Chiunque pratichi sport da quando era ragazzo e, raggiunta una certa età, continua inesorabilmente a praticarlo, nel corso degli anni si sarà sicuramente sentito ripetere ironicamente, “ma quando ti decidi ad appendere le scarpette al chiodo?”, se gioca a calcio o corre. Oppure, “ma quando ti decidi ad appendere al chiodo …” qualsiasi altro oggetto caratterizzi la propria passione sportiva.
Io che corro, anzi correvo, dall’età di diciannove anni – tra poco meno di un mese compirò sessant’anni – questa frase me la sono sentita ripetere centinaia di volte. E la mia risposta è stata sempre la stessa, “chi si ferma è perduto!”.
Ora che a causa di un’osteopenia che mi sta lentamente consumando l’osso della caviglia sinistra sono costretto a dover appendere per forza maggiore le scarpette al chiodo, quella frase mi riecheggia in testa in maniera ossessiva come se fosse una sorta di maledizione lanciatami inconsapevolmente e in buona fede da chi ironizzava sulla mia passione sportiva.
Per anni, da solo o con agli amici, ho macinato chilometri con il solo intento di stare bene fisicamente, rilassarmi mentalmente e divertirmi. Fu grazie alla corsa che conobbi Gennaro con cui mi sono allenato per oltre vent’anni, cementando un’amicizia tuttora viva. E fu sempre grazie alla corsa che successivamente conobbi gli amici della Pozzuoli Marathon e mi accostai all’agonismo.
Non sono mai stato assillato dal tempo. Tuttavia devo ammettere che anche io, soprattutto in gara, mentre correvo lanciavo uno sguardo al cronometro. È inutile negarlo, corsa e tempo sono un mix imprescindibile. Il risultato finale testimonia se i sacrifici che hai fatto in allenamento hanno dato i loro frutti. Quando corri, prima di tutto ti confronti con te stesso. E l’esito del confronto è sancito dal tempo in cui chiudi la gara, ti piaccia o meno. Un secondo in più o in meno rispetto alla prestazione precedente hanno un valore inestimabile che può comprendere solo chi corre.
Al di là delle sfumature agonistiche, personalmente la corsa ha sempre rappresentato un momento di aggregazione e di divertimento. Ricordo con piacevole nostalgia le uscite mattutine con Gennaro; quelle con il gruppo di Luisa del quale faceva parte il compianto Peppe. Le uscite domenicali con gli amici della Pozzuoli Marathon. Il pianto di gioia di Paolo durante l’ultimo lungo in vista della maratona di Roma, la sua prima maratona. Non credeva a se stesso, dopo oltre venticinque chilometri di corsa, di avere nelle gambe la forza di accelerare senza alcuna fatica: “Vince’, le gambe vanno, le gambe vanno!” urlava felice come un ragazzino con le lacrime agli occhi.
Non dimenticherò mai la dura confessione di un amico, del rancore che nutriva verso il padre per avergli imposto di andare a lavorare subito dopo aver completato la terza media mentre agli altri fratelli aveva permesso di diplomarsi e di intraprendere delle attività professionali di tutto rispetto. A un certo punto, mentre raccontava, iniziò a piangere chiedendosi “Perché? Perché solo a me ha fatto questo?”.
Non dimenticherò mai le tante sfide che inscenavamo tra di noi mentre ci allenavamo e gli sfottò al termine della “competizione”.
Non dimenticherò mai la mia prima Napoli–Pompei di 28 km; le difficoltà organizzative che la caratterizzarono e la scostumatezza di una vigilessa che, mentre transitavamo per Torre Annunziata, anziché fermare il traffico per farci passare, ci mandò candidamente a quel paese.
Non dimenticherò mai la gioia che provai quando tagliai il traguardo della Coast to Coast (Sorrento –Amalfi) Un’emozione indescrivibile testimoniata dal mio sorriso immortalato dal fotografo di gara all’arrivo dopo 34 km di corsa di cui oltre venti sui tornanti della costiera amalfitana.
Non dimenticherò mai la mia prima maratona. Decisi di correrla a Napoli, motivando quella scelta con il presupposto che, se non l’avessi terminata, avrei preso la metro per tornare a casa. In quell’occasione ad affiancarmi c’era Nunzio, amico di tante avventure in gara con il quale feci anche un pellegrinaggio a piedi da Pozzuoli a Pompei. Un momento indimenticabile che, purtroppo, non potrò ripetere sempre a causa di questa maledetta osteopenia.
Non dimenticherò mai le lunghe corse tra le colline del Casentino Toscano quando con la famiglia mi trasferivo a Raggiolo, in provincia di Arezzo, – cosa che faccio tuttora – per trascorrere le vacanze estive. Una mattina di agosto, in previsione della maratona di Firenze che si sarebbe svolta a fine novembre, corsi poco meno di trenta chilometri. Partii da San Piero in Frassino; risalii verso Poppi per poi proseguire per Bibbiena. A Bibbiena salii fin su il paese per poi scendere dal versante opposto a Corsalone e ritornare a San Piero. Un’emozione unica ma una stanchezza non da poco!
