il Comune di Quarto che con quello di Pozzuoli.

Il bando è inerente alle attività specifiche che svolgete, nel senso è legato alla formazione professionale di cui parlavamo prima?

No, creiamo anche altri tipi di laboratori in quanto ci piace ragionare a trecentosessanta gradi per offrire sia l’apertura mentale sia la possibilità di mettere in moto fantasie. Secondo me, la cultura, comunque la tocchi, è una forma di crescita! Con il comune di Quarto metteremo in piedi un laboratorio di mosaico e si chiamerà Mosaicheart con l’ausilio di una docente cui seguirà una mostra dove esporremo le opere dei ragazzi.

Prima mi accennava alle difficoltà che avete nell’interagire con le istituzioni

Purtroppo con le istituzioni non riesco ancora a trovare il giusto interlocutore al fine di ottenere una sede adeguata per tutto ciò che facciamo. Questa è la cosa che più mi addolora. In sei anni che operiamo, penso che abbiamo dimostrato abbondantemente la nostra serietà ed efficacia. E penso che meriteremmo un minimo di attenzione in più da parte delle varie istituzioni, anziché essere sballottati da un ufficio all’altro, uscendone sempre con un pugno di mosche! Da più di anno e mezzo abbiamo fatto richiesta al comune di Quarto di un bene confiscato gestito dal comune. Ma finora non c’è stato nemmeno il varo del bando cui potremmo almeno partecipare. Consideri che all’epoca in cui il Comune fu commissariato, ebbi modo di pqrlare con il commissario, era il vice Prefetto di Napoli, il quale ebbe  modo di apprezzare il progetto, affermando che meritava attenzione.

Mentre invece qual è l’atteggiamento dell’attuale amministrazione?

Per il momento non ho avuto modo di incontrarmi né con il sindaco né con qualche altro rappresentante. Mi hanno detto di aspettare il bando che sarebbe uscito di lì a poco. Per ora nulla. Tuttavia non le nascondo che in noi sta maturando il pensiero e la volontà di spostarci dal territorio flegreo, o almeno da Quarto, per andare verso Napoli. Non è detto che lì non troveremmo maggiore attenzione da parte di chi di dovere.

I ragazzi di cui vi interessate sono locali?

Assolutamente no! Ormai la Bottega è conosciuta per cui da noi vengono non solo dalla zona flegrea ma da Napoli, Secondigliano, Fuorigrotta, Lago Patria. Siamo una realtà ben nota nell’ambiente. Tenga presente che quando inaugurammo il Ke-bar, per il servizio che fece per quell’occasione, il giornalista Giuseppe De Caro fu premiato a livello nazionale. Inoltre abbiamo avuto modo di collaborare anche con l’AIS, l’associazione italiana sommelier, consentendo alla Bottega di crescere e migliorare.

Non le è mai venuto il dubbio che le difficoltà istituzionali possano derivare dal vostro non essere in alcun modo politicizzati, anziché derivare da antipatici intralci burocratici?

Voglio proprio sperare di no! Per le questioni che stiamo trattando credo che l’obiettivo di tutti debba andare al di là delle mere questioni di partito. I ragazzi e le famiglie che si rivolgono a noi lo fanno unicamente perché sanno che cosa facciamo e le opportunità che offriamo loro. Se poi anche in questo contesto entrassero in gioco le beghe politiche, vuol dire che in questo paese, mi riferisco all’Italia in generale, davvero non c’è speranza. Non solo per chi è diverso, ma per tutti. Qui si parla di civiltà e penso che la civiltà debba prescindere dalle casacche di partito. O almeno, dovrebbe!

Al di là dell’introduzione dei vostri ragazzi nel mondo del lavoro, avete altri obietti?

Educare gli altri, i cosiddetti normodotati, a vedere i nostri ragazzi come una risorsa e non un peso per la società.

Cosa farete martedì sera a Villa Avellino?

Proporremo il nostro progetto Brindisi Solidale che prevede la nascita di un piccolo apecar modificato dove i ragazzi possano offrire un brindisi a eventi e matrimoni, se gli sposi volessero festeggiare in maniera solidale, a fronte di una donazione. Per noi martedì sera rappresenta la prova del nove perché per la prima volta i ragazzi si muoveranno in assoluta autonomia fuori dalle tranquille mura di una scuola. E contestualmente lanciare un messaggio sociale che non si riducesse solo agli alunni della Multicenter,  ma venisse recepito dal mondo esterno, facendosi notare e apprezzare come risorse lavorative.

locandina

Avete altri progetti in corso di realizzazione?

Sì, un altro che si chiama “semplicemente chef”  a cui collaborano quattro istituti alberghieri. Si tratta di un contest dedicato esclusivamente a ragazzi diversamente abili: i ragazzi della bottega sono stati preparati da uno chef; quelli della scuola dai loro professori. Ci siamo ritrovati l’anno scorso in un evento organizzato a Gambero Rosso a Nola. Le assicuro che è stata un’esperienza bellissima, entusiasmante. Anche per chi pratica questo mondo ad alto livello come appunto a Gambero Rosso che ci ha accolti e ha potuto valutare di persona che cosa significa dedicarsi ai ragazzi e prepararli.

Lei è convinta che il mondo esterno sia pronto a un confronto di questo genere?

Sì perché già ci hanno chiamato in altri circostanze e i ragazzi ne sono sempre usciti a testa alta.

Nel loro percorso formativo come e da chi sono accompagnati i ragazzi della vostra bottega?

Il nostro punto di partenza era ed è quello di costruire un lavoro integrato. Lo stiamo realizzando grazie alla fortuna di aver incontrato alcuni anni fa cinque/sei ragazzi che vennero da noi tramite la Caritas per esercitare il servizio civile. Da allora questi ragazzi non sono più andati via perché sono rimasti affascinati  dall’idea di una crescita comune. Grazie a questo rapporto sinergico tra il ragazzo normodotato e il diversamente abile, attraverso un lavoro di formazione che prevede per entrambi  la presenza di un tutor, puntiamo a realizzare entro il  2019 la operativa sociale. Questo progetto prevede che i ragazzi normodotati siano integrati ai nostri progetti, divenendo collaboratori dei nostri ragazzi. Una cosa del genere la vedrete già in opera martedì all’Apecar di Villa Avellino.

Signora qual è Il suo sogno nel cassetto?

Vedere realizzata la scuola di formazione e la villa per eventi gestita dai ragazzi. E ovviamente vedere i ragazzi volare via  da questo nido rappresentato dalla bottega per inserirsi con tutti i crismi nel mondo del lavoro e del quotidiano senza alcuna difficoltà!

 

Terminata l’intervista, la signora Trapanese mi presenta due  sue collaboratrici, Elvira e Martina. Ponendosi tra loro, scattiamo la foto che correda l’intervista. Dopo i saluti di commiato, mentre mi accompagna alla porta, la signora mi offre una confezione di biscotti prodotti dai ragazzi della bottega affinché li assaggi: sono ottimi!

 

ALTOFEST: SE LA POLITICA ALZA MURI, LA CULTURA LI ABBATTE

ALTOFEST (1)

Mercoledì 19 settembre, nell’ambito della XIII° edizione di  Malazè – il festival ArcheoEnoGastronomico che è in corso di svolgimento nei campi flegrei dal 15 al 25 settembre -, presso la corte d’ingresso di Villa Avellino – Residenza Storica, a Pozzuoli, si è tenuto un lab con Anna Gesualdi e Giovanni Trono, rappresentati di Altofest, il festival di arti performative, i quali, durante il dibattito moderato da Fabio Borghese, hanno illustrato a un pubblico ristretto ma interessato, cosa è Altofest e quali sono le sue finalità.

Altofest, ci spiega Giovanni Trono, è un progetto che inizia a prendere forma nel 2008, all’epoca della crisi del sistema bancario, per fronteggiare il vuoto di pubblico venutosi a creare nei teatri conseguente al crack finanziario in corso sull’intero pianeta, con l’intento riaccostare le persone al teatro, portando gli artisti tra la gente.

Ufficialmente il festival ha inizio nel 2011 con il coinvolgimento diretto dei cittadini del centro storico di Napoli.

La peculiarità di Altofest è quella di generare una sinergia tra cittadini e artisti, un vero e proprio scambio culturale, tipo quelli che avvengono tra scuole di diverse nazioni: i cittadini ospitano gli artisti nelle proprie case per una decina di giorni; gli artisti esprimono le proprie perfomance nei luoghi che li ospitano, rielaborando la partitura dello spettacolo in rapporto all’ambiente in cui si trovano, muovendosi tra le mura di casa come se fossero in un vero e proprio teatro. Mentre chi li ospita continua a vivere la propria quotidianità in maniera del tutto normale, per nulla condizionato dalla presenza estranea.

In questo modo, chiarisce Anna Gesualdi, si dà esattamente corso al duplice significato del vocabolo ospite che contempla sia chi accoglie che chi viene accolto.

Mentre la selezione degli artisti avviene mediante il varo di un bando globale – per la la selezione delle opere si terrà conto del loro alto impatto estetico in quanto, come chiarisce Anna,  “Altofest segue una visione estetica definita e questa visione estetica ha di conseguenza una ricaduta sociale generando un nuovo linguaggio”-  la scelta del pubblico avviene tramite il passaparola tanto che sono gli stessi cittadini a proporsi agli organizzatori per ospitare gli artisti, permettendo che per una decina di giorni la propria casa si trasformi in un vero e proprio laboratorio teatrale.

Per quanto concerne invece gli spettatori che assisteranno alle varie performance artistiche, sarà stesso chi ospita gli artisti a invitare il pubblico presso la propria casa per assistere allo spettacolo, lasciando che le persone entrino ed escano dalle mura domestiche come se si muovessero in un qualsiasi luogo pubblico.

Questo scambio sinergico tra cittadini e artisti, dove ognuno sacrifica una piccola parte della propria intimità per lasciare spazio all’altro, è un interessante esperimento sociale. Soprattutto in un contesto socio/politico come è quello attuale dove lo straniero è considerato sempre più alla stregua di un nemico da respingere, se non addirittura da combattere, anziché da accogliere.

Un esperimento, Altofest, di notevole interesse sociale e artistico tanto da suscitare l’attenzione della  Fondazione La Valletta e l’organizzazione del festival sull’isola di Malta dal 13 aprile al 13 maggio 2018.

Evento che costrinse i responsabili di Altofest a trasferirsi sull’isola un paio di mesi prima della data di inizio per integrarsi a loro volta con il nuovo ambiente al fine di preparare il “terreno”, così come avviene prima di seminare un campo. Ovvero muoversi tra i quartieri dell’isola per far comprendere ai maltesi, popolo che ha subito due secoli di colonizzazione inglese ed è quindi prevenuto verso lo straniero, cosa esattamente ci si attendeva da loro. Alla fine il festival ha visto il coinvolgimento di ben 11 comunità dell’isola e ha ottenuto un notevole successo a conferma dell’assoluta validità del progetto di matrice napoletana, come ci tengono a precisare con giusto orgoglio Anna e Giovanni.

Laddove la politica edifica muri per difendersi dallo straniero, Altofest li abbatte per far spazio allo straniero!