Non dimenticherò mai le risate a Telese dove eravamo per la 10 km. Pioveva a dirotto e, in attesa che si facesse l’orario della partenza, ci riparammo in uno dei gazebo allestiti per i top runner. A un certo punto entrò una hostess e cortesemente ci chiese di uscire perché quelle erano le postazione per i top runner. “Signorina, lì c’è il signor Punziano”, dissi risentito indicandogli Nunzio. “Signor Punziano, mi scusi, non l’avevo riconosciuta” rispose lei intimidita. “Non si preoccupi” rispose lui con aria di sufficienza, seduto sul divano con le gamba accavallate come se davvero fosse stato un top. Quando la poverina uscì ci fu una risata corale.
Non dimenticherò mai i tuffi a mare, subito dopo corso, la domenica mattina sul lungomare di Pozzuoli; le risate e le imprecazioni al termine di una gara; la ricerca disperata di un bagno o di un luogo appartato per svotare la vescica prima della partenza.
Non dimenticherò mai la mattina che con Gennaro intavolammo una lunga discussione su quello che entrambi reputavamo fosse il significato della vita. Per oltre un’ora, mentre correvamo, discutemmo in maniera appassionata, esponendo ognuno le proprie considerazioni. La discussione evaporò al sole nel momento in cui i nostri sguardi si posarono su due bei culi di donna che correvano davanti a noi. In un attimo Platone e la spiritualità lasciarono spazio a ragionamenti e commenti ben più pratici …
Non dimenticherò mai la telefonata allarmata di un amico che mi annunciava il decesso in allenamento di un runner di nostra conoscenza. Decesso poi smentito dallo stesso runner quando un amico chiamò a casa sua per accertarsi di quanto fondata fosse la notizia.
Non dimenticherò mai la telefonata in cui mi si annunciò che lo stesso runner oggetto della falsa notizia di alcuni mesi prima quella mattina era stato colto da un malore ed era grave in ospedale: ci lasciò dopo un mese trascorso in terapia intensiva. Paradossi della vita!
Non dimenticherò mai quella volta che, dopo quasi due settimane di stop forzato dovuto a un’influenza, seppure non fossi guarito del tutto, decisi che l’indomani mattina sarei andato a correre. Mentre mi preparavo gli indumenti per la corsa, il mio secongenito che all’epoca avrà avuto tre/quattro anni mi spiava da dietro la porta. All’improvviso corse in cucina dalla mamma e disse, “Mamma, menomale, papà è guarito, domani va a correre!”.
La corsa è stata non solo il termometro con cui misurare il mio stato di salute, ma anche il mezzo attraverso cui scaricare le tensioni della quotidianità. Quelle volte che rientravo da lavoro incazzato nero e bastava una sciocchezza perché esplodessi in maniera rabbiosa, mia moglie mi suggeriva – per essere siceri più che un suggerimento era un’imposizione -, “Perché non vai a correre?”. Sapeva che quello era l’unico modo che avevo per rilassarmi. In effetti, man mano che correvo, era come se mi alleggerissi dai pensieri e dai problemi della quotidianità, lasciando dietro di me un’invisibile scia di negatività. Quando rientravo a casa da quelle sgambate terapeutiche in cui forzavo sull’acceleratore per sconfiggere il mondo ero talmente rilassato che sembravo un agnellino.
Non dimenticherò mai lo stop obbligatorio imposto dal governo ai runner per arginare il covid. Durante il lockdown, la mattina mi alzavo all’alba, scendevo di casa e correvo facendo un’infinità di giri intorno al palazzo con la consapevolezza che dietro alle finestre qualcuno mi spiava, riconoscendo in me un potenziale untore da denunciare alle autorità. Una cosa alienante ma mai come, penso, dovesse essere correre sul balcone o in casa come in quel periodo fecero tanti runner. Qualcuno, addirittura, correndo tra le pareti domestiche, riuscì a completare una maratona: allucinante!
Non dimenticherò mai la gioia che provai quando il governo finalmente decretò che si poteva tornare a correre in strada, seppure imponendo tutta una serie di misure restrittive. Come al solito con cli amici ci davamo appuntamento giù Via Napoli, ma non dovevamo correre in più di due altrimenti rapppresentavamo un gruppo e potevamo essere sanzionati dalle autorità che vigilavano in strada. Per cui corrrevamo defilati uno dietro l’altro, alternandoci al fianco per scambiare quattro chiacchiere, tenendoci distanziati di un metro, come imposto all’epoca dalla legge, per non correre il rischio di infettarci, essere fermati e denunciati. Oggi tutto ciò sembra un’assurdità ma all’epoca era necessario per fronteggiare il “nemico” invisibile.
Poiché le scarpette vanno cambiate mediamente ogni 500/600 chilometri in quanto la suola, consumandosi, perde l’ammortizzazione diventando pericolosa per le articolazioni, negli anni di scarpette ne ho cambiate un bel po’. Ogni paio che ho calzato lo considero un quaderno su cui ho scritto le mie storie di runner.
Quelle scarpette che ora pendono mestamente al chiodo sono il libro che le contengono tutte perché queste storie sono parte della mia vita. Averle vissute lo considero un privilegio, un regalo della vita. Nulla e nessuno può cancellarle, nemmeno l’osteopenia